La fuga di Andy Najar
L'esterno dell'Honduras è fuggito a 13 anni, da solo, dalla miseria del suo paese per raggiungere gli Stati Uniti con la maglia di Hanry sulle spalle. Ha iniziato a Washington, è approdato in Europa all'Anderlecht. Ora gioca i Mondiali.
Quando al 58’ di Francia-Honduras ha lasciato il posto a Claros, Andy Najar aveva la faccia di chi ancora non ha capito dove si trova. Il centrocampista honduregno ha vagato per il campo senza incidere, cercando di tamponare le avanzate francesi, ma era sempre fuori posizione e solo nel primo tempo ha tentato qualche allungo e alcuni cross con poca fortuna. Forse abbagliato da uno dei suoi idoli, Patrice Evra, che viaggiava, nemmeno tanto spedito, sulla sua fascia di competenza; l’altro idolo è Franck Ribéry, che ha mancato l’appuntamento con il Brasile per colpa di una lombalgia. Andy, invece, è uno che generalmente ha il senso della posizione e degli appuntamenti, con la vita prima che con la storia. Ventuno anni, gioca come ala nell’Anderlecht. In Belgio è arrivato nel gennaio 2013 dal D.C. United per quasi due milioni di euro e con il suo primo stipendio ha pagato 20.000 dollari per la cauzione del padre, arrestato clandestino negli Stati Uniti, e per procurargli un visto.
Vive nella periferia di Bruxelles e passa gran parte del suo tempo libero a guardare su YouTube le partite del Bayern Monaco e del Manchester United, tentando di rubare i segreti del mestiere ai più grandi. Faccia da indio, è nato a Choluteca il 16 marzo 1993, lo sguardo malinconico nasconde povertà e paura, ma anche coraggio e determinazione, perché quello che è, quello che ha, se l’è conquistato un passo dopo l’altro, attraversando il deserto più e più volte, fuori e dentro di sé. Il padre ha giocato alcuni anni nei Broncos e nell’Atlético Municipal di Santa Cruz, tra prima e seconda divisione, ma i soldi a casa li portava spaccandosi la schiena nelle piantagioni di canna da zucchero. Al figlio ha trasmesso la fatica di vivere, l’amore per il calcio e il piede destro.
[**Video_box_2**]L’Honduras è uno dei Paesi più violenti del pianeta, venti morti il giorno, uno ogni settantadue minuti. Poco tempo fa è toccato a suo nonno Alfonso, ammazzato nel sonno per un cellulare, una bicicletta e qualche dollaro, mentre suo fratello minore, Denis, è scampato per miracolo a una gang che lo voleva rapire all’uscita di scuola. Nel 2000 la madre Alilia è emigrata clandestinamente negli Usa per dire basta a una vita di stenti e terrore. Lavorava al servizio manutenzione del Dallas Morning News e per riabbracciare Andy ha speso 5.000 dollari. Andy è partito da Choluteca, è arrivato a San Pedro Sula (nord dell’Honduras), eletta capitale mondiale del crimine, attraverso il deserto di Chihuahua (Messico), poi dritto fino a Dallas. Aveva tredici anni. Trasferitisi a Washington vivevano in un appartamento con altre famiglie, sempre meglio che niente, mentre Andy si divideva tra la realtà dei libri, quale pegno d’amore per i genitori, e il sogno di diventare calciatore. A quattordici anni ha partecipato a un contest dell’Academy del D.C. United, riservato a sedicenni, e in una settimana era già nell’Under 18. Il primo contratto da professionista è arrivato il 22 marzo 2010, l’anno in cui è stato eletto Rookie of the Year della Mls.
L’emozione più forte quando ha incontrato Thierry Henry nel match contro i New York Red Bulls (2-2). Il cuore gli pompava più forte che mai, perché è con la maglia della Francia e il numero 12 sulla schiena che aveva superato il confine che lo separava dalla madre e da un altro destino. Uno che a tredici anni attraversa da solo il muro della vergogna non può avere paura di nessuno, a maggior ragione su un campo di calcio. Almeno fino all’esordio in Brasile, contro i campioni più amati; in quei 58 minuti è come se il suo passato fosse riaffiorato facendogli mancare fiato e lucidità, come se quel miraggio intravisto nel deserto gli si fosse manifestato all’improvviso e non sapesse più riconoscere l’inganno dalla realtà. Avrebbe potuto vestire la divisa degli Stati Uniti, il paese che gli ha regalato lavoro e famiglia, una seconda volta, ha preferito farlo per quello che gli ha tolto tutto, anche il fiato per giocare da più giovane esordiente a un Mondiale per l’Honduras.
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