L'attesa della vendemmia

Stefano Di Michele

Indugia e aspetta. Il vino buono o un tuìt di Matteo. Per ripartire. Si è rifugiato sulla terraferma. Omerico per passione e per identificazione – l’Ulisse che ognuno batte con astuzia più che con forza, le onde solca e il timone tra le forti mani stringe – ha posto fine all’epica dell’Ikarus.

Di sicuro, per ora, ci sono solo cicale e grilli. Sempre meglio dei grilli parlanti che hanno preso il potere nel partito, quelli lì sanno pure di tappo – ma che dolore da una parte, e che palle dall’altra… Poi chissà se ci sarà da mietere il grano (“andiamo a mietere il granoooo, il granooooo / raccoglieremo l’amoreeeee, l’amoreeeee”), ed ecco la vendemmia, sicura come grilli e cicale (“oh com’è bella l’uva fogarina / oh com’è bello saperla vendemmiar…”), altro che la Clinton Global Initiative, bla-bla-bla a parlar del mondo e al mondo e chissà mai il mondo dove cazzo è andato a ficcarsi, e seguirà l’inevitabile “aspro odor de i vini”, che dal ribollir dei tini l’anima rallegrerà. La rallegrerà, poi? Chissà. Boh. Mah. Volano i mesi, le stagioni, i filari si piegano sotto il peso degli acini, i filari riposano dentro le nebbie. E il cane Aiace abbaia – buonissimo, però “se percepisce il pericolo, uccide”: e così tante qualità nelle bestie vediamo, le stesse qualità nostre – e dunque arranca tra i filari, tra Narni e Otricoli, e decanta Vincenzo Cardarelli, Massimo D’Alema che sa di politica e pure sa di letteratura: “Sempre obliasti, Aiace Telamonio / ogni prudenza in guerra, ogni preghiera”. Ed ecco, giustappunto: prudenza e preghiera – l’una e l’altra così simili all’attesa di qualcosa. E forse per la prima volta nella sua lunga vita politica D’Alema attende, indugia, aspetta – stavolta più simile a pedina che a giocatore, s’ode forse uno squillo, fermate la vanga!, tra grilli e cicale? E ciò che a edificazione della saggezza altrui una volta dispensava, l’amato Sun Tzu generale e filosofo, ora forse a paradosso del suo vigilante vagare tra gli orti si pone: “Se sei capace, fingi incapacità; se sei attivo, fingi inattività”. Ma si può fingere, ora, quando ciò che una volta sagace finzione appariva adesso brutale costrizione sembra?

 

C’è un baratro, una voragine, da qui all’attesa vendemmia. Giorni lunghi come anni – il ducato che fu dalemiano in fiamme, anzi più che in fiamme: in cenere. Né la sempre vantata, e peraltro sempre riconosciuta, intelligenza pare avere più corso, e lo stesso cinismo politico, cifra del benefico innalzarsi dalemiano sulla storia solenne e confusa e a tratti un po’ coglione della sinistra italiana, da altri pare praticato persino con più piacere e certo con migliori risultati: 40,8 per cento, il Sassicaia della vendemmia del 25 maggio. C’è una quota di D’Alema, in Matteo Renzi, come c’è una quota di Berlusconi. I due vecchi contendenti, un po’ nemici bellicosi e un po’ allegri compari nel loro fiutarsi e comprendersi e combattersi, hanno finito col cedere le parti più pregevoli della loro sovranità e della loro personalità al barbaro fiorentino, dall’assordante eloquio però dal sangue fresco. Ma per D’Alema c’è forse qualcosa di più amaro, di fronte a questa già acre constatazione: che il cono d’ombra a lui toccato è generato direttamente dalla nuova luce che nel suo partito si è accesa. Falò, più che luce, sorta di incendio di Chicago – e ha allungato le sue ombre fino alle alture là dietro Terni. E dove capotavola una volta era dove lui si sedeva – a evocazione di Cervantes e di opportuna segnalazione politica, lo disse – adesso capotavola è dove allunga i piedi fin sopra la tavola il ciarliero giovanotto. Attende, D’Alema – altro non può fare, come la Sonja di “Zio Vanja”, attendere tocca “una lunga, lunga fila di giorni, di lente serate, sopporteremo pazientemente le prove che il destino ci manderà…”. Attende che l’uva maturi, così che il vino sia ottimo; attende che il telefono squilli (forse), così che l’avvenire sia consolante – che poi, cavolo!, hanno chiamato dalla Mongolia, la Mongolia!, per ordinare mille bottiglie del vino dalemiano, e non può chiamare il Gengis Khan di Pontassieve? E’ successo questo, a D’Alema, come a tanti altri prima di lui, come a tanti che verranno: che le cose si sono messe a correre, raggiunto e superato. Succede che arrivano, come diceva Andreotti, quelli “che vogliono insegnare il Vangelo agli Apostoli” – e un po’ sono spacconi e un po’ sono inadatti e quasi sempre eccessivamente si valutano. Quelli volevano far di peggio che indottrinare gli Apostoli sui loro Atti: volevano spiegare la politica a D’Alema. Di solito, armata Brancaleone di poca sostanza, però ecco: quando le cose cominciano a correre, ciò che sembrava realtà diventa una sorta di “galleria del vento”, del tipo ipersonico, dove velocità e disordine del vecchio ordine si travolgono e ti travolgono. Poi magari tutto quel vento incontra le vele di una persona – una faccia da schiaffi, un giubbotto di pelle, uno slogan da svuotacantine: signo’, rottamamooooo! – allora non c’è più intelligenza che tenga: e pure l’astuto “mercante fenicio” (così diceva l’Avvocato Agnelli: con ammirazione, si capisce) è costretto a entrare in porto, abbassare le vele, cercare riparo nella taverna.

