Cherchez les femmes
Da Chiara Rizzo a Lady Poggiolini a Lia Sartori a Elisabetta Tulliani. L’Italia scopre di essere fondata anche sugli umori e i malumori delle donne. Il caso di Veronica Lario.
Chiara Rizzo in Matacena, Lia Sartori, Claudia Minutillo: nuove facce e nuove protagoniste femminili del sequel via via sempre più ripetitivo, sempre più confuso e sempre più incomprensibile di quel film – la cui sceneggiatura appariva già scadente nel 1992, all’epoca di Tangentopoli e Mani pulite – intitolato “Politica e malaffare”. La grande giostra che mai smette di girare ci riporta incessantemente, come in un Monopoli impazzito, alla casella iniziale. E anche ora, come nel ’92, “cherchez les femmes”: sono i visi di donna che compaiono nel trailer a infiammare la curiosità languente del pubblico e ad attirarlo al botteghino, proprio quando si pensava che ormai non se ne poteva più dalla noia. E sono sempre i personaggi femminili a dare il tono e il senso di come cambiano (o non cambiano affatto) i tempi.
“Cherchez les femmes”, dunque. Senza dimenticare, tra l’altro, che l’Italia è una repubblica fondata anche sui malumori femminili. C’è una donna, per esempio, al centro delle vicende che hanno accompagnato il tormento di Silvio Berlusconi sulla scena politica italiana. E’ la ormai ex moglie del Cav., Veronica Lario (che fu anche azionista di questo giornale) ad aver giganteggiato – con le sue dichiarazioni, le sue lettere, le sue dissociazioni pubbliche dai comportamenti maritali, la sua delusione e la sua ira di sposa proclamate con sprezzo dei pettegolezzi – nella fine di un matrimonio che è stata anche l’anticipo, il presagio e un fattore decisivo, sostanziale e di immagine, della consumazione dell’èra berlusconiana. Basti pensare al potere deflagrante di quell’irrituale lettera spedita nel gennaio del 2007 al direttore di Repubblica, giornale non propriamente amico di Berlusconi: “Egregio direttore, con difficoltà vinco la riservatezza che ha contraddistinto il mio modo di essere nel corso dei 27 anni trascorsi accanto a un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi, quale è mio marito”. Veronica Lario voleva reagire, come scrisse lei stessa, “alle affermazioni svolte da mio marito nel corso della cena di gala che ha seguito la consegna dei Telegatti dove, rivolgendosi ad alcune delle signore presenti, si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili: ‘se non fossi già sposato la sposerei subito’, ‘con te andrei dovunque’. Sono affermazioni che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l’età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre figli dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni”. Quello sfogo della moglie offesa era solo l’anticipo dei futuri conflitti – e di ulteriori, inaudite dichiarazioni – legati alle vicende tra il privato e il pubblico che videro protagonista il Cav., e che portano altri nomi femminili (Noemi Letizia, Karima El Mahroug detta Ruby, Patrizia D’Addario…). Vicende tanto difficili da metabolizzare – anche nell’immaginario nazionale – che ancora oggi se ne sente l’eco avvelenata nelle polemiche per le foto rubate della Lario e finite sul rotocalco Chi?, pubblicato da Mondadori. E comunque l’inappuntabile e risentita moglie di Cesare non ha salvato Cesare, anche se, almeno fino a un certo punto, lo avrebbe voluto.
