Come la pensa la New Right
Così i conservatori moderati si fanno strada nella classe media. Vogliono creare un linguaggio conservatore in grado di parlare in modo convincente alle minoranze, ai giovani, alle donne; sono aperturisti sulla riforma dell’immigrazione, parlano di “common sense”.
New York. Il primo tentativo organico di autocritica dei repubblicani dopo la disastrosa sconfitta di Mitt Romney nel 2012 si è condensato in un documento ufficialmente intitolato “Growth and Opportunity Project”, meglio noto fra gli osservatori politici come “l’autopsia”. Nomignolo tristemente azzeccato, perché era l’analisi di un corpo morto, non la terapia per un malato. Si spiegava nel dettaglio che il partito “si è marginalizzato”, non attira i giovani, è “scollegato dalla realtà”, “non si cura dei suoi elettori”, è troppo vecchio, troppo bianco, troppo legato a un orizzonte morale démodé per “sperare di vincere un’elezione nel prossimo futuro”. L’autopsia rilevava un danno strutturale nell’organismo: la risposta repubblicana ai problemi dell’America di oggi, e specialmente della middle class impoverita e bisognosa di protezione, è inadeguata, e le tendenze demografiche – poche nascite, molti immigrati, famiglie che si sfilacciano, aumento dei single – favoriscono naturalmente i democratici. Questa era la risposta, se così la si vuole chiamare, del Partito repubblicano a una débâcle elettorale che era il sintomo di un morbo in via di cronicizzazione. La storia dei conservatori avviati verso l’irrilevanza, ostaggio del populismo pazzotico e fanfarone del Tea Party, prigionieri di schemi politici difettosi è diventata un luogo comune nazionale e globale. La “maggioranza democratica emergente” di Ruy Teixeira e John Judis (2002) ha definitivamente rimpiazzato la “maggioranza repubblicana emergente” di Kevin Phillips (1968). Il consigliere di Nixon guardava la cartina degli Stati Uniti e diceva “chi ha bisogno di Manhattan quando ci bastano i voti degli stati del sud per vincere?”, ora gli strateghi dicono che nel giro di una generazione anche il Texas sarà in mano ai democratici. L’unica certezza, in questo contesto, è che la destra americana ha bisogno di passare dall’autopsia alla terapia.
[**Video_box_2**]I “policy wonk” della destra Il libro “Room to grow”, raccolta di idee innovative per rifondare la policy conservatrice, è in qualche modo la pars construens che mancava fra quelle funeree disamine. L’editorialista conservatore David Brooks non esagera quando dice che questa collezione di saggi è “la più coerente e convincente agenda politica che la destra americana ha prodotto in questo secolo”, perché in casa conservatrice il recente passato è stato soprattutto dominato da riproposizioni dell’ortodossia repubblicana tradizionale, liberista e reaganiana, o dalle iperboli libertarie della famiglia Paul confluite a livello popolare nel fenomeno del Tea Party, difficilmente classificabili fra i tentativi di vergare una politica “coerente e convincente”. “Room to grow” è l’espressione della “New Right”, un gassoso network di intellettuali conservatori riformisti (o riformisti conservatori, anche “reformicon”) che si sta condensando attorno a riviste come National Affairs e la storica National Review, think tank come l’American Enterprise Institute, che il presidente Arthur Brooks ha trasformato da centro studi neoconservatore orientato in modo prevalente sulla politica estera in fucina di proposte domestiche, dalle tasse al sistema di welfare, fino al cruciale ruolo dei corpi intermedi nella società.
L’Ethics and Public Policy Center, dove lavorano Peter Wehner e Yuval Levin, strateghi politici attivi nelle amministrazioni Reagan e in quelle dei due Bush nonché autori fondamentali di “Room to grow”, ha prodotto critiche pungenti alla logica asfittica e corporativa del “crony capitalism” promosso tanto dai democratici quanto dai repubblicani per gonfiare a dismisura lobby e grandi aziende, a spese della middle class. Uno dei primi obiettivi della “New Right” è di “cambiare l’idea che il Gop sia impegnato in una lotta di classe per conto dei ricchi”, e non è soltanto un’operazione di cosmesi per abbellire il partito in un momento in cui i libri di Thomas Piketty vendono più di quelli di Milton Friedman, ma una ricetta per liberare la vera forza del capitalismo. Non si tratta soltanto di una competizione fra intransigenti e moderati. Ross Douthat, editorialista conservatore del New York Times e parte integrante di questo movimento, dice che “le riforme conservatrici sono conservatrici”, non hanno nulla di eterodosso, vengono comprensibilmente contestate dai liberal, non sono un surrogato ad alta digeribilità del conservatorismo originale, si appellano a una concezione anticentralista dello stato che persino Brooks, nel senso di David, definisce “troppo jeffersoniana”, cioè eccessivamente antagonista rispetto alla visione positiva dello stato centrale promossa da Alexander Hamilton. L’ambizione della “New Right” è di restaurare il conservatorismo che si è perso nelle nebbie della “Right Nation” o continua a vagheggiare un passato leggendario, non di proporne una versione edulcorata.
