Iraq arrangiati da solo
L’Amministrazione Obama respinge per ora la richiesta pressante del governo iracheno, che vorrebbe di nuovo bombardamenti aerei americani in Iraq per fermare l’avanzata dello Stato islamico.
L’Amministrazione Obama respinge per ora la richiesta pressante del governo iracheno, che vorrebbe di nuovo bombardamenti aerei americani in Iraq per fermare l’avanzata dello Stato islamico. E intanto fa evacuare con tre aerei gli istruttori militari americani a nord di Baghdad, come se fosse Saigon nel 1975. L’Iran manda la Brigata Quds, le forze speciali delle Guardie della rivoluzione, a combattere con gli iracheni per riprendere Tikrit, secondo fonti del Wall Stret Journal. Baghdad aveva cominciato già l’anno scorso a chiedere una campagna con i droni sul modello di quelle in Pakistan e in Yemen, A marzo la richiesta è stata rinnovata a una delegazione americana di esperti di sicurezza in visita a Baghdad.
L’11 maggio il primo ministro Nouri al Maliki ha chiesto al generale che presiede il Central Command (il settore del Pentagono che si occupa del medio oriente) che gli americani dessero all’Iraq i droni e il 16 maggio ha telefonato al vicepresidente Joe Biden, per dire: fate voi, usate i vostri droni liberamente per colpire in Iraq. Alla telefonata è seguita una richiesta scritta, che non ha portato a nulla. Obama l’anno scorso ha concesso due mesi di voli di droni – a novembre e dicembre – in ricognizione sulla provincia di Anbar, che è una zona dove la guerriglia è forte, ma erano droni disarmati.
Se Maliki chiedeva droni e bombardamenti il 16 maggio, chissà oggi che la situazione in Iraq è decisamente più grave. C’è stata una escalation dei combattimenti e lo Stato islamico, il gruppo militare che vuole fondare un Califfato islamista, dopo avere preso tre città nel nord ora dichiara di volere conquistare la capitale Baghdad.
Il presidente americano Obama si trova davanti un’alternativa impossibile. Se interviene e ordina di bombardare apre un ennesimo fronte di guerra, getta via tutta la narrativa della promessa rispettata sul ritiro americano dall’Iraq nel 2011 e si schiera al fianco del primo ministro iracheno – che con la sua odiosa politica antisunnita ha creato le condizioni per questa esplosione di violenza (su questo Dexter Filkins ha scritto un articolo importante pubblicato ad aprile sul New Yorker). Se Obama non fa nulla, rischia che la situazione peggiori, che comincino combattimenti nelle strade di Baghdad, che l’intero paese precipiti in una fase d’instabilità assai pericolosa (anche per il commercio del petrolio, tra le altre cose), che potrebbe persino obbligare Washington a schierarsi con il presidente siriano Bashar el Assad (come ipotizzano alcune fonti del governo americano sentite dal Wall Street Journal).
Ieri il presidente americano ha detto che “non esclude alcuna opzione” e che sta monitorando da lungo tempo la situazione sul terreno e anche che l’America sente l’impegno a fare sì che “questi jihadisti non mettano radici né in Iraq né in Siria”. Se Obama non annuncia misure specifiche, il presidente iraniano Hassan Rohani ha detto che il paese “è pronto a combattere il terrorismo in Iraq”. Il governo di Teheran ha piazzato la linea rossa che lo Stato islamico non deve attraversare all’altezza della città di Samarra, 150 chilometri a nord della capitale. Il capo della Brigata Quds, l’unità specializzata nelle operazioni all’estero dei Guardiani della rivoluzione, il generale Qassem Soleimani, in questi giorni è stato avvistato a Baghdad per organizzare la resistenza allo Stato islamico. Da notare che una delle misure annunciate dal primo ministro iracheno – la creazione di squadre armate di cittadini volontari – ricalca un modello già sperimentato da Soleimani con successo in Siria contro i ribelli.
Per ora, scrive il New York Times, l’Amministrazione non è interessata ad agire militarmente. “Alla fine, questo è un problema che devono risolvere il governo e le forze di sicurezza dell’Iraq”, dice il portavoce del Pentagono, l’ammiraglio John F. Kirby. Un funzionario anonimo dice al Wall Street Journal che la volontà della Casa Bianca di intervenire dipenderà da quanto lo Stato islamico sarà considerato una minaccia diretta alla sicurezza americanai. “Ci sarebbe bisogno di un enome impegno militare per fare la differenza, e non c’è nessuna voglia”.
[**Video_box_2**]Washington potrebbe accelerare sulla linea tenuta finora, quella di un appoggio esterno con armi, addestramento e intelligence. Il pacchetto d’aiuto militari americani a Maliki è costato per ora 14 miliardi di dollari e include jet F-16 (però i primi due arriveranno soltanto a settembre), sei elicotteri da guerra Apache in leasing (non ancora arrivati), fucili M-16 ( che i soldati iracheni in fuga spesso lasciano nelle mani dei nemici) e missili Hellfire, che servono per i bombardamenti mirati (100 a dicembre e adesso, secondo le notizie di due giorni fa, altri trecento). Questa settimana in Giordania comincia un corso d’addestramento per truppe irachene condotto da istruttori delle Forze speciali americane, ma si tratta di numeri bassi. I soldi investiti nell’esercito iracheno sono finiti in un disastro, notava il New York Times due giorni fa, con un articolo devastante che implicitamente ridicolizzava la linea dell’Amministrazione sull’Iraq. I soldati disertano in massa oppure sono feriti o uccisi al ritmo insostenibile di 300 al giorno, diecimila al mese. James Dubik, un generale in congedo che durante la guerra si occupava di addestrare gli iracheni, dice al Nyt le parole proibite: “Dovremmo mandare droni, aerei e consiglieri militari su terreno, in grado di aiutarli prima a difendersi e poi a passare al contrattacco”.
Il Wall Street Journal ieri ha raccontato di un’Amministrazione Obama colta completamente di sorpresa dall’avanzata lampo dello Stato islamico in Iraq. Mercoledì pomeriggio c’è stato un incontro d’emergenza alla Casa Bianca per capire cosa fare. “L’Amministrazione Obama, incapace di agire direttamente in Iraq dopo il ritiro e senza alcuna voglia di intervenire in Siria per timore di invischiarsi in un altro conflitto, non ha più molte opzioni secondo funzionari di alto livello della Difesa e dell’intelligence”, scrive il quotidiano americano.
Per ora, in Iraq, il contenimento contro lo Stato islamico è rimasto nelle mani della minoranza semiautonoma curda, che ieri ha occupato la città di Kirkuk dopo che i soldati sono fuggiti e hanno abbandonato le loro caserme. Al contrario dell’esercito del governo centrale, i peshmerga curdi sono motivati e disciplinati, ma non combatteranno per Baghdad senza chiedere i cambio ancora più autonomia.
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