Tant’è. Uno stucchevole luogo comune pretende che ci sia, dietro a ogni uomo di successo, la presenza di una grande donna. Ma è pure un evidente dato di fatto che in Italia la bandierina del via a piccole o grandi storie di malaffare politico-finanziario viene agitata spesso, se non sempre, da mani femminili. Mani nervose di mogli tradite o mani solerti di segretarie (come Claudia Minutillo, per esempio, a lungo segretaria dell’ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan) che, da vestali discrete ed efficienti si trasformano, costrette o incattivite dalle circostanze, in testimoni d’accusa. Mani amorevoli, ma talvolta distratte, di fidanzate o di consorti devote, perinde ac cadaver. Mani di ex amanti vendicative, dotate di memoria granitica e spietatamente mirata. E mani di dame in pericolo da salvare dal drago, come la fascinosa Chiara Rizzo, moglie del latitante Amedeo Matacena. Appena definita in un interrogatorio dall’ex ministro Claudio Scajola, accusato di aver favorito la fuga del consorte di lei, “donna sola, tribolatissima”, oltre che “indifesa, scossa, incasinata”. Scajola dice che voleva per lei “che facesse una vita normale, che non sfasciasse la famiglia e che arrivasse il marito”. Invece la Rizzo, ingrata di fronte a tanta sollecitudine, racconta dal carcere che l’ex ministro la tampinava ed era sempre più geloso della sua relazione con Francesco Bellavista Caltagirone: “Io avevo paura di lui (Scajola, ndr), io avevo paura perché questa cosa sembrava un’ossessione…”. A dar manforte alla signora Matacena, ci sarebbero anche le dichiarazioni della segretaria storica di Scajola, Roberta Sacco, da poco tornata in libertà dopo due settimane di domiciliari e sollevata da ogni accusa: “Dovevo verificare gli spostamenti della Rizzo”, ha raccontato la signora Sacco, descritta come fedele, scrupolosa e ineccepibile segretaria. Ora lei dice che “gli incontri con la Rizzo di cui ero a conoscenza e complice” le “creavano disagio” verso la moglie di Scajola “che conosco da anni”. Provò a dirlo al suo datore di lavoro, “ma la mia esternazione non produsse alcun effetto”. E a parlare di “pedinamenti” di Chiara Rizzo commissionati da un gelosissimo Scajola ci si è messa pure la segretaria di Amedeo Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, un’altra fedelissima diventata fluviale testimone (pure lei in carcere) di comportamenti quantomeno bizzarri.
L’unica consolazione, all’ex ministro, arriva dalla moglie, Maria Teresa Verda, che affida alla Stampa la sua dichiarazione di fiducia incrollabile nel consorte: “Mio marito? E’ un galantuomo, un uomo generoso, un puro. Anzi, le dirò di più: dopo questa vicenda lo vedo ancora più forte. La mia stima per lui è incondizionata. E badi: io sono ormai allenata a mettere a fuoco le cose anche attraverso la cortina di fumo che le rende opache e indistinguibili, proprio come sta succedendo in questi giorni”. Chapeau.
“Cherchez les femmes”, dunque, nelle storie di mega tangenti, di mazzette di più modesto taglio, di conti corsari, di ruote unte e bisunte, di malversazioni vere o solo ipotizzate. E vedrete il luogo comune rovesciarsi subito nella constatazione che dietro a certi rumorosi e improvvisi collassi – di carriere politiche, di fortuna economica, di status, di reputazioni – c’è sempre, o quasi, un intervento femminile.
Non si allude tanto allo stereotipo abusato della donna vampiro, della divoratrice di patrimoni che spolpa mariti e amanti e poi si dilegua per occuparsi della prossima vittima o per darsi finalmente al giardinaggio e alle opere benefiche. E non si pretende nemmeno di vagliare affari come quelli che affossarono la candidatura alla presidenza francese del socialista Dominique Strauss-Kahn (accusato di aggressione sessuale da una cameriera dell’albergo di New York a pochi giorni da quella che sembrava la sua certa designazione); oppure come quelli che segnarono la fine della carriera del ministro conservatore britannico John Profumo, costretto nel 1963 a dimettersi per certe frequentazioni pericolose, in odor di spionaggio, con quelle che oggi si chiamerebbero “escort”.
No, qui si vuole riflettere su una particolare e moderna specializzazione della classica Erinni – intesa come agente consapevole o inconsapevole del fato – destinata a vivacizzare le cronache giudiziarie, soprattutto in Italia ma non solo. E anche a rinverdire l’idea (di suo già sempreverde) che “dove ti giri, è tutto un magna-magna”. E che per la casta (uffa, la casta) non valgono mai le stesse regole imposte al popolo turlupinato e oppresso.