 

Attende D’Alema – sarà il momento di dare il ramato? Ognuno sa che lui in Europa vorrebbe andare, all’estero! all’estero!, la sua irraggiungibile Mosca da sorella cechoviana, e forse più felice di tutto fu il suo periodo da ministro degli Esteri, quando sul molo al cellulare conversava con la Condi di Bush – felice come se dalle acque del Mediterraneo sotto i piedi letteralmente emergesse. Persino i suoi libri, negli ultimi anni, si erano così dilatati altrove, oltreconfine, diciamo, fino a farsi continentali e planetari, così nei titoli galleggiavano luminose le parole “globalizzazione”, oppure “Europa”, persino, “mondo nuovo”. Come certi monaci medievali che dall’eremo scrutavano l’intero creato, così D’Alema tra le alture di Narni, nella quiete di “La Madeleine”, allunga lo sguardo non meno del gusto enologico, annusa l’aria – si morde il baffo. Ringhia, Aiace. Chissà se D’Alema vorrebbe farlo. L’ondata renziana ha sommerso la sua antica Atlantide – chi è tornato a galla, tra i suoi, di rapida e immediata e partecipe adesione a ciò che si annuncia piuttosto che a ciò che è stato fa pubblico sfoggio. E lui, nonostante tanta sapienza e tanto acume, costretto alle riunioni con la minoranza – volenterose facce che già prima della piena del 41 per cento avevano qualcosa di faticoso approdo a riva, il rischio dell’annegamento nello sguardo – e con fiacche argomentazioni andare al microfono: non contestiamo quello che ha fatto il governo, ma vorremmo di più: una fiammella di arcaico ben/altrismo, quello che “ben altro, compagni, è il problema…”, il mirabile meglio che scantona il possibile di oggi.

 

Figurarsi se D’Alema non lo sa. E se non è partecipe, con giudizio seppure non insensibile al paradosso, del giubilo del segretario della sua sezione, e segretario suo, che custodiva le chiavi dei locali di piazza Mazzini, oggi diventato presidente del partito che forse gli potrebbe negare l’Europa. Come “la savia Penelope” di quei versi omerici amatissimi, dove la fedele consorte riconosce Ulisse a motivo del letto coniugale intagliato nell’ulivo (ecco, a proposito di metafore e paradossi), il savio Orfini all’incrocio di quei venti che lui hanno travolto si è trovato nella direzione che spingeva al volo. Attende D’Alema, nella consolazione delle vigne, nel momento certo crudele del contrappasso – fu momento che conobbe Natta, fu momento che conobbe Occhetto, e per Matteo pure verrà il suo momento. Ma né il prima né il dopo hanno la pesantezza del mercurio del presente. Attende, D’Alema: sa bene quel che vale, seppure non riesce a decifrare quanto ancora conti. Solo a lui alla fine – a parte figurine secondarie già scolorite in cronaca e memoria – potrebbe toccare la dannazione reale della proclamata rottamazione. Della dimenticanza. Così che intanto Orfini s’innalza, Cuperlo con cui scriveva libri fa la minoranza da leader, antichi sodali come Minniti nientemeno verso il Viminale potrebbero essere dirottati, pure Velardi, di solito tra la divertita analisi e la bisboccia nei giorni belli e perduti di Palazzo Chigi, ora pianta il suo chiodo di disincanto piuttosto che di rimpianto: “La via che ha imboccato è una deriva triste e biliosa. Ormai siamo nella psicologia…”. Tu quoque, Vela’?

