Quelli che l'Iran non è poi così male
Ritorno al 2003. L’Iraq è di nuovo in preda al caos, vittima in gran parte dell’indifferenza degli Stati Uniti nei confronti della crisi siriana e di fronte alla domanda su come reagire riemergono gli scontri ideologici che caratterizzarono il post 11 settembre.
Sono passati undici anni dall’invasione dell’Iraq da parte della coalizione dei volenterosi, ma il dibattito tra commentatori e intellettuali su come affrontare una crisi umanitaria e geopolitica è subito tornato nei binari della polarizzazione, con l’aggravante del sangue versato sul campo e una stanchezza della guerra che pare la stanchezza dell’America intera. L’Iraq è di nuovo in preda al caos, vittima in gran parte dell’indifferenza degli Stati Uniti nei confronti della crisi siriana, e di fronte alla domanda su come reagire – nel 2003 si tentava di prevenire, quanta rabbia per gli strike preventivi, ricordate? – riemergono gli scontri ideologici che caratterizzarono il post 11 settembre, il cui punto di caduta è un membro del famigerato “asse del male”: l’Iran. Chi allora contestava la guerra di Bush in Iraq – compreso Barack Obama – sosteneva tra le altre cose che l’America stesse consegnando il paese all’Iran, che governava con i suoi alleati Baghdad e il sud del paese.
La politica estera obamiana, tanto informe, s’è così costruita su due filoni che lo stesso presidente rivendica con insistenza: mettere fine alle guerre bushiane e dialogare con l’Iran (e non guardare quel che accade nel quotidiano, la storia ci giudicherà, quanta boria). Nonostante una strage umanitaria nel 2009 fatta dal regime di Teheran ai danni del popolo iraniano, nonostante una corsa nucleare puntellata di minacce continue, nonostante l’ingresso dell’Iran nella crisi siriana a sostegno di quell’Assad che, nelle parole di Obama, avrebbe dovuto essere cacciato, l’ostinazione al dialogo ha resistito. E oggi che l’Iran si offre di “fare tutto quello che è necessario” in Iraq per contrastare l’avanzata di Isis, una lotta tra mostri spietati, la tentazione di fidarsi è tornata, veicolata da quegli intellettuali che da un decennio sostengono che l’apertura all’Iran è la soluzione ai conflitti mediorientali. A differenza di un decennio fa, la loro voce viene ascoltata: la voglia di dimenticare, più che risolvere, il caos del medio oriente rende l’Iran un partner possibile. Scorrendo i giornali internazionali, i nomi sono quelli di un tempo. Ken Pollack, ex analista della Cia diventato famoso per il libro “The Threatening Storm: The Case for Invading Iraq” del 2002 in cui sosteneva la necessità di invadere l’Iraq e poi pentitosi amaramente, ricorda oggi che anche nel 2001, quando gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan, collaborarono in modo stretto con l’Iran. Pollack, con il suo realismo ritrovato, sottolinea che i rischi sono grandi, le differenze tra America e Iran sono tante, bisogna muoversi con cautela, ma non si può escludere niente.
[**Video_box_2**]Vali Nasr, esperto di medio oriente e autore di un libro-assassino nei confronti dell’Amministrazione Obama (“The Dispensable Nation”), ha detto a Repubblica che lavorare con Teheran è ormai inevitabile, “non nella stessa trincea” con gli americani, ma insieme a tutti quelli che vedono l’avanzata di Isis come il male da sterminare, che saranno alleati anche con l’occidente. Trita Parsi, presidente del National Iranian American Council, dice: “La realtà è che l’Iran e gli Stati Uniti hanno bisogno l’uno dell’altro”, e che questo è anche il momento migliore per stringere l’accordo sul nucleare (è il momento migliore per l’Iran più che per gli Stati Uniti). Due giorni fa, i mitici coniugi Leverett, Flynt e Hillary, che nel 2006 scrissero un saggio contro Bush dal titolo “Dealing with Teheran”, sono tornati all’attacco sul magazine di Politico: l’Iran non si può piegare, tanto vale fare un accordo. Dimenticando che il motivo per cui la transizione in Iraq non ha funzionato è perché l’Iran, attraverso il premier Maliki, ha fatto sì che i sunniti fossero esclusi, e vendicativi. E lo dimenticano anche gli inglesi che, con tempismo invidiabile, annunciano la riapertura dell’ambasciata britannica a Teheran.
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