Va detto che c’è stato, nel tempo, qualche adeguamento legato all’accresciuta emancipazione femminile e allo sviluppo di nuovi orizzonti della scienza e della tecnica. Dove prima impazzava la documentazione cartacea, per dire, a guastare certe feste ora interviene piuttosto l’uso poco prudente di posta elettronica, di messaggini, di carte di credito, di telefonate al cellulare fatte come se non fossero mai state inventate le intercettazioni. E se fino a non troppo tempo fa le figure interessate erano di natura esclusivamente famigliare, sentimentale e/o ancillare, il progressivo incrinarsi del famoso “soffitto di cristallo” – quello che impedisce da un certo punto in poi l’avanzare delle carriere femminili – introduce nuove variabili: la socia in affari, la collega di partito (come l’ex europarlamentare di Forza Italia, Lia Sartori, recentemente coinvolta nell’affare Mose insieme con Galan), la manager, la segretaria.
Ma anche la segretaria-manager che si dimostra goldonianamente (non per niente c’è di mezzo Venezia) sicura padrona del campo e della situazione. E’ il caso della citata Claudia Minutillo, che di Galan fu prima la segretaria onnipresente, e che poi, negli ultimi anni, si era messa in proprio come imprenditrice. E’ cronaca di questi giorni: le sue dichiarazioni, ammissioni, accuse sono alla base dell’inchiesta intestata al Mose e al Consorzio Venezia Nuova. Era lei, che tutti chiamavano la Dark lady per via delle chiome corvine, della predilezione per i vestiti di quel colore e anche del carattere ombroso, che dai suoi uffici di imprenditrice intimava all’assessore regionale alla Mobilità e alle Infrastrutture, Renato Chisso (come risulta dalle intercettazioni): “Alza il culo e vieni qua”. Si narra anche che fu la futura moglie di Galan, Sandra Persegato, a chiedergli di decidere, senza tergiversare oltre: “O lei o me”. Lui decise e liquidò la Minutillo. E si può facilmente immaginare quanto la sua ex collaboratrice abbia preso bene quell’addio, dopo tanti anni di dedizione professionale.
Dall’appartata Laura Sala, moglie separata di Mario Chiesa e all’origine della “prima Tangentopoli”, alla volitiva Claudia Minutillo, vediamo dunque disegnarsi nell’arco di poco più di un ventennio una sorta di evoluzione della specie che però lascia intatta la sostanza: vittime o complici, ignare o consapevoli, incrollabili o friabili, ingenue o allumeuses, per capire certi intrecci, certi scherzi di destino, certe vicende inesplicabili, certi sgambetti della sorte, “il faut chercher les femmes”.
La capostipite assoluta della categoria “Erinni per caso, ma neanche tanto” è comunque lei, l’ex consorte di Mario Chiesa, presidente del milanese Pio Albergo Trivulzio e proverbiale “mariuolo isolato” di craxiana memoria. Beccato nell’ormai remoto 1992 mentre cercava di far sparire una mazzetta di sette milioni di (compiante) lire nel water del bagno annesso al suo ufficio, incurante del bene comune così come dell’efficienza delle tubature. Tutti ricordiamo, perché è ormai storia patria quanto la breccia di Porta Pia o la battaglia del Piave, che alle rivelazioni della ex signora Chiesa si deve l’avvio della reazione a catena che portò alla fine della Prima repubblica e al dissolvimento dei partiti italiani (tranne uno) per come erano stati conosciuti fino a quel momento.
In principio, dunque, ci furono una moglie delusa e un ex marito “arrogante”. Proprio così lo definisce l’avvocatessa Annamaria Bernardini de Pace, la quale difendeva gli interessi di Laura Sala nella causa per adeguare, a tre anni dalla separazione, l’assegno di mantenimento che veniva versato alla ex (anzi, che non le veniva più versato) da Chiesa, anche per un figlio adolescente. “Lei non si è mai voluta vendicare”, ha dichiarato solennemente l’avvocatessa in un’intervista al Giorno, rilasciata nel 2012, in occasione del ventennale di Mani pulite: “Lui non pagava l’assegno, la signora avviò le procedure del caso, allora Chiesa fece ricorso per far diminuire l’importo del mantenimento. Ma noi conoscevamo le sue capacità finanziarie, e lei mi portò copie di documenti che riguardavano certi conti correnti. Io le depositai davanti al collegio, ci fu una lunghissima discussione e chiesi che gli atti fossero trasmessi alla Procura. Finirono sulla scrivania del pm Di Pietro”.