 

E soprattutto, Walter. Ah, Walter Veltroni… Una vita a inseguirsi e a sfuggirsi, la convenienza e l’iconografia del partito li saldava (“due risorse”, sì, buonanotte, i due più amati dal partito, il Bucharin 1.0 e il Bucharin 2.0), diffidenza che attraversa i decenni e i partiti stessi rotolati dalla costola del Pci, come monetina da saccoccia bucata: Pds, Ds, Pd, ecc. ecc… E quel Walter lì, che ora è il custode della cara memoria berlingueriana, che fa il film, e tutta l’Italia ad applaudire a scena aperta, Napolitano in testa, e dicono che magari, chissà, domani, il Quirinale… Che fare, allora, quando tutte le onde sembrano sommergere?

 

D’Alema si è rifugiato sulla terraferma. Omerico per passione e per identificazione – l’Ulisse che ognuno batte con astuzia più che con forza, le onde solca e il timone tra le forti mani stringe – ha posto fine all’epica dell’Ikarus. Si è issato sulle colline umbre, quale democratico Mastro don Gesualdo, i piedi tra le zolle, a riva, come certe sagge tartarughe di mare che rifanno migliaia e migliaia di chilometri per tornare sulla spiaggia dove la loro stessa esistenza ebbe origine. Lì aspetta. Cosa, poi, chissà… C’è il giovane Letta, che si profila lui verso l’Europa (mica sdegnerebbe, pur fresco di lividi da defenestrazione governativa). E il ministro Padoan, un altro messo in pista. E chissà Matteo che cosa ha in testa – e mica chiama, poi, manda i messaggini, “ci sentiamo via sms, come i ragazzi”, oddio, pure questa? – e che roba, da Cardarelli e Omero a “mat xché czz nn t fai sent?”, “max, stai sereno, xché ttt tranq”. Né capotavola, né tavola. Forse, risalire il vento, se si può. In barca, sapeva D’Alema come fare, “piegandoti a trenta gradi puoi risalirlo. Questo è un insegnamento per la vita: se non ti pieghi non vinci”. Piegarsi, come l’Ikarus che conosceva la sua galleria del vento. Innestarsi, come si fa con le viti. E poi? Poi aspettare – ché lui semplice frate, da priore che era, come allargò le braccia e abbassò il capo il vecchio Natta quando fu il momento, non vuol tornare. Ma lì, dentro il suo partito che (quasi) lo idolatrava come oggi fa con Matteo, tanta l’eresia che oggi corre che magari alla fine per eretico passa lui. I Proci, ecco, giovani e scanzonati e maleducati – maledetti, mentre lui stava per mare hanno preso il potere nella sua Itaca.

 

Così, certi giorni. Come quello con Alan Friedman – a zonzo per campi e vigne, uno pareva l’agrario e l’altro il curato in visita, quell’ombra di “arrivedorci! arrivedorci!” che il frizzante giornalista sempre involontariamente evoca. E lì, di bianco vestiti, a rimirare ulive e alture e foglie di vite: un occhio ai rischi del paese e l’altro ai rischi della fillossera. Brandelli di una fervida nuova esistenza (einaudiana, Dio voglia, per vini e vigneti e riconoscimenti) che riappaiono carsici nel corso dei mesi, così che l’altra settimana sul Fatto c’era nientemeno che un’intervista fatta in quella felice scampagnata, da Friedman firmata e con questa avvertenza pubblicata: “Questa intervista a Massimo D’Alema, nella sua tenuta umbra di Otricoli, è stata registrata il 20 agosto 2013”, roba che ha avuto modo di invecchiare anche il vino dell’ultima vendemmia – due sapienti in vigna per tacer di Aiace, così se Massimo dice “la quinta potenza”, Alan subito precisa: “Quell’espressione ‘la quinta potenza’, fui io a coniarla…”, e Massimo rassegnato: “Esatto…”, e s’intuisce la ricerca disperata della pompa del ramato. E’ saggio, come sempre, D’Alema – ma serve, la saggezza? E come sempre è gagliardamente sprezzante, D’Alema – ma a cosa serve, lo sprezzo di antico conio, di fronte a quello più fresco, da tuìt piuttosto che da Stanislaw J. Lec, di Matteo? Come la cedrata messa a fronteggiare il mojito – e pazienza se si può pur sempre considerare la superiorità della prima rispetto alla barbarie da happy hour.

