Blair, e il disastro di Obama
L’ex premier britannico s’è stufato di farsi menare per il naso dai mozzorecchi del pacifismo mediatico. Ha scritto cose incontrovertibili sull’abisso iracheno (e siriano e libico) sulla scia di Kagan. Qui per voi
Tony Blair è appartenuto all’ultima classe dirigente occidentale. Con Bush, Cheney, Rumsfeld, Feith, Bolton e i paesi Willing della coalizione anti Saddam (Berlusconi compreso, entro certi limiti) aveva impostato una risposta strategica al fatto dell’11 settembre. Ora, dopo sei anni di presidenza Obama, da sette anni fuori da Downing Street, bizzarramente accusato dai moralisti più abborracciati di essere una specie di Kissinger britannico che è ben pagato per le sue prestazioni (come fosse un peccato o un reato), perseguitato da una grottesca campagna di umanitarismo mediatico belluino che ne ha fatto l’uomo nero della situazione, il criminale di guerra da arrestare quando va al ristorante, Blair ha postato un testo chiaro e vigile sul disastro iracheno, siriano, libico e in genere mediorientale, che pubblichiamo qui e nel giornale in edicola.
Dice cose semplici e incontrovertibili. Non è l’invasione di Bush e Blair che ha prodotto il caotico ribollire della guerra settaria interislamica, la cui origine prossima è semmai dovuta alla carneficina siriana e all’impotenza occidentale nell’affrontarne cause e conseguenze, all’affrettato disimpegno americano dal teatro militare e politico di Baghdad, alla carta bianca concessa imprudentemente allo sciita Maliki nel suo esclusivismo di potere che danneggia e riunifica sotto bandiere terroristiche i sunniti, tutte responsabilità del potere americano “illuminato” e degli equivoci ideologici del multilateralismo chiacchierone. Si può discutere della guerra del 2003, dice Blair, delle armi di distruzione di massa, del nation building rivelatosi una durissima sequenza di errori e di terrori, di quello che volete, ma non è la replica di quel dibattito che risolve il problema di cosa fare ora, e non è dalle conclusioni che trassero i pacifisti che si può ripartire. Come dimostrano i fatti di Baghdad 2003 (cambio di regime con truppe di terra), della Siria di oggi (paralisi non interventista), della Libia (cambio di regime con l’aviazione sola), delle cosiddette primavere arabe, una cosa è sicura: si può agire, agire parzialmente, non agire affatto (che è l’ultima scelta) e ognuna di queste linee ha le sue curve tragiche, i suoi costi apparentemente insopportabili.
[**Video_box_2**]Non è “colpa” dell’occidente se il medio oriente è in preda a spettacolari convulsioni, “una transizione lunga e dolorosa”, imperniate sulla tragedia dell’uso terroristico dell’islamismo politico; nulla dimostra che l’Iraq, oggi sull’orlo di un nuovo abisso, sarebbe sopravvissuto in un quadro di stabilità e di equilibrio con Saddam alla sua testa (ipotesi controfattuale): l’inazione, semmai, come dimostra il contagio siriano, ha un costo alto che l’occidente non si può permettere. Ogni linea ha il suo tremendo costo, ma secondo Blair, che non parla a caso ed è informato forse meglio dello staff di Obama, l’inerzia non è una soluzione. Jason Horowitz sul New York Times ha compreso che le cose scritte da Robert Kagan sul potere riluttante dell’America di Obama sono giuste (nel Foglio del 29 maggio). Ora ci sono quelle scritte e lucidamente testimoniate dall’uomo nero di Downing Street, il laburista riformatore che collaborò con i neoconservatori.
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