L’avvocatessa Bernardini de Pace – che da allora conquistò un’eccelsa e meritata posizione nell’empireo dei matrimonialisti italiani – riconosce modestamente di non essersi resa conto, ai tempi, del potenziale esplosivo di quelle carte. Tantomeno, pare, ne era consapevole la sua assistita. Piuttosto, specifica, “l’abbiamo capito insieme, lei ha capito sempre tutto. E’ una delle persone più intelligenti che abbia conosciuto. Una donna perbene, umile, di grande dignità”. Come Bisanzio assediata dagli ottomani e caduta perché, si narra, qualcuno lasciò aperta la “kerkoporta”, una porticina minuscola nelle mura invincibili, un intero mondo finì dunque per la vendetta di una moglie esacerbata?
Macché, questa interpretazione è ingiusta e ingenerosa: “Laura Sala ha soltanto fatto valere i suoi diritti. E ha cercato fino all’ultimo di trovare un accordo. Avrebbe potuto chiedere tanto di più, ha voluto solo il minimo indispensabile per tutelare suo figlio. E quando io mi battevo per trasmettere gli atti al penale, lei era preoccupata. Si trattava pur sempre del padre di suo figlio”. Insomma, “Chiesa è stato così arrogante che se l’è cercata”.
Uomini arroganti e, visti con il senno di poi, un po’ fessi. Uomini illusi che la moglie bistrattata si accontenti di elemosine elargite dopo umilianti anticamere, mentre certi estratti conto, quando già va illanguidendo quell’idea di amarsi e rispettarsi e vivere insieme “finché morte non vi separi”, continuano magari a rimanere abbandonati alla coniugale mercé, sulla scrivania nello studio di casa o nella cassetta delle lettere, tra una cartolina (almeno all’inizio degli anni Novanta si usavano ancora), un dépliant e una bolletta della luce.
E se Mario Chiesa fu insopportabilmente arrogante, che cosa si deve pensare del francese Jérôme Cahuzac, ex ministro del Bilancio di François Hollande?
Gettando per un attimo lo sguardo al di là delle Alpi, vediamo riprodursi in tempi recenti, e con grandeur adeguata alla nazione, lo schema appena esposto. Perché il brillantissimo e super rigorista Cahuzac – che prima di diventare politico socialista di successo era chirurgo estetico e titolare di una clinica parigina specializzata in trapianti di capelli – vide nel marzo del 2013 naufragare la propria trionfante carriera quando fu chiaro che il rigore fiscale prescritto ai suoi connazionali trovava proprio in lui, inflessibile prescrittore, la più sorprendente delle eccezioni. A costringerlo alle dimissioni fu la scoperta di un suo ricco conto ginevrino aperto nel 2000 e chiuso nel 2010, al momento della sua nomina a presidente della commissione Finanze dell’Assemblea nazionale, ma solo per essere trasferito nella più sicura Singapore. All’origine del disvelamento, si sospettò e tuttora si sospetta ci sia ancora una volta la rabbia di una moglie cornificata: la sua. Madre dei suoi tre figli, socia nella clinica di famiglia dove lei stessa operava come chirurgo, la signora Patricia Cahuzac aveva chiesto il divorzio nel 2010, una volta avuta la conferma che il consorte, sempre più in viaggio per motivi di partito, la tradiva senza darsi troppa pena di nasconderlo (come sempre, lo sapevano tutti tranne lei). Dalla guerra furiosa che ne seguì – e soprattutto dal feroce braccio di ferro attorno a un sontuoso appartamento parigino di 210 metri quadrati in avenue de Breteuil, al quale il ministro non voleva rinunciare e dal quale sperava di sloggiare la moglie – sarebbe dunque scaturita la soffiatona che seppellì definitivamente nel disonore le ambizioni politiche di Cahuzac. Anche se l’ormai ex moglie ha sempre negato: “Non voglio la fine di Jérôme, è il padre dei miei figli, abbiamo passato insieme trent’anni”.
La vicenda Cahuzac, inacidita nella lotta attorno a un semplice appartamento (sia pur valutato sei milioni di franchi) impone di notare che un significativo sottocapitolo del film “Cherchez les femmes” potrebbe intitolarsi senz’altro “Cherchez les maisons”. Sappiamo che Giancarlo Galan, accusato dalla ex segretaria Claudia Minutillo di aver intascato tangenti per il Mose, dovrà spiegare, tra l’altro, come mai il mutuo annuo per la grande villa trecentesca di Cinto Euganeo, dove vive con la moglie Sandra, ammonti a quasi il doppio rispetto a quanto dichiarato dalla coppia (ma lui, che oggi è parlamentare, promette che spiegherà tutto alla giunta per le autorizzazioni a procedere. Intanto però dice che la Minutillo avrebbe semplicemente usato il suo nome per intascare direttamente quelle mazzette).
E come non rievocare, a questo punto, a proposito di case e mutui, il peso che la storia dell’appartamento a Montecarlo ebbe nell’offuscare l’immagine dell’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini? Al quale nulla poté personalmente essere imputato, se non una certa nebulosità nelle comunicazioni con la compagna Elisabetta Tulliani e con il fratello di lei, Giancarlo. Risultato alla fine fruitore della casa monegasca che la contessa Colleoni aveva lasciato in eredità ad Alleanza nazionale. Secondo quanto scrisse nel 2012 l’Espresso, quell’appartamento (di piccolo taglio) fu venduto, a un prezzo che gli ex sodali di partito di Fini tuttavia considerarono molto (troppo) sottostimato, a un personaggio che si rivelò poi un fiduciario proprio di Giancarlo Tulliani. In questo caso, insomma, l’Erinni involontaria è stata la signora Elisabetta Tulliani, categoria “fidanzate amorevoli ma distratte”.
Perché naturalmente non c’è solo la figura della moglie o ex moglie offesa, nel cast di tipi e caratteri di questo particolare filone di commedia (o tragedia, fate voi) molto all’italiana. Al contrario, non mancano esempi di devozione e di sollecitudine capaci di aggiungere un tocco caldo e famigliare, di complicità quasi pantofolaia – da pubblicità con i nonnini del cioccolato Talmone – a certe fredde e orrende storie macinate dalla cronaca giudiziaria.
Tornando indietro nel tempo, di schietta devozione diede certamente prova Antonina Di Pietro (nome fatale), ovvero la moglie del giudice Diego Curtò, il presidente vicario del tribunale di Milano che nel 1993, nella fase trionfante di Mani pulite, fu arrestato – e poi condannato tre anni dopo per corruzione in via definitiva – nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti Enimont. Le cronache del tempo (i virgolettati che seguono sono tratti da articoli del Corriere della Sera e di Repubblica) raccontano una complicata istoria di nomine pilotate di custodi giudiziari, di conti aperti in Svizzera sui quali transitavano ragguardevoli somme e, naturalmente, di mogli: “Due mesi dopo la liquidazione della mega parcella, l’avvocato Vincenzo Palladino si era infatti recato in Svizzera con la moglie di Curtò e insieme avevano aperto un conto alla Bsi intestato a una società (la Castinfin Investment di Panama) e nella disponibilità esclusiva della Di Pietro. Su quel conto vennero accreditati, il 24 aprile ’91, 280 mila franchi svizzeri e, pochi giorni dopo, altri 200 mila. Il denaro… nel maggio del 1993 finì, dopo un accordo tra Curtò e l’avvocato Pietro D’Urso stipulato proprio all’interno del Palazzo di Giustizia di Milano, su un conto svizzero denominato ‘Risorto’, intestato alla moglie di D’Urso, Antonia Sgorbati”. Tanto per capirsi, “non solo il giudice Curtò, inquilino del palazzo di Mani Pulite, accettava una tangente di 480 mila franchi svizzeri per bloccare le azioni Enimont e nominare custode giudiziario l’avvocato Vincenzo Palladino; ma il giorno del suicidio di Raul Gardini se ne andava in Svizzera a ritirare quei soldi. E la sua prima versione per i colleghi inquirenti è stata che quei soldi li aveva buttati nel water… prenderà la parola il difensore di Curtò, per ripetere che, quella del giudice, fu una leggerezza e che le sue bugie non volevano sviare le indagini ma evitare che vi fosse coinvolta la moglie”.
Ecco, la moglie. Moglie fedele e complice, alla quale intestare conti birichini, e alla quale forse non è nemmeno necessario dare tante spiegazioni. Una moglie fondamentale, tutt’altro che subordinata, c’è anche nell’indimenticabile caso Poggiolini. Che ci conduce davvero, non solo per motivi temporali, in una sorta di salotto di Nonna Speranza del malaffare italiano. Per via, se non altro, del famoso pouf foderato di banconote che tanto colpì l’immaginario nazionale, ritrovato proprio nel salotto della casa napoletana di colui che nel 1993 era il potente direttore generale del servizio farmaceutico nazionale del ministero della Sanità (Duilio Poggiolini, appunto) e di sua moglie, la signora Pierr Di Maria. La quale, all’epoca, risultò titolare di un conto svizzero sul quale erano depositati una quindicina di miliardi (i risparmi di una vita), da aggiungere al celeberrimo pouf, a lingotti d’oro, a gioielli, a quadri preziosi, a collezioni di monete antiche, di penne e di ninnoli d’oro massiccio.
Si tramanda che tutto quel ben di Dio ammontasse a decine di miliardi. Si aprì così, in uno scenario a metà tra una pochade e un racconto di Balzac, una particolare fase del guardonismo estremo verso la ricchezza altrui che, in Italia, supera di gran lunga, per diffusione, intensità e morbosità, lo stesso guardonismo sessuale. Di quel pouf e di tutto quel tesoro piuttosto pacchiano, che fecero ribattezzare la coppia Poggiolini “i re Mida della malasanità”, invano la signora Pierr Di Maria invocò la legittima provenienza. Che andava fatta risalire, spiegò ai giudici, ai compensi per le consulenze esercitate nell’ambito della sua professione (era laureata in chimica).
Ci fu un processo, ci furono condanne per corruzione ma non per associazione a delinquere. Duilio Poggiolini fu accusato di aver ricevuto compensi cospicui (e illeciti) da alcune case farmaceutiche per inserire i loro prodotti nel prontuario nazionale e per manipolarne i prezzi, mentre la moglie fu considerata la sua complice incaricata di passare all’incasso. Alla fine, però, le pene si ridussero a poco, tra indulti e prescrizioni, anche perché non era così pingue l’arrosto di malaffare da cui aveva avuto origine tutto quel fumo.
Oggi quella vicenda è pura archeologia, e proprio come in un documentario della serie “Tesori sommersi”, è capitato anche che nell’agosto di un anno fa sia rispuntato da un caveau di Bankitalia l’equivalente di ventisei milioni di euro in vecchie lire e obbligazioni, sequestrati nel 1994 a Poggiolini e alla moglie. Del famoso tesoro dei due “re Mida”, rimasto a impolverarsi per vent’anni, si era persa la stessa memoria. Ora, meglio tardi che mai, sarà definitivamente incamerato dallo stato, grazie all’intervento di Equitalia Giustizia (brrr). La signora Pierr Di Maria non c’è più dal 2007, e ci si chiede se in quell’attività di accumulazione compulsiva – cosa che, di per sé, non costituisce reato – in quel circondarsi di beni non destinati a essere goduti ma solo segretamente posseduti, in quell’imbottire la casa di lingotti e i divani di banconote, in quel giocare ai satrapi senza vivere come tali (il tenore di vita e la stessa casa dei Poggiolini erano assolutamente privi di qualsiasi ostentazione più che medio borghese) non ci fosse l’impronta di un’insicurezza tutta femminile, una prudenza abnorme da massaia accorta assecondata da un marito complice e probabilmente sottomesso. Un intreccio lineare, attorno a un’ossessione (l’accumulazione) deserticamente fine a se stessa.
Oggi l’aria che tira è diversa. Sempre nello scandalo “up to date”, l’affare delle mazzette per il Mose, la difesa di Galan sta lavorando, dicono, attorno all’ipotesi che tra la Minutillo e l’assessore Chisso, trattato dalla donna con qualche eccesso di confidenza, ci fosse un sodalizio particolare. Forse sentimentale? Ma allora, “cherchez les hommes”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano