Pechino parla con Renzi ma scruta le nostre piccole imprese
Non solo accordi con grandi imprese e partecipate nel tour del governo. La Cina s’ispira al modello delle Pmi.
Ieri il primo impatto con Shanghai, davanti alla comunità finanziaria. Oggi Matteo Renzi arriverà a Pechino. Inaugurazione del business Forum Italia-Cina nella sede dell’Assemblea nazionale del popolo, su Piazza Tiananmen. Al seguito imprenditori confindustriali, manager delle partecipate di stato (Enel, Finmeccanica, Ansaldo), banche (Unicredit). In programma trenta accordi economici (preliminari): dall’energia al tessile, passando per il credito per le piccole e medie imprese. Infine un incontro con il premier Li Keqiang. La prima visita asiatica di Renzi, iniziata in Vietnam e che finirà in Kazakistan, prende dunque forma e culminerà con la partecipazione al programma del prime time sulla tivù di stato cinese Cctv2. Domani Renzi registrerà la puntata di “Dialogue”, il “Porta a Porta” cinese, un faccia a faccia con il conduttore Yang Rui. Renzi spiegherà il suo tentativo riformatore, esalterà il made in Italy e probabilmente durante l’ora di diretta gli sarà chiesto dello stato di salute del capitalismo famigliare italiano. Perché l’evoluzione delle nostre piccole e medie imprese è tema ufficialmente all’attenzione del governo di Pechino almeno da un anno. I cinesi vorrebbero trarne ispirazione, con qualche avvertenza, per capire come aggiustare la governance delle imprese di stato e delle conglomerate a conduzione famigliare sviluppatesi negli anni Ottanta. La questione non è di poco conto. Le grandi società controllate dal governo stanno perdendo il favore degli investitori che pure le inondarono di capitali quando si quotarono in Borsa nei primi anni Duemila: tra una relazione incestuosa con le banche pubbliche, scandali di corruzione e utili scarsi, servono riforme senza indugi, scriveva l’Economist in uno speciale sulla cavalcata delle multinazionali asiatiche. D’altronde anche le conglomerate famigliari devono gestire la successione dai padri ai figli, con l’esigenza di dare spazio a manager internazionali, capaci di sviluppare strategie di marketing efficaci nell’economia 2.0. Per dirla col premio Nobel per l’Economia Ronald Coase: “La Cina ha sviluppato un mercato robusto per le merci, ma manca ancora un libero mercato delle idee”. Per avere qualche spunto in più Pechino cerca consigli dagli esperti, italiani inclusi.
Il caso italiano è portato all’attenzione dei reggenti del Partito comunista da Airaldo Piva, manager accreditato dal governo come “Foreign expert” per l’internazionalizzazione delle imprese private. Piva è ai vertici europei della terza conglomerata cinese per fatturato, la Hengdian Group, impresa famigliare fondata negli anni 70 con interessi che vanno dall’industria elettronica, cinematografica a quella farmaceutica. “L’Italia in molti casi è alla quarta generazione di imprenditori, le imprese cinesi ‘più vecchie’ sono solo alla seconda. Possiamo quindi condividere le nostre esperienze soprattutto in fatto di successione tra una generazione e l’altra”, dice Piva al Foglio. “Devono riformare la governance: proprietà, controllo e gestione spesso coincidono, come da noi d’altronde, e se fare tutto in famiglia poteva garantire rapidità nelle decisioni, adesso occorrono funzioni separate all’interno del board e manager capaci di andare all’estero e dialogare con la comunità occidentale”. Pechino terrà conto delle indicazioni per fare moral suasion o per introdurre innovazioni normative. L’interesse dei cinesi verso le piccole e medie imprese italiane non è del tutto nuovo. Quindici anni fa si interessarono ai distretti del tessile, dell’arredamento o della ceramica, pensando forse che l’apertura di uno stabilimento produttivo a Sassuolo o a Bari fosse pianificata dallo stato italiano. Con lo stesso interesse per la pianificazione pubblica guardarono alla struttura delle partecipazioni statali dell’Iri sotto il governo riformatore di Deng Xiaoping. Può sembrare paradossale che il capitalismo cinese che pendeva dalle labbra di guru come Bill Gates (Microsoft), Lee Iacocca (che salvò Chrysler negli anni Ottanta) o Akio Morita (fondatore della Sony) ora guardi anche al pigro capitalismo italiano. “Stanno cercando modelli, esempi, ma il loro dramma psicologico è che hanno problemi così peculiari e così vasti, dall’inquinamento, al credito avaro per i privati ma generosissimo per il pubblico, che ormai non possono copiare da nessuno”, dice Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia e ad di Mandarin Capital. “Ci sono tanti modelli, ma adesso ‘they are on their own’, sono del tutto soli”.
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