Il naufragio verde

Giulio Meotti

La parabola di Greenpeace, dall’assalto alle baleniere agli investimenti finanziari. Così l’ammiraglia ecologista ha sostituito i pirati con i ragionieri.

    Li hanno chiamati “moschettieri antinucleari” e “paladini della natura”. Difensori di delfini, balene, foche, tonni, merluzzi, ovvero degli abitanti degli oceani la cui esistenza è minacciata dall’avidità della specie umana. E ancora: eco-sognatori, eco-maniaci, eco-fondamentalisti, eco-stravaganti ed eco-profeti. Un impegno senza frontiere, dalla banchisa del Labrador alle coste australiane. Azioni spettacolari, anche rischiose, hanno creato l’immagine di un manipolo di coraggiosi che sfida nemici ben più potenti e attrezzati e che raccoglie il plauso delle rock star felicissime di aderire alla grottesca eco-campagna di boicottaggio del camembert e dello champagne per protestare contro gli esperimenti nucleari francesi nell’atollo di Mururoa.

     

    Ma adesso Greenpeace, la più famosa e potente organizzazione ambientalista del mondo, che ha avuto il merito di ancorare l’estremismo ecologista alla non violenza, finisce sui giornali per aver perso una ingente somma di denaro. Si era improvvisata speculatrice al ribasso sull’euro. Gli ecologisti hanno chiesto scusa “a tutti coloro che ci appoggiano” con le donazioni, per il “grave errore” commesso dal dipartimento finanziario di Greenpeace International, ad Amsterdam. A rivelare l’operazione finanziaria fallita è stato il settimanale tedesco Der Spiegel, che anni fa accusò Greenpeace di essere una “macchina da soldi”.
    L’ammiraglia dell’ambientalismo è in crisi. Gli attivisti sono depressi, divisi, lamentano la rinuncia ai princìpi della democrazia di base. Una oligarchia decide e amministra sopra le teste del popolo verde. Perché i famosi pirati di un tempo sono diventati dei burocrati. Così si è arrivati (bilancio 2011, tratto dal recente libro di Valentina Furlanetto “L’industria della carità”, Chiarelettere) a Greenpeace che spende due milioni e 482 mila euro per pubblicizzare e raccogliere fondi e meno di questa cifra, due milioni e 349 mila euro, per salvare animali in via di estinzione e foreste. E dai dodici ambientalisti che il 15 settembre 1971 debuttarono a Vancouver per bloccare un test nucleare si è passati a una organizzazione mondiale capillare e gerarchica. Al punto che il Monde ebbe a definire Greenpeace una “multinazionale verde”. Oggi foriera di una ideologia antiscientifica, anticapitalistica e antiumanistica, ovvero il contrario di quella delle origini. Di recente, lo scrittore Erri De Luca ha definito gli attivisti di Greenpeace arrestati in Russia “il nostro onore, il nostro piccolo onore di resistenti all’usura di questo pianeta”. E pensare che Greenpeace venne fondata, nel 1972, da un miliardario canadese di nome David McTaggard, uno speculatore immobiliare. Altro che usura.

     

    E’ la parabola, forse inevitabile, di un’organizzazione nata con pochi dimostranti e un battello preso a noleggio e trasformata in megastruttura con un bilancio e uffici in una trentina di paesi. Per questo Paul Watson, un altro dei fondatori di Greenpeace, ha lasciato e biasimato la sua ex organizzazione per fondare “Sea Shepherd”, che ancora affonda, sperona e sabota le imbarcazioni che cacciano le balene.

     

    I critici dei paladini dell’ecologismo sono spietati. “Greenpeace si presenta come un’associazione per la difesa dell’ambiente, ma è una multinazionale che cerca potere e denaro”, ha scritto il giornalista islandese Magnus Gudmundsson. Patrick Moore, membro fondatore e direttore per quindici anni di Greenpeace, ha scandito così la sua critica: “Promuovono la lotta di classe e l’anti globalizzazione che con l’ecologia e la scienza non c’entrano nulla”. Ute Bellion, ex presidente dell’organizzazione, ha scritto: “I simpatizzanti di Greenpeace non possono partecipare al voto. I direttori non amano l’influenza dei membri. Questi ultimi ci sono solo per pagare e tacere”. Bjorn Okern, ex direttore di Greenpeace in Norvegia: “Se uno crede che in Greenpeace vi sia democrazia farebbe meglio a prendere il vocabolario per sapere il significato del termine. In Greenpeace non può esservi democrazia. E’ una struttura piramidale, dove tutto è deciso al vertice, proprio come in un sistema militare”.

