Paolo Ruffini (foto LaPresse)

Troppo bello questo gran Ruffini che sbertuccia i noiosoni del cinemino

Marianna Rizzini

“Mai fidarsi della gente che non sa scherzare, che considera la felicità sospetta, che bandisce la leggerezza, che confonde l’antipatia con l’intelligenza”. Lo dice Paolo Ruffini, il trentacinquenne attore e regista livornese criticato per aver dato della "topa" a Sophia Loren.

“Mai fidarsi della gente che non sa scherzare, che considera la felicità sospetta, che bandisce la leggerezza, che confonde l’antipatia con l’intelligenza”. Lo dice Paolo Ruffini, il trentacinquenne attore e regista livornese che due sere fa, conducendo la cerimonia di premiazione dei David di Donatello, animato dall’idea di “raggiungere con la simpatia” un pubblico più vasto di quello sognato dai cinéphile, si è ritrovato bersaglio mobile di una campagna di indignazione (e insulti) su Twitter nonché, in modo più sottile, in sala. Motivi: aver salutato Sophia Loren con un toscanissimo complimento (“topa meravigliosa”), che a Benigni sarebbe stato concesso, e soprattutto aver osato dimenticare che il regista Marco Bellocchio era stato già “scoperto” a New York mezzo secolo fa, e non solo due mesi fa con una retrospettiva al Moma, quella citata da lui (e dunque come ti permetti, Ruffini, di trattare l’Autore con la A maiuscola come una qualsiasi novità mediatica?, diceva la faccia degli scandalizzati in sala e l’orda dei barbari sul web, mentre Ruffini pensava tra sé e sé “ma cosa dovevo chiedergli, a Bellocchio? Di farci una dissertazione sull’eutanasia?”).

 

Non voleva sbalordire i borghesi, Ruffini, anche coautore della serata sotto l’occhio esperto di Marco Giusti e oggi sul set del suo prossimo film “Tutto molto bello”, che fin dal titolo “toglie di mezzo ogni negatività”: “Il cinema deve far star bene la gente”, dice, “io voglio aiutarla a stare bene raccontando una storia, e cerco in questo di fare del mio meglio”. Il suo precedente lungometraggio, “Fuga di cervelli”, è andato bene al botteghino, cosa che già di per sé non sta bene dire, in certi ambienti (“cinepanettone, mi dicono, e vabbè. Ma vi siete resi conto che ai David Checco Zalone è bandito anche dai discorsi?”). “Se per alcuni faccio brutti film mi dispiaccio”, dice Ruffini, “dopodiché pazienza: non è che facciamo un lavoro così importante, dobbiamo anche ricordarcene, a volte. Non siamo oncologi che salvano la gente, e neanche governanti”.E però, evidentemente, non era la leggerezza lo stato d’animo predominante nella solita sala del David di Donatello (“pubblico di spocchiosi e rompicoglioni”, aveva detto Ruffini il giorno dopo il fattaccio alla “Zanzara”, su Radio24). Un parterre uguale, quello del David, al parterre di duemila manifestazioni cinematografiche (festivaliere e non) dove duecento addetti ai lavori che si conoscono tutti da venti o trent’anni e si omaggiano anche sparlandosi dietro da venti o trent’anni, si salutano come fossero a casa loro, parlano in codice anche dal palco (i telespettatori chi li conosce), arrivano tardi (e invece c’è la diretta tv) e si offendono per puro narcisismo, come sempre accade tra chi si frequenta soltanto tra “ammessi al circoletto”, cantandosela e suonandosela che è una bellezza. Il “caso” è nato proprio lì, nella sala dove la massima aspirazione “pareva quella di fare una messa funeraria seriosa, mentre la vera serietà per me è lo scherzo”, dice il conduttore, ed è dilagato sul web “dove più fai attacchi feroci nell’anonimato e più ti senti figo” e dove “ammettere che ti è piaciuta una cosa popolare e di successo è considerato disdicevole”.

 

Eccolo, il “caso”: giovane attore di Livorno rompe la sacralità dell’Autore e “fa la gaffe in dialetto” con la grande Diva (per giunta con una parola che “in bocca a Luciana Littizzetto”, dice Ruffini, sarebbe stata considerata normale. “E poi: è una gaffe dire a una donna bella che è bellissima? Ma pensa quanto tempo da perdere devono avere quelli che se la prendono per una cosa del genere, pensavo oggi girando il mio film all’Ospedale Spallanzani di Roma, malattie infettive, con tutti i pazienti con la mascherina e noi a dibattere sul grande tema: ‘Topa è un termine offensivo oppure no?’”). Ma forse il vero motivo del “rigetto” dell’ambiente sta nell’idea di cinema di Ruffini, un cinema per il pubblico, un cinema che non si vergogna di essere “popolare”: “Sono un artigiano. Se poi tu sei autore e prendi l’Oscar tanto di cappello” (il premio Oscar Paolo Sorrentino, sempre ai David, non si è profuso in smancerie con il conduttore. Il sarcastico Valerio Mastandrea invece scherzava, dice Ruffini). Non pentito e neppure stupìto, l’attore livornese che ormai non vive più nella Livorno pazzerella dello sberleffo alla sinistra storica (ora c’è un sindaco grillino), si dice comunque felice al pensiero del David vinto dal conterraneo e mentore Paolo Virzì, e spera tanto che gli altri, un giorno, “imparino a rilassarsi”.1

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.