Due urrà per il capitalismo Gli intellettuali “reformicon” sono “policy wonk”, secchioni della politica, molti sono giovani e con poca esperienza nelle stanze di Washington dove le idee si trasformano in decisioni, masticano con piacere numeri e tabelle, attività che sembrava appannaggio esclusivo dei secchioni cool di sinistra, non vengono citati dagli imbonitori radiofonici della destra che parla alla pancia e hanno una certa tendenza a muoversi nell’ambito delle proposte realizzabili più che in quello delle agende impossibili. Non invocano l’abolizione della Fed e la legalizzazione dell’eroina. Vogliono creare un linguaggio conservatore in grado di parlare in modo convincente alle minoranze, ai giovani, alle donne; sono aperturisti sulla riforma dell’immigrazione, parlano di “common sense”, si occupano di lotta alla povertà, welfare e solidarietà, temi per decenni lasciati alla sinistra, spiegano il valore del matrimonio e della famiglia a partire dagli effetti benefici che hanno sulle diseguaglianze economiche, non dal Vangelo (anche se molti di loro credono anche in quello). Sono a favore del mercato, ma diffidano del liberismo sfrenato e senza regole, secondo la tradizione neoconservatrice di Irving Kristol, che dedicava soltanto due “urrà”, e non tre, al capitalismo e fra gli economisti austriaci prediligeva lo Schumpeter della “distruzione creatrice”. In alcuni si scorgono riferimenti al distributismo di Fritz Schumacher e alla dottrina sociale della chiesa. Il punto di riferimento, dicono, è la middle class. Già, ma che cos’è la middle class oggi? “Sono gli americani – scrive Wehner – che non si considerano né ricchi né poveri, e che immaginano di poter diventare entrambe le cose”. Il tratto caratteristico della classe media americana di oggi non è la stabilità, ma la mobilità, che contiene anche il potenziale negativo, mobilità verso il basso. Da qui si parte.
“Room to grow” è la sintesi della visione dei “reformicon” articolata in dieci capitoli su altrettanti pilastri della policy. L’esperto di politiche sanitarie James Capretta invoca una riforma in senso mercatista (e non una mirabolante revoca) dell’Obamacare, sistema che “dopo essere costato allo stato 2 mila miliardi di dollari lascerà nel 2021 31 milioni di americani senza assicurazione”. L’obiettivo di Capretta è “di sinistra”, estendere il più possibile la copertura sanitaria. Ma propone di farlo promuovendo l’interazione fra singoli stati e privati, limitando le funzioni dello stato centrale inefficiente e sprecone.
In campo fiscale l’ex funzionario del Tesoro Robert Stein sostiene che i conservatori dovrebbero smettere di invocare tagli diretti alle tasse sul reddito privato (poco efficace per spingere la crescita) per concentrarsi invece sugli sgravi per le famiglie, che in un colpo solo conferirebbero potere d’acquisto alla middle class e darebbero una scudisciata all’invadenza dello stato. Frederick Hess e Andrew Kelly (Aei) articolano la riforma del sistema scolastico e universitario seguendo i criteri di deregolamentazione e la lotta all’immobilismo dei sindacati che ha portato, ad esempio, una città come New Orleans a liberarsi in toto dal fardello delle scuole pubbliche. L’economista James Pethokoukis sostiene che occorre abbattere le regolamentazioni che, con il pretesto di assicurare parità di trattamento, difendono gli interessi dei grandi player del mercato e deprimono la competitività. Parla di “permissionless innovation”, ovvero la possibilità di sperimentare nuovi modelli di business senza timore di finire incagliati nel ginepraio della burocrazia. Bradford Wilcox, sociologo della University of Virginia, suggerisce sgravi ficali e assegni familiari per rimettere in sesto il pilastro del sogno americano, la famiglia. Ramesh Ponnuru della National Review ricorda che tutti questi princìpi non sono un patrimonio conservatore, ma derivano semplicemente dalla Costituzione. I conservatori più intransigenti dovranno turarsi il naso mentre leggono il saggio in cui Scott Winship, ricercatore del Manhattan Institute, propone di combattere la povertà con un sistema di crediti modellato su quello introdotto in Inghilterra nel 2010. La proposta implica di fatto un aumento della spesa pubblica, anatema per la destra figlia di Reagan.
