I padroni di Venezia
Altro che Tangentopoli, i protagonisti dell’abbuffata intorno al Mose non sono i politici corrotti, costretti a un ruolo ancillare (e disprezzato). A Venezia comandano i corruttori.
Se proprio deve esserci una morale in questa complessa vicenda giudiziaria sugli appalti del Mose – 40 persone arrestate o ai domiciliari, oltre cento indagati e in arrivo, pare, numerosi avvisi di garanzia – non è (solo) quella sul rituale uso e abuso della custodia cautelare nei confronti di alcuni degli indagati da parte della procura per ottenere confessioni e ammissioni. Nella narrazione fatta finora da molti cronisti giudiziari si avverte una nota stonata. Soprattutto nel parallelismo con Tangentopoli, con gli anni Novanta, quando la politica non era così debole, slabbrata, e non aveva un ruolo subalterno rispetto alla classe dirigente imprenditoriale. In questo romanzo giudiziario veneziano invece, costruito sulla trama degli appalti per le grandi opere pubbliche, i registi non sono i politici, che pure sono stati messi alla gogna nuovamente perché corrotti e corruttibili. Al contrario, i registi del malaffare sono gli imprenditori. O meglio una cordata di imprenditori che avrebbe soffocato la concorrenza e il libero mercato delle grandi opere. Come? Spartendosi gli appalti e asservendo la politica, anzi i singoli politici consegnati al ruolo dei gregari. Voraci, certo – anche se non è chiaro fino a che punto – ma pur sempre gregari. Insomma, per riassumere l’altra morale sottintesa nelle carte processuali della vicenda giudiziaria del Mose, basta riportare una battuta fatta da un ex sindaco di Padova e poi parlamentare democristiano, Settimo Gottardo: “Avremmo dovuto affidare all’ingegnere Giovanni Mazzacurati l’incarico di presidente della regione e a Piergiorgio Baita quello di assessore allo Sviluppo economico. Così sarebbe stato tutto più chiaro”, osserva con sarcasmo Gottardo, che nel 2007 fu il primo a segnalare in un’intervista l’esistenza di una lobby nella spartizione degli appalti delle grandi opere, e non solo per il Mose. Sì, perché sono stati loro, l’ingegnere Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova e Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, a dirigere il traffico e il flusso dei fondi neri elargiti ai politici. Regalie definite nei loro interrogatori “spese generali” o “dazi”.
[**Video_box_2**]Attraverso la creazione di fondi neri con società cartiere per distribuire doni, finanziare alcune campagne elettorali, e continuare a mantenere il controllo del proprio mercato, creato su misura delle loro imprese. Come? Attraverso la gestione del concessionario unico del Consorzio Venezia Nuova per costruire il Mose. E con accordi preventivi sulle gare per i lavori nelle autostrade e in alcuni ospedali, costruiti con lo strumento dei project financing. Basta leggere con attenzione i loro interrogatori per percepire il ruolo ancillare della politica, anzi dei singoli politici. Sono loro stessi, gli indagati, a descrivere bene che cosa pretendeva il Consorzio Venezia Nuova dalla macchina regionale: facilitazioni, nulla osta sui progetti, eliminazione degli ostacoli burocratici. Non c’era un sodalizio, quindi, o un patto sociale, ma solo un rapporto occasionale per avere le mani sempre libere. La concezione della politica dei registi del malaffare è ben descritta in questo passaggio dell’interrogatorio di Baita, in cui lui si riferisce alle mosse dell’ingegnere Mazzacurati: “Pagava tutti, ma non pagava i partiti, cioè pagava le persone, e questo ha creato non pochi malumori a livello di segreterie dei partiti, perché questi non vedevano arrivare una lira nelle campagne elettorali, ma qualche candidato del partito disponeva di più mezzi di altri, quindi con questo finanziamento alcuni candidati riuscivano a imporsi anche all’interno del proprio partito. Quindi la linea non era di pagare i partiti o di pagare un partito”. E addirittura sorge un dubbio, che si sta diffondendo in questi giorni fra molti osservatori. Ossia l’eventualità che le cifre regalate durante le feste, “a Pasqua, a Natale e durante le campagne elettorali”, come ha affermato durante un interrogatorio in modo svagato il capostipite della distinta famiglia Mazzacurati, siano eccessive, forse appositamente esagerate per scaricare sulla politica i costi delle loro sottrazioni ai fondi pubblici. Un dubbio che non vuole mettere in discussione il lavoro certosino e meticoloso della procura di Venezia, ma suggerisce di provare a ribaltare la prospettiva.
Giovanni Mazzacurati, un ingegnere di 81 anni, ha guidato il Consorzio Venezia Nuova per trent’anni, sin dal 1983, fino a un mese prima del suo arresto avvenuto il 12 luglio del 2013. Negli interrogatori successivi all’arresto è sembrato smarrito, stanco. Si confondeva spesso sulle cifre elargite ad alcuni esponenti locali, secondo la tesi di accusa della procura di Venezia. Sbagliava le date, si dilungava, divagava. E a un certo punto, stremato, ha detto al pubblico ministero Stefano Ancilotto: “Sa dottore, la prima regola è non stare mai zitto, dire la prima cosa che viene in mente”. Piergiorgio Baita, allievo e sodale di Mazzacurati invece, ha confessato tutto, o quasi dopo l’arresto nel febbraio 2013 (tre mesi e mezzo di reclusione). Con precisione e con passione per il dettaglio, manco stesse tenendo una lectio magistralis sull’evasione fiscale. Spiegando come si facevano regalie e poi si raddoppiavano i costi dei lavori per riavere indietro le somme spese per accontentare tutti: magistrati, funzionari della regione, politici di ogni schieramento. E’ stato lui a descrivere in modo dettagliato come si creava un sistema di falsa fatturazione e di aziende fantasma per creare una riserva di fondi neri. Baita ha dedicato ai politici considerazioni distaccate, espresse con indifferenza, come fossero dei capistazione dei treni da assalire. Infatti, in uno degli interrogatori, ha affermato con enfasi: “Ai politici non bisogna mai pagare due volte per lo stesso obiettivo, basta una”.
E allora si capisce perché in Veneto gli imprenditori, tutti indignati contro la casta politica, non si spingono (quasi) mai a criticare un’azienda come la Mantovani, dalle spalle grosse e capace di affrontare un’opera complessa come il Mose. Quindi, se si tratta di gettare manciate di monetine contro i politici, sono tutti d’accordo, ma se si deve scendere dal generale al particolare, all’establishment economico, si fanno molti distinguo. Con molti se e troppi ma, perché gli eletti dai cittadini vanno e vengono, ma loro, i signori delle grandi opere, quelli rimangono. La nota stonata della narrazione ascoltata per settimane mette sempre al centro del racconto le responsabilità degli amministratori pubblici, che hanno sbagliato perché dovevano vigilare sul rispetto delle regole. Eppure non si deve dimenticare che in Veneto la Prima Repubblica finisce con Piergiorgio Baita in galera. E la Seconda Repubblica ricomincia con Baita libero, come lo è ora, che prende in mano la Mantovani Costruzioni, la fonde con Laguna Dragaggi e ne fa una macchina da guerra. E’ un professionista dell’azzardo e rimane al tavolo da gioco per altri vent’anni. Arrestato nel 1992 nelle inchieste di Tangentopoli, con le sue ammissioni ha contribuito a stroncare molte carriere politiche della classe dirigente della Prima Repubblica, ma poi ha ricominciato da capo. Nel dicembre del 1992, quando gli avevano appena revocato gli arresti domiciliari, ha incontrato Giovanni Mazzacurati, il padre professionale di Baita. Con Mazzacurati, Baita aveva cominciato a lavorare nel 1972. Entrambi ingegneri idraulici, entrambi nel ’92 impegnati nel Consorzio Venezia Nuova.
E così, oggi, mentre i magistrati stanno tentando di smontare il loro complesso meccanismo per monopolizzare il mercato, – costruito mettendosi alla guida di una cordata formata anche dalle cooperative –, si confessa un po’, non tutto, solo qualcosa per salvare la pelle. Si spiegano gli accordi fra i vari cartelli di grandi imprese e cooperative rosse a far da stampelle, quelle che si accontentano di prendere fette di torta consistenti, ma minori. Eppure per loro, chissà perché, non vale il motto “Guai ai vinti”. Presi con le mani nella marmellata dopo una lunga indagine durata cinque anni, sono entrambi di nuovo liberi. E allora Mazzacurati senior, regista delle turbative d’asta, può permettersi di spiegare ai magistrati che lui aveva chiesto a Baita di rinunciare a una gara per favorire le piccole imprese delle cooperative di Chioggia, per rasserenare il clima, per far lavorare tutti, per fare del bene insomma, come deve fare un vero paròn, che pensa ai più deboli, a chi rimane indietro. E a non rompere un patto sociale fra gli attori più deboli e quelli più forti, forgiatori del consociativismo aziendale: un oligopolio imprenditoriale nato e cresciuto grazie all’accondiscendenza di alcuni politici. Uccidendo il mercato, nel nome del libero mercato. E allora non importa se Mazzacurati ha scaricato il peso delle tangenti, anzi delle dazioni, sulle spalle di Piergiorgio Baita. O se, viceversa, l’ex presidente della Mantovani affermava che a portare in giro le valigette piene di soldi, in regione e a Roma, era stato lui, l’anziano Mazzacurati. Ciò che stride davvero in questa narrazione è che da dieci giorni si leggono diverse interviste a Baita, che spiega ai lettori sintomi, mali e rimedi di un mercato asfittico. L’ultima in ordine cronologico è quella pubblicata dal Corriere della Sera, firmata da Gian Antonio Stella, in cui Piergiorgio Baita recita il ruolo del martire, pontifica sul rischio d’impresa, spiega come dovrebbero cambiare le regole e accusa il “sistema” da lui stesso creato di “asfissiante ingordigia”. Nelle sue confessioni insiste sulle pretese dei politici, senza tralasciare nessuno, da Giorgio Orsoni a Renato Chisso, braccio destro dell’ex governatore e assessore alle Infrastrutture, rimasto al suo posto anche nella giunta guidata da Luca Zaia, fino ovviamente all’ex doge Giancarlo Galan. Ma quel passaggio sul milione di euro dati ogni anno all’ex governatore, su cui sicuramente i magistrati devono aver fatto verifiche e accertamenti, è confuso, controverso. L’ingegnere Mazzacurati si esprimeva così: “Per razionalizzare il discorso, al governatore davo un milione di euro all’anno”. Ma poi si confondeva, si contraddiceva, sosteneva che i soldi glieli dava Baita, che accadeva due volte all’anno, affermava che la cifra comprendeva anche altre persone vicine all’ex governatore. Insomma si capisce che i soldi, tanti soldi, venivano distribuiti, ma non si capisce bene l’ordine di grandezza delle cifre regalate durante le feste o per le campagne elettorali. “Baita e Mazzacurati sono degli alchimisti: ricevevano fondi leciti dallo stato e li trasformavano in fondi illeciti”, chiosa Settimo Gottardo, uno di quelli che sospettano sull’entità delle somme elargite ai politici dagli imprenditori. Insomma, ciò che emerge dalle carte processuali dell’indagine giudiziaria e dai verbali degli interrogatori è il ruolo subalterno della politica, o meglio dei singoli esponenti costretti ad accettare regole scritte da altri. Data e premessa la presunzione di innocenza per tutti, sembra accertato, però, che quella cascata di soldi maledetti e subito, finiti dentro le valigette dell’ingegnere Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, ribattezzato il “Supremo”, siano stati distribuiti equamente a chiunque potesse contribuire a semplificare e velocizzare gli appalti delle grandi opere da affidare a un gruppo di imprenditori, membri di una potente e influente cordata. Spingendosi a comprare pezzi di stato, mettendo a libro paga anche alcuni magistrati, per difendere un sistema chiuso, che aveva vanificato ogni libera concorrenza. Come se il Veneto fosse davvero un territorio autonomo.
I padroni del Veneto, o quanto meno delle grandi opere, ora accusano la politica, i politici di essere sporchi, di averli infangati, dopo aver rotto un patto per liberarsi dalla morsa della magistratura, sono ben descritti anche dal saggio di Renzo Mazzaro, che si intitola appunto “I Padroni del Veneto” (Laterza). Cresciuti all’ombra di Galan, in realtà lo avevano preceduto. Non per niente Piergiorgio Baita nel suo interrogatorio definisce Mazzacurati il suo maestro. Perché nel Veneto, per un decennio celebrato come regno del miracolo economico, gli industriali del settore manifatturiero, quelli che producono e accettano il rischio d’impresa – e qualche giorno fa hanno accolto il premier Renzi come un cavaliere bianco – sono solo 61 mila su 493 mila imprese. I padroni del Veneto, che hanno usato il finanziamento illecito alle campagne elettorali di esponenti del Pd e del Pdl, distribuendo prebende anche quando le opere erano già state appaltate e quasi concluse, c’erano anche prima di Giancarlo Galan. Con l’arrivo di Galan hanno gestito 5 miliardi di euro del Mose – di cui uno gonfiato, sovrafatturato e sottratto alla comunità dei contribuenti, secondo la tesi della procura di Venezia – 2 miliardi e mezzo fra autostrade e ospedali. Puntando sul project financing e avanzando dietro le Ati: le Associazioni temporanee d’impresa. I nomi delle imprese a cui vengono affidati i lavori sono più o meno sempre gli stessi. La cerimonia degli arresti per il Mose è stata così clamorosa che molti hanno sottovalutato l’anomalia veneta. Ossia l’assenza di concorrenza, che non è frequente come in altre regioni italiane, ma sistematica. La lista delle opere pubbliche è lunga, ma i nomi delle imprese, due-tre cordate che si sfidano e si alternano nelle gare, sono sempre gli stessi. Non tutti gli imprenditori di queste cordate finiscono nell’indagine giudiziaria, anche se il procuratore Carlo Nordio ha dichiarato: “Siamo all’inizio della fine”. Nelle carte processuali vengono citati molti politici, anche di caratura nazionale. In ogni caso la prospettiva forse andrebbe ribaltata: chi ha guidato le danze sono stati i corruttori, non i corrotti. Chi ha guidato le danze sa usare bene gli sportelli girevoli dei fondi pubblici e salire sui treni degli amministratori pubblici. Mazzacurati si sarebbe ritirato negli Stati Uniti (da tre mesi, dicono i suoi avvocati), mentre Piergiorgio Baita finisce sui giornali a filosofeggiare sul mercato, che ha monopolizzato per vent’anni. E’ lui stesso, del resto, che nel 1992 ha detto di sé: “Sono come uno scoglio sul mare, mentre tutti vengono travolti”. E così è stato, un’altra volta, fino al 2013.
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