I pacifisti annidati a palazzo
Il calcolo sbagliato. Il rifiuto di Obama per le guerre ha reso la politica estera un’analisi costi/benefici. Con molta diffidenza.
Milano. “Non abbiamo finito il lavoro”, dice Damon Albarn, cantante dei Blur, nel documentario “We are many” del regista iraniano Amir Amirani che racconta, con tanti volti celebri e molto attivismo, la marcia del 15 febbraio del 2003 a Londra (e in tutto il mondo): due milioni di persone che gridavano “Stop the war” alla vigilia della campagna irachena contro Saddam Hussein. Quando “We are many” è stato proiettato al Festival dei documentari di Sheffield l’8 giugno scorso, piangevano tutti. Il regista, i vip, il pubblico. Se solo quello slancio pacifista gigantesco, in tempi in cui i social network non c’erano (come a dire: oggi sono capaci tutti di organizzare una protesta), avesse fermato la coalizione dei volenterosi della guerra, se solo quel lavoro fosse stato finito, oggi sì che le cose sarebbero diverse – sospiravano in coro. La stessa litania si è replicata la settimana scorsa a Londra, quando il documentario è stato proiettato al National Film Theatre, e tutti quei cartelli contro “Bliar”, il menzognero Blair, hanno riempito lo schermo e la memoria collettiva.
“Non abbiamo finito il lavoro” è la sintesi del dibattito di queste settimane, ora che l’Iraq è di nuovo in preda alla violenza settaria tra sciiti e sunniti, e tutti si domandano se sia stata la guerra in Iraq voluta da George W. Bush e Tony Blair con i loro alleati volenterosi a causare questo collasso. L’ex premier britannico domina il gioco dei “se”: ancora ieri sul Financial Times rispondeva a un editoriale del quotidiano inglese che gli attribuiva la responsabilità della crisi odierna, ribadendo che l’idea che Saddam sarebbe stato un ideale di stabilizzazione è assurda e ricordando che la minaccia dell’estremismo radicale islamista non è nata nel 2003 dopo la guerra in Iraq né nasce oggi. Nel gioco delle colpe, si sono infilati anche molti altri sostenitori della campagna irachena, i Cheney, i Wolfowitz, i Kristol, i Kagan, i famigerati neoconservatori insomma, al punto che ieri Edward Luce, sempre sul Financial Times, scriveva che “come un cadavere che si rialza colpito da una scossa elettrica, così i neocon americani ritornano alla vita”. Degli zombie, insomma, che si siedono nei salotti dei talk-show americani e si godono la loro inaspettata primavera.
Ma chi, davvero, non ha finito il lavoro? I pacifisti che avrebbero dovuto tenere a bada i guerrafondai oggi redivivi o i leader di oggi, che stanchi della guerra e dello scontro di civiltà, hanno abbandonato in fretta i campi di battaglia sperando di potersi buttare alle spalle le guerre sbagliate del post 11 settembre? Il gioco dei “se” è destinato a continuare, ma quel che distingue il 2003 dal 2014 è che la logica di “Stop the war” non è più urlo di piazza ma urlo di palazzo – della Casa Bianca, in particolare – e che, in un cortocircuito storico che farebbe sorridere se non fosse carico di morte, quelle prove sulle armi di distruzione di massa che non c’erano nel 2003 oggi ci sono, eccome, nella Siria di Assad, che è l’orgine primaria dello scontro settario ora in corso tra Siria e Iraq. Il pacifismo di palazzo è incarnato da Barack Obama, il quale di certo non può essere definito un pacifista essendo il commander in chief dell’America che ha continuato l’antiterrorismo di Bush con altri mezzi (i droni), ma che rappresenta il rifiuto della logica della guerra come soluzione alla crisi – è l’unico leader al mondo ad aver preso un Nobel per la Pace preventivo. L’ideologia della pace è facile – chi è che non la vuole, la pace? – ma si è trasformata in un calcolo costi/benefici da ragionieri efficienti, non da leader politici.
Il calcolo dei costi/benefici che sostanzia l’approccio obamiano alla politica estera sembra poi sbagliato. Sabato il Wall Street Journal ha raccontato che l’Amministrazione Obama ha autorizzato alla fine dell’anno scorso un piano segreto di aiuti d’intelligence all’esercito iracheno per contenere l’avanzata dello Stato islamico. Sono stati dedicati alcuni droni, il cui lavoro è stato limitato dagli stessi iracheni che hanno autorizzato i voli di sorveglianza soltanto una volta al mese. Invece che condividere con Baghdad tutte le informazioni dei droni, dice un ex funzionario a conoscenza del programma, gli americani hanno dato alla controparte irachena soltanto alcune immagini, per paura che tutto il materiale finisse nelle mani degli iraniani, che sostengono il governo iracheno ma che sostengono anche il regime di Assad in Siria. La diffidenza nei confronti del premier iracheno Nouri al Maliki ha rallentato il lavoro dell’intelligence, ha spinto la Casa Bianca alla cautela e ha contribuito a sottostimare la capacità di resistenza dell’esercito di Baghdad. A fine aprile, il Pentagono ha dislocato un team per le operazioni speciali per testare le capacità delle forze di sicurezza irachene: il risultato è stato deprimente, l’esercito iracheno non è né ben equipaggiato né ben formato. E i problemi d’intelligence continuano: stanno arrivando i 300 consiglieri militari promessi da Obama, ma le difficoltà di condivisione sono così grandi che non c’è certezza – né accordo – su quali possano essere gli obiettivi da colpire.
[**Video_box_2**]Sul New Yorker, Dexter Filkins, inviato di guerra che considera la campagna irachena del 2003 una delle cause del disordine odierno, scrive: “Nel 2003, le truppe americane distrussero lo stato iracheno e le sue istituzioni; per gli otto anni e mezzo successivi hanno cercato di costruire qualcosa che lo sostituisse. La verità è che nessun sistema politico imposto agli iracheni ha mai funzionato senza un sostanziale coinvolgimento dell’America; da quando gli americani se ne sono andati ha smesso del tutto. I militari e i diplomatici americani non possono salvare l’Iraq né governarlo, ma la decisione di Obama di ritornare in Iraq dipende dalla capacità di riconoscere che è stato lasciato del lavoro da finire”. Come scriveva Ian McEwan nel romanzo “Sabato”, ambientato nella grande marcia di Londra per “Stop the war”: “Sono tutti eccitati all’idea di essere insieme per le strade, la gente ride e s’abbraccia. Se pensano, e potrebbero anche aver ragione, che la tortura, le esecuzioni sommarie, la pulizia etnica e il genocidio occasionale siano preferibili a un’invasione, dovrebbero cercare di apparire un po’ più cupi”.
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