Il “parricidio di Reagan” Il filo conduttore fra le proposte lo spiega Wehner: “I conservatori devono mettere da parte l’abitudine di parlare come se le soluzioni che abbiamo offerto una generazione fa funzionassero allo stesso modo oggi. La verità è che molte politiche conservatrici hanno funzionato negli anni Ottanta, ma le condizioni sono cambiate, spesso radicalmente, e i conservatori non sono cambiati a sufficienza”. Non basta tagliare le tasse. Non basta affamare la bestia. Non basta affidarsi al mercato, sfrondare i regolamenti , non pensare al debito “che è abbastanza grande per bastare a se stesso”, dicono i “reformicon”, andando pericolosamente a toccare i paramenti sacri della tradizione reaganiana. Geoffrey Kabaservice, storico dei conservatori americani e autore di “Rule and Ruin”, volume fondamentale sui repubblicani moderati, spiega al Foglio che questo è “il parricidio di Reagan”, e si tratta della “cosa più interessante che questo gruppo di riformisti propone, perché i conservatori sono schiavi di quella stagione. E’ diventata un mito, ma dovrebbero rendersi conto che le soluzioni di trent’anni fa non hanno senso oggi, mentre loro sono bloccati in un passato glorioso”. Il limite dei riformisti, invece, sta nel fatto “che la politica li sta trattando piuttosto male”, dice Kabaservice. “Sono intellettuali con idee fresche, ma pochissimi di loro sono stati effettivamente coinvolti nei ministeri, negli uffici politici, nelle commissioni, e anche i politici che li vedono con favore hanno paura di associarsi troppo a loro, perché questo li farebbe apparire come dei pericolosi moderati”.
Gli sponsor di questo movimento sono innanzitutto le “Young Guns”: Paul Ryan, Kevin McCarthy e il povero Eric Cantor, leader della Camera spazzato via alle primarie in Virginia da un improvvisato (e squattrinato) beniamino del Tea Party. La morte politica di Cantor è arrivata dall’appoggio alla riforma sull’immigrazione. Subito dietro ci sono il senatore Marco Rubio, altro sostenitore della riforma, e Mike Lee, sodale dell’arcigno Ted Cruz che però simpatizza fortemente con i riformisti quando si tratta di politiche per la famiglia e contro la povertà. Anni fa certe aperture al centro su temi delicati come la sanità o la spesa pubblica potevano costare il posto ai repubblicani nei centri studi, con l’accusa di diserzione e tradimento. David Frum, ex speechwriter di Bush, è stato cacciato dall’American Enterprise Institute per aver commentato positivamente alcune parti dell’Obamacare. Ora i centri studi non sono un problema per i riformisti, il problema è trovare uno sponsor politico che porti questi intellettuali dalle scrivanie dei think tank a quelle del Congresso e magari, nel tempo, a quelle della Casa Bianca. Perché non Jeb Bush? “Jeb Bush è l’uomo perfetto – dice Kabaservice – dal punto di vista delle idee e della policy. In un’eventuale corsa per la Casa Bianca lo vedrei benissimo affiancato da molti degli autori di questo documento, il problema di Bush è che è debole a destra. Sarebbe, io credo, competitivo in un’elezione generale, ma i repubblicani dell’establishment non lo possono vedere, non si fidano, lo considerano un traditore, disprezzano la sua impostazione del problema dell’immigrazione. Guarda cos’è successo a Cantor!”. Per i rappresentanti dei “reformicon” sopravvivere alle primarie è l’unico pensiero: “Il Tea Party ha modificato il codice genetico del Partito repubblicano, spostandolo a destra, questo crea strani giochi di prospettiva. Quelli che ora consideriamo riformisti o moderati sono in realtà conservatori mainstream costretti a virare ancora più a destra per non essere spazzati via”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano