Al Baghdadi vs. Suleimani
Il primo ha costruito “il più ricco” gruppo di terroristi del mondo. Il secondo ha forgiato la regione sulla base dell’interesse iraniano. E ora è un nostro alleato
Il capo dello Stato islamico, l’iracheno Abu Bakr al Baghdadi, continua ad apparire nei rumor che arrivano dal campo dei jihadisti e che accompagnano l’offensiva di questi giorni. Si dice che sia stato lui in persona durante la conquista di Mosul ad aprire i cancelli della prigione di Badoush dopo che lo stato islamico ha preso i palazzi governativi. Il numero totale dei prigionieri lasciati in libertà supera i quattromila, e forse il capo ha approfittato dell’opportunità simbolica. Un esperto sentito dal Foglio aggiunge un elemento: al Baghdadi, quand’era un comandante di medio livello, operava in quella zona di Mosul quindi non è una sorpresa che possa avere partecipato. Un altro rumor dice che sia stato sempre al Baghdadi a perdonare i soldati sunniti catturati dopo la presa della base Speicher, nella provincia di Salaheddin (che un tempo era una base americana, come si capisce dal nome) e a ordinare di uccidere gli altri perché sciiti. In un primo momento si è creduto che i morti fossero 1.700, ma esperti militari citati da Ap hanno contato e dicono che sono 170: qualcuno ha sbagliato e ha aggiunto uno zero. Si dice anche che al Baghdadi stia stringendo patti con i baathisti (gli ex ufficiali di Saddam Hussein) per spartirsi il controllo di Mosul. Mentre i grandi media pubblicano biografie striminzite del “nuovo bin Laden” meglio ricordare che nessuno conosce con certezza la sua vera identità. Si dice che il suo nome sia Ibrahim al Badri e che sia stato prigioniero degli americani tra il 2005 e il 2009 a Camp Bucca, vicino a Bassora. Il giorno della liberazione avrebbe pure salutato così i soldati americani di guardia: “See you in New York, guys”. In realtà, di lui circola un video in libertà datato tra il 2006 e il 2007 – quando in teoria avrebbe dovuto essere chiuso in cella. La realtà è che non si sa quasi nulla su un uomo che in medio oriente ha più potere militare di molti ministri della Difesa e che sta scuotendo l’assetto della regione.
L’uomo più potente dell’Iran. Qassem Suleimani aveva quarant’anni quando ha preso il comando delle forze al Quds iraniane: sono passati sedici anni e per tutto questo tempo questo uomo basso, la faccia spigolosa, barba e capelli bianchi, calmo, sguardo riservato, e tanto “kalib”, così dicono gli arabi, un carisma fortissimo ma velato, come ha scritto Dexter Filkins in un ritratto sul New Yorker, ha lavorato per ridisegnare il medio oriente in favore dell’Iran, come comandante militare e come mediatore politico. L’uomo più potente e più invisibile del medio oriente si alza alle quattro di mattina, va a letto entro le 21 e trenta, vive in una casa da burocrate medio iraniano a Teheran, ha tre figli e tre figlie (quella che vive in Malesia lo fa preoccupare più di tutti gli altri), un problema alla prostata che lo opprime da anni (così sostengono fonti irachene) e una schiena spesso dolorante. E’ nato da una famiglia povera, ha sempre avuto un fisico troppo mingherlino per lavorare nei campi, sembrava poco ambizioso persino, fino a quando non c’è stata la Rivoluzione del 1979. Oggi dice: “Datemi una brigata di bassiji e conquisterò il mondo”, ed è così: quando l’Iran è entrato in guerra in Siria in difesa del regime di Assad, il capo delle forze al Quds non faceva che lamentarsi dell’esercito siriano, “non serve a niente”. S’è messo lui a organizzare la risposta del regime siriano, nel palazzo e sul campo. Ma Suleimani non vuole apparire come il burattinaio, ripete di essere “il più semplice dei soldati” anche se è un generale, in Iran gli uomini del regime lo idolatrano come un eroe di guerra, colui che a vent’anni combatteva nella guerra contro l’Iraq e tornava da missioni pericolose con una capra in spalla, da arrostire e mangiare assieme agli altri. E’ “un martire della rivoluzione”, dice di lui la Guida suprema Ali Khamenei, e lo è non soltanto nella regia del potere iraniano all’estero, ma anche dentro alla Repubblica islamica. Nel 1999, quando ci fu la rivolta degli studenti, Suleimani scrisse una lettera, assieme ad altre Guardie della rivoluzione, all’allora presidente Mohammed Khatami dicendogli che se non avesse pensato a sedare la rivoluzione, allora se ne sarebbe occupato lui: “La nostra pazienza sta finendo”. La rivolta fu repressa, come ancora, e in modo se possibile più violento, nel 2009. Gli avvertimenti sono diventati il suo forte, assieme a una strategia militare spietata. Mandava sms ai generali americani in Iraq, agli ambasciatori, minacciava, teneva in allerta. Nell’estate del 2006, durante la guerra tra Israele e Hezbollah in Libano (il Partito di Dio alle “dipendenze delle forze al Quds), Suleimani scrisse a un comandante americano in Iraq un sms: “Spero che vi siate goduti la calma a Baghdad. Sono stato occupato a Beirut!”.
Tanto per dire quanto sappiamo poco dello Stato islamico. La settimana prima dell’offensiva su Mosul, le forze irachene hanno ucciso nel suo nascondiglio AbdulRahman Asad Allah al Bilaawi, capo del consiglio militare dello Stato islamico, che è un organo consultivo dell’emiro che consiglia e dirige le operazioni militari. Al Bilaawi era un leader del gruppo già ai tempi di Abu Mussab al Zarqawi, quindi prima della morte del giordano nel giugno 2006, e a febbraio era stato dato per morto in uno scoop esclusivo di al Arabiya sui sei capi più importanti dell’organizzazione. Invece era vivo e stava progettando la presa di Mosul. Martin Chulov ha scritto sul Guardian che il governo è arrivato a lui interrogando il suo corriere, Abu Hajjar, catturato dai curdi, e che il corriere avrebbe detto agli uomini dell’intelligence: “Non sapete cosa state facendo. Sta per scoppiare un inferno”. Il fatto che i servizi abbiano ucciso l’architetto di questa grande operazione militare nel suo covo e abbiano sequestrato un tesoro di informazioni – sono loro a dirlo – e non abbiano capito oppure detto cosa stava per succedere apre interrogativi. Una settimana prima uccidono l’uomo che ha scritto il piano, ma non fermano il suo piano. Intanto, escono le interviste dei soldati iracheni che erano a Mosul la settimana scorsa e raccontano: i nostri superiori ci hanno detto di ritirarci in tutta fretta. Così, circa mille combattenti di al Baghdadi hanno preso una città che secondo i suoi abitanti era come una guarnigione con soldati a ogni angolo (almeno più di trentamila, forse il doppio contando anche le forze di sicurezza).
In meno di tre anni l’Isis si è trasformato in quello che “probabilmente è il più ricco gruppo di terroristi del mondo”, spiega Chulov sul Guardian, con una strategia pianificata di autofinanziamento. Una fonte dell’intelligence che ha avuto accesso ai documenti contenuti in 160 chiavette trovate nella casa di al Bilaawi, dice al reporter del quotidiano britannico che “sono stati raccolti 36 milioni di dollari soltanto nella zona di al Nabuq, sulle montagne Qalamoun a ovest di Damasco. Qui i reperti archeologici risalgono anche a ottomila anni fa”. L’intelligence occidentale chiedeva agli iracheni da dove venissero i finanziamenti di Isis, che erano nell’ordine di grandezza delle decine di migliaia di dollari, 50 mila dollari di qui, 20 mila di là, “it was peanuts”, noccioline. Ora sappiamo che il patrimonio enorme di Isis non è stato fornito dall’esterno: se lo sono conquistato da soli. Occupando i siti del petrolio nell’ovest della Siria (presi alla fine del 2012), alcuni rivenduti poi al regime siriano stesso. Sono state contrabbandate materie prime di ogni genere, così come reperti archeologici dal valore inestimabile. Prima della conquista di Mosul, il totale dei fondi a disposizione ammontava a circa 875 milioni di dollari. Nell’ultima settimana, durante l’avanzata feroce e repentina, l’Isis si è preoccupato di rapinare tutte le banche, di appropriarsi di materiali militari costosi e indispensabili, e ora si può stimare un patrimonio complessivo pari a un miliardo e mezzo di dollari.
Abu Bakr al Baghdadi in una foto del 2007
Qassem Suleimani torna in Iraq dopo una campagna di successo in Siria, per salvare il regime di Bashar el Assad. Il generale dei pasdaran è arrivato a Damasco all’inizio del 2013 e ha allestito una sala operativa per gestire la situazione, con un piano di rimonta preciso che ora molti osservatori conoscono come “Piano Suleimani”. Ha ordinato la mobilitazione di gruppi armati dall’estero, come il libanese Hezbollah e le milizie sciite irachene, per colmare i vuoti enormi lasciati dai disertori sunniti nell’esercito di Assad. Ha diretto l’ammodernamento rapido delle capacità del regime, con piccoli droni da ricognizione e intercettazioni delle comunicazioni. Ha creato milizie volontarie di autodifesa, armando i cittadini alawiti e mettendoli a guardia delle proprie zone, liberando così l’esercito regolare da quelle incombenze. Ogni tanto Suleimani appare, lasciando una coda di commenti: l’ultima volta è stato fotografato mentre consolava la famiglia di un cugino del presidente, ucciso dai ribelli. Se Assad è ancora al potere lo deve a lui, tanto che alle ultime elezioni gli attivisti facevano circolare finti poster elettorali sarcastici che invitavano a votare Suleimani come vero presidente della Siria.
[**Video_box_2**]Il dipartimento di stato parla di “interesse condiviso” tra Iran e Stati Uniti per le operazioni contro lo Stato islamico in Iraq. Suona davvero strano, considerato che Teheran ha passato gli anni della presenza americana in Iraq aiutando la guerriglia sciita con armi, protezione e finanziamenti. La Lega dei giusti, l’esercito del Mahdi, erano i nomi di gruppi che gli americani temevano esattamente quanto al Qaida se non di più. Qualcuno ricorda il raid di Karbala? Nel gennaio 2007 un gruppo filo iraniano si presentò travestito bene ai cancelli di una base americana in un palazzo della città santa di Karbala: armi e divise americane, veicoli americani, lingua inglese, il capo era persino biondo. Una volta dentro spararono all’impazzata e rapirono – e poi uccisero – cinque soldati americani. Si disse che i commando si erano addestrati in Iran e che il loro piano immediato di fuga era viaggiare fino al confine iraniano, la complessità dell’operazione fece sospettare subito che ci fosse il coinvolgimento di uno stato sponsor. Una sigla che farà drizzare i capelli agli americani che sono stati in Iraq e ora sentono parlare di cooperazione con l’Iran è Efp (Explosive formed projectile). Si tratta di un particolare tipo di ordigno, molto più sofisticato delle solite bombe posate sul ciglio della strada. Quando un veicolo americano interferiva con il raggio infrarosso che di solito controllava un Efp, una carica di esplosivo scoppiava e trasformava un sottile cono di rame in un proiettile di metallo liquefatto che viaggiava ai due chilometri al secondo e perforava le corazze dei blindati americani. Una delle armi in assoluto più temute, confezionate con l’aiuto dell’Iran, spesso in Iran. Ora è il nuovo, discreto alleato sul campo.
A gennaio i ribelli siriani hanno ucciso Hajji Bakr, l’eminenza grigia di al Baghdadi, l’ex colonnello dell’intelligence di Saddam Hussein che si dice abbia deciso di far parte dello Stato islamico come strategia di sopravvivenza e di combattimento dopo la distruzione del regime da parte degli americani e che sia arrivato al punto di farsi crescere la barba per meglio integrarsi. Haji Bakr secondo informazioni non confermate è l’uomo che ha ricostruito lo Stato islamico dopo le débâcle del 2010, quando l’organizzazione fu decimata da una serie spettacolare di uccisioni e catture in Iraq. Seppe manovrare per favorire l’ascesa di Abu Bakr al Baghdadi e ordinò una feroce purga interna per mettere al riparo il nuovo capo da ogni accenno di dissenso. Bakr è stato ucciso a Tal Rifat, un paese siriano vicino al confine con la Turchia, ma la sua morte fu rivelata con un mese di ritardo e soltanto dai ribelli, non dallo Stato islamico. Sembra fosse stato mandato in Siria nel 2010 ancora prima dell’inizio della rivoluzione pacifica contro il presidente Bashar el Assad per cominciare a organizzare le operazioni nel paese vicino dell’Iraq. Secondo Anthony Lloyd del Times, il giorno dell’uccisione i ribelli hanno catturato il figlio: un trentenne accuratamente rasato e vestito come un businessman che – dicono – viaggiava all’estero come inviato in incognito dello Stato islamico.
Il dipartimento di stato americano lascia intendere che la collaborazione con l’Iran per contenere l’avanzata di Isis è ormai un dato di fatto. Tutti si perdono in spiegazioni dettagliate sottolineando che questa collaborazione non ha nulla a che fare con il negoziato sul nucleare di Teheran che proprio questa settimana, a Ginevra, dovrebbe fare passi significativi. Ma come sia possibile tenerli separati, i due dossier, non viene detto, forse perché è impossibile, forse perché gli iraniani, forti di questo endorsement sul campo iracheno, ora si permettono velate aggressività, come quella del presidente Rohani, quando dice che se entro il 20 luglio non si trova un accordo non si tornerà certo alla situazione che c’era prima delle trattative, cioè tutte quelle sanzioni potete pure scordarvele. Teheran coglie l’occasione e ottimizza su tutti i fronti, Washington si ripiega nella sua mancanza di visione, e nel realismo ormai imperante – e pure riluttante – svettano le parole del senatore repubblicano Lindsey Graham, un falco interventista che voleva attaccare l’Iran se non avesse rinunciato al suo programma nucleare, altro che negoziato, che però ora sulla crisi irachena dice: “Ci siamo alleati con Stalin perché non era cattivo quanto Hitler”. Per lui gli iraniani sono indispensabili, solo a Baghdad e solo contro l’Isis. Come se Teheran non fosse già lì a fregarsi le mani.
di Daniele Raineri e Paola Peduzzi
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