     

    Bjorn Okern ha diretto Greenpeace Norvegia per due anni, e ha raccontato la sua esperienza in un libro dove la definisce un movimento “eco-fascista più preoccupato dei soldi che dell’ambiente”. In una intervista rilasciata a Reclaiming Paradise, Okern ha detto: “Chiunque pensi che i soldi di Greenpeace siano utilizzati per l’ambiente, sbaglia. Viaggiano in prima classe, mangiano nei migliori ristoranti e fanno la bella vita del jet-set ecologista; il motivo principale per cui danno importanza alle balene è perché ci si fanno i soldi”. Una volta Greenpeace era amica della scienza e si batteva per sollevare dibattiti e fondi sulla ricerca più innovativa. Oggi distrugge la scienza. “Neoluddismo”, lo definisce qualcuno. Come quando attivisti di Greenpeace hanno distrutto una intera coltivazione di Ogm a Ginninderra, a nord di Canberra. O come quando se la sono presa con gli iPhone, “tossici” a loro avviso.

     

    Greenpeace è stata spesso trovata in fallo nelle sue campagne contro le multinazionali. L’ufficio asiatico della ong aveva lanciato l’allarme: “Ventiquattro bambini usati come cavie nei test sul ‘golden rice’”. Falso. E opponendosi all’introduzione in Africa del riso ogm, Greenpeace e gli altri ecologisti si sono macchiati di “crimini contro l’umanità”. Ad affermarlo è stato proprio Moore, uno dei fondatori del gruppo. Un anno e mezzo fa una delle più autorevoli riviste scientifiche, l’American Journal of Clinical Nutrition, aveva dimostrato che il golden rice ha fornito a un gruppo di bambini cinesi un quantitativo ottimale di vitamina A, essenziale per risolvere il problema della cecità. Ma Greenpeace ha risposto distruggendo una piantagione di riso biotech nelle Filippine. Il movimento ambientalista ha condotto una campagna contro il riso dorato per più di un decennio, dicendo che si tratta di un diversivo inutile dalle reali cause di carenza della vitamina A. In uno degli ultimi numeri della prestigiosa rivista Science, pezzi da novanta dell’establishment scientifico come Bruce Alberts (presidente emerito della Us National Academy of Sciences), il premio Nobel Günter Blobel, Donald Kennedy della Stanford University, il presidente della Royal Society Martin Rees e il Nobel Phillip Sharp, hanno attaccato “la campagna concertata da Greenpeace e altre organizzazioni non governative contro il Golden Rice” e “la febbre anti Ogm alimentata da pettegolezzi e da un allarmismo di cui beneficiano alcuni individui e organizzazioni”.

     

    Nel 1995 la Shell stava installando una piattaforma petrolifera nell’Atlantico con il permesso del ministero inglese dell’Ambiente. Greenpeace accusò la compagnia di voler scaricare nell’oceano tonnellate di petrolio, rifiuti tossici e materiale radioattivo. La Shell dovette spendere una fortuna per smantellare la piattaforma in mare aperto. L’anno dopo Greenpeace fece pubblicare una richiesta di scuse, ammettendo che la sua campagna era stata un inganno. Non c’erano state perdite di petrolio o di rifiuti. Naturalmente, l’ammissione rimase sepolta tra le notizie brevi nelle pagine economiche o dei necrologi. Qualche anno dopo, quando le semplici lamentele per l’asserita “mancanza di protezione del popolo nigeriano Ogoni” da parte della Shell non avevano catturato l’attenzione dei media abbastanza da metterla a disagio, Oxfam (un’organizzazione umanitaria inglese) e Amnesty International si unirono ai verdi radicali in una martellante campagna contro la Shell, complice di una “catastrofe ambientale”. Si scoprì successivamente che la catastrofe era causata da membri della tribù che sabotavano gli oleodotti per far scrivere ai giornalisti creduloni delle storie che servissero ai capi Ogoni per estorcere alla compagnia consistenti liquidazioni monetarie. La Shell pagò comunque, sperando di mettere fine al problema. Per tutto il tempo però i gruppi di rivendicazione e i media ignorarono questa attività di “racket”, rendendosi di fatto collaboratori e complici dei capi tribù e favorendo futuri ricatti.
    Ma prima della propaganda deleteria sul “golden rice” c’è stato il Ddt. Il suo abbandono da parte del Terzo mondo è stata una delle grandi “vittorie” di Greenpeace, ma ha provocato una delle più enormi tragedie del nostro tempo, della quale pochi in occidente hanno preso coscienza. Greenpeace lanciò una campagna isterica per metterlo al bando, malgrado nessuno studio avesse mai rilevato danni sull’uomo. Il Ddt è infatti efficacissimo contro le zanzare portatrici della malaria – malattia che da sempre costituisce una piaga per le terre tropicali –, tanto che il suo inventore, Paul Müller, venne insignito nel 1948 del premio Nobel per la Medicina.

     

    Ovunque il Ddt sia stato usato, il numero di morti per malaria è crollato, ma appena si è cessato di farne uso, esse sono subito aumentate. Ad esempio, dopo che questo insetticida venne introdotto in Sri Lanka, i casi di malaria passarono da 3 milioni nel 1946 a soli 29 nel 1964. In quell’anno lo Sri Lanka bandì il Ddt e il numero delle infezioni di malaria schizzò a mezzo milione. Nello Zanzibar i casi di malaria, che nel 1958 affliggevano il settanta per cento della popolazione, sei anni dopo erano crollati a meno del cinque. Quando il Ddt successivamente venne vietato, la malaria tornò a dilagare, fino a infettare negli anni Ottanta più della metà della popolazione. Per questo anche un editorialista perbenista come Nicholas Kristof sul New York Times dell’8 gennaio 2005 ha scritto: “It’s time to spray Ddt”. A seguito della column di Kristof, Greenpeace e il Wwf hanno ritrattato la loro posizione contro il Ddt. “Sarà anche facile abbandonare quarantatré anni di eco-isteria contro il Ddt, tranne che per il sangue di milioni di persone”, ha però denunciato Steve Milloy, studioso del Cato Institute.

     

    Gli africani ce l’hanno con Greenpeace anche per la sua guerra al cibo geneticamente modificato che li aiuterebbe non poco a sfamarsi e curare delle malattie. Scienziati dell’Ogm hanno creato un cereale resistente alla siccità. Sarebbe la panacea per la carestia di fame nell’Africa subsahariana. Ma essendo un Ogm, nomen omen del diavolo, non può essere piantato e Greenpeace sta vincendo anche su questo fronte. Il Wall Street Journal ha denunciato “questa brigata verde a cui piace opporsi politicamente ai cibi geneticamente modificati ricorrendo alla scienza-spazzatura” e “la disponibilità di Greenpeace, Friends of the Earth e simili a lasciar morire di fame gli africani in nome di un’ideologia a questi estranea”. “L’Africa ha bisogno della stessa libertà di cui gode l’America”, ha notato il sudafricano Richard Tren in un editoriale in cui commentava una protesta del Congress of Racial Equality contro Greenpeace. “Abbiamo bisogno della libertà di usare tutte le tecnologie che ci servono (energia, pesticidi o cibi), senza interferenze e restrizioni da parte di organizzazioni come Greenpeace che hanno poco interesse per la vita umana. Non abbiamo bisogno delle campagne contro la crescita economica – razziste, sbagliate e pericolose per la vita umana – condotte dall’eco-imperialista Greenpeace”. In Italia il più duro fu il fisico e matematico Tullio Regge: “L’aggressione dei fanatici di Greenpeace è un ritorno al medioevo malamente mascherato da operazione di salvataggio”.

     

    Negli anni, Greenpeace ha anche abbracciato una causa estranea all’agenda ecologista originaria: l’aborto. I suoi dirigenti, come il potentissimo Kumi Naidoo, perorano i “diritti riproduttivi” negli organismi internazionali e presso i media occidentali. Poi c’è il caso di Rebecca Gomperts, già dirigente di Greenpeace e fondatrice di “Women on Waves”. L’associazione ha trasformato una imbarcazione in un centro per aborti off-shore.

     

    Negli anni l’organizzazione ha abbracciato, infine, una ideologia di estrema sinistra grazie al basco José María Mendiluce Pereiro. In barba agli statuti che definiscono la ong “indipendente e apolitica”, l’organizzazione nel 2000 venne affidata a questo politico che non sapeva distinguere una foca da un delfino ma che ha trasformato Greenpeace in una “Redpeace” che si è occupata più di politica che delle balene. Per Mendiluce, “il capitalismo neoliberale è il grande pericolo dell’umanità”. Quanto di più lontano dall’ecologismo libertario delle origini. Da allora una sorta di souverainisme verde-rosso è diventato la bandiera di Greenpeace in rivolta contro il mercato e la modernizzazione. Per dirla con Andrew Orlowski, “Greenpeace ha iniziato come un gruppo di cittadini per combattere l’inquinamento, ma adesso è una potente lobby per la deindustrializzazione”.
    Che tempi quando i pirati squattrinati del miliardario McTaggart assaltavano le baleniere. Oggi i suoi eredi vendono gadget e pregiudizi letali. E slogan mortali tipo “meglio la mosca del Ddt”.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.