La battaglia tra poveri a Manaus, il Nate Silver delle Due Sicilie e l'onestà degli americani
Ripensavo a Inghilterra-Italia traendone una e una sola conclusione: è stata una battaglia tra poveri. Ritmi lenti, errori in difesa, crampi e maglie pezzate.
Port Stanley (Falkland). Il gelo, la pioggia e la nebbia di questi giorni a Port Stanley mi aiutano a restare freddo e consapevole della realtà: mentre voi sabato notte già suonavate i clacson in centro, io ripensavo a Inghilterra-Italia traendone una e una sola conclusione: è stata una battaglia tra poveri. Ritmi lenti, errori in difesa, crampi e maglie pezzate. I Tre Leoni si apprestano a fare la solita figuRa barbina a un Mondiale, magari già resuscitando l’Uruguay alla prossima partita, anche se certamente i ragazzi allenati da Hodgson sono molto più divertenti di quelli allenati da Capello. Per il resto il nostro centrocampo si regge su un anziano depresso come Gerrard, e in porta abbiamo un ragazzo ossigenato la cui prestazione verrà ricordata soltanto per i complimenti a Pirlo a fine partita, come se fosse un raccattapalle emozionato. Stucchevoli quasi quanto gli articoli sul clima di amicizia fraterna che regna nel ritiro degli Azzurri.
“E viene da dire: meno male!”. Sulla Stampa di ieri Gianni Riotta tira un sospiro di sollievo nel constatare che il calcio non si lascia spiegare dai big data, che il velo di Pirlo nemmeno compare nelle statistiche di Nate Silver e degli altri nerd che s’illudono di poter applicare al calcio gli algoritmi che funzionano nel baseball e in altri sport minori e coloniali. Il calcio è fantasia e mistero, roba che i neopositivisti imbronciati della Silicon Valley con il culto della statistica non capiranno mai, dice Riotta. Che è un po’ come se Saviano scrivesse un appassionato elogio della camorra. Come se Bill Gates dicesse che i computer sono il male del mondo. Come se Spiderman rivelasse di essere aracnofobo, e la chiudiamo qui con le analogie. Dopo che il Nate Silver delle Due Sicilie, il profeta dell’algoritmo con credenziali da Ivy League, ha passato anni a farci una testa così su quanto sono fondamentali i big data, ora rivende sotto forma di editoriale quello che il buon senso suggeriva a chiunque da sempre. Per chiudere in bellezza propone su Twitter una lettura politico-economica di Germania-Portogallo, originale come una foto con la mano che sorregge la torre di Pisa.
[**Video_box_2**]Nella classifica delle cose fastidiose, appena dietro la retorica dei big data c’è la superiorità morale degli americani, oggetto di un articolo del New York Times che farebbe inorgoglire i puritani della colonia di Plymouth e solleticherebbe l’etica dello scontrino di Beppe Grillo. Si spiega che i calciatori americani non si tuffano. Non simulano. Non si buttano a terra come dei Fred qualsiasi per indurre in errore l’arbitro. Semplicemente la simulazione non è parte del loro ethos, hanno la correttezza nel sangue, sono venuti su così, senza copiare il compito in classe dal compagno, gesto che nella cultura della vergogna d’oltreoceano viene punito con l’isolamento dalla comunità. Il New York Times scopre – senza nemmeno l’aiuto dei big data – che nel calcio la simulazione esiste e spesso paga. Scopre che i giocatori, addirittura, lo fanno apposta, studiano le mosse per tuffarsi in modo più convincente, per trarre meglio in inganno l’arbitro, insomma il giornalone perviene alla grande verità che il calcio è un gioco brutto e sporco in cui a volte qualcuno segna intenzionalmente con la mano e ha l’ardire di attribuire il fattaccio a Dio.
Il Foglio sportivo - in corpore sano