La leggerezza obamiana a Baghdad
Per intervenire, il presidente americano chiede a Maliki non si sa cosa. Lo Stato islamico rallenta, ma l’Iraq è ormai spaccato.
Roma. L’avanzata rapida dei ribelli sunniti raccolti dietro il gruppo dello Stato islamico probabilmente entrerà in stallo a nord di Baghdad o alle porte della capitale. Mentre le ambasciate straniere trasferiscono parte del personale in altre sedi, a Erbil a nord, Bassora nel sud e Amman in Giordania, l’ex analista della Cia Kenneth Pollack scrive che il rallentamento è più verosmile degli altri due scenari possibili: quello in cui i sunniti prendono anche la capitale e continuano verso sud dentro le zone sciite e quello in cui gli sciiti riuniti in una coalizione mista contrattaccano e riprendono il territorio perduto. Tre anni dopo il ritiro americano, l’Iraq, insomma, come accaduto in Libano e Siria, si sta spaccando secondo le sue linee settarie. Baghdad, scrive Pollack in un paper per la Brookings Institution, ha nove milioni di abitanti e non i due milioni di Mosul (tra cui molti cristiani, ora in fuga). Gli sciiti nella capitale sono circa il 75, 80 per cento e hanno interesse a combattere per non essere cacciati da una zona che considerano loro. Inoltre la composizione delle truppe è diversa. Mentre su al nord le divisioni dell’esercito iracheno sono prevalentemente composte da sunniti e curdi, poco disposti a morire per il governo del primo ministro sciita Nouri al Maliki – e i pochi sciiti non vogliono combattere per città e luoghi a loro ostili – gli uomini che difendono Baghdad la considerano la porta d’accesso al sud e non la lasceranno aperta com’è successo nelle città irachene ora sotto il controllo dello Stato islamico.
Inoltre, il dispositivo di difesa è rafforzato dalle milizie sciite, protagoniste negli anni della violenza tra il 2005 e il 2007 – per ora si sono trattenute da rappresaglie, ma lo Stato islamico sta portando avanti una deliberata ed efferata strategia anti sciita (per esempio le esecuzioni in massa di soldati) e non è detto che non comincino di nuovo a rispondere colpo su colpo come in passato.
Se l’Iran si è già fatto avanti con offerte di aiuto perché ha un ovvio interesse a sostenere il fedele Maliki, l’Amministrazione Obama fluttua nell’indecisione, come spesso accade in questi anni di politica estera americana. Il presidente ha detto venerdì che l’America interverrà militarmente soltanto se il rais iracheno riuscirà a riconciliarsi effettivamente con la minoranza sunnita, ma non ha dato nessuna indicazione concreta. Come sarà questa riconciliazione? A tutti gli effetti, è una linea rossa all’incontrario. “Linea rossa” è l’espressione che Obama usò per avvertire la Siria che se avesse usato le armi chimiche allora l’America sarebbe intervenuta militarmente. Nel caso dell’Iraq, Obama s’è tenuto volutamente sul vago: Maliki deve fare qualcosa per ottenere l’aiuto di Washington, ma non si sa cosa. Di certo, l’America sta gettando via il fattore tempo. Lo Stato islamico è specializzato nel trincerarsi in difesa – il suo motto in arabo è “baqiya!”, restare! – e i soli droni non potranno granché.
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