 

Poi, in attesa di disporre i tini – la meritoria attività è stata annotata e dettagliata sulle pagine di Chi, dove D’Alema a torso nudo appariva, con maschio vigore da vero rurale testosteronico, e via alla produzione, tutto un inno ai lieti calici, “ha esordito in campo enologico con Sfide, un Cabernet Franc prodotto in 3 mila bottiglie, e proseguirà poi con il NarnOt, taglio bordolese, e il brut Nerose, bollicina a base di Pinot Nero” – assicurarsi che tra i campi ci sia campo per i cellulari, subire persino il paradosso della tradizione, che a D’Alema hanno sempre rinfacciato di difendere oltre l’indifendibile, e che adesso viene riportata a nuovo vigore dal dispettoso fanciullo che proprio su quel campo, nelle primarie dall’anno, fece radicale trebbiatura. Perciò, ecco Matteo che si schiera in difesa della pericolante Unità, e che rapido ribattezza le feste annuali feste dell’Unità, dopo una deriva angosciante che spingeva verso il “Democratic party” con bicchiere da cocktail, militantessa dalla lunga coscia con gonna al vento come Marilyn (senza, peraltro, l’originale), ganzo giubbotto alla Fonzie e scritta “happydays” – a pensarci ti diventa tutto aceto…

 

Quel che rimane da qui alla vendemmia è “quel che resta” del giorno dalemiano: l’ultima possibilità, la giornata verso il tramonto, l’ora che come mai volge al desio. E tutti a far gli scemi con la storia del Cincinnato Spezzaferro, mentre esso è vignaiolo, appunto come l’illustre Einaudi, mica allertato da semplice ortolano su fagioli e pomodori. Pure il Sole 24 Ore andò in avanscoperta, l’anno scorso, col bravo Michele Masneri, è giù a raccontare il (quasi) eremo dalemiano con affastellamenti di “comignolo segnavento, di ferro battuto, da Cassago Brianza”, a evocare “villette bifamiliari di elettrici”, pure Milano 2 “manca solo il lago dei cigni”, “un gazebo Unopiù”, cassetta per missive magazzino Brico, grès porcellanato e faretti incassati – si sa, come siamo fatti noi giornalisti: sempre a fare gli esteti col culo degli altri. Che poi, mentre l’uva matura, c’è da pensare e riflettere – le scarpe non andavano bene, il risotto nemmeno, la barca non ne parliamo, la Bicamerale lasciamo stare, la cagnetta Lulù, neppure il grès porcellato, e che cazzo! E il telefono, squilla? Oggi neppure, domani chissà. E il giustificato sospetto politico sul vispo Matteo – “mat :-)”, “max st ser”: ombre renziane tra l’altura e il filare, magari rosse! – un caro motivetto, che incanta e lascia aperta la strada del sospetto in testa, “ho sbagliato tante volte ormai che lo so già / che oggi quasi certamente / sto sbagliando su di te…”. Brutti pensieri, forse. “Chi tìè la vigna tiè la tigna!” – dice il saggio contadino, e il saggio D’Alema sa che tigna fastidiosa come Renzi al momento non c’è vigna in tutto il contado che l’abbia.

Nei giorni di gloria, quando il posto a capotavola si formava col suo stesso sedersi, quasi lanciò D’Alema, lettore adelphiano, Sándor Márai e le sue “Le braci”. Le braci ardono, ma subito si spengono. E Màrai ebbe due vite – quelle che il suo antico estimatore vorrebbe evitare: gloria e grandezza letteraria prima, a Budapest; oblio poi, su sperduta spiaggia californiana: “Il grande fallimento nella vita non consiste nello scoprire da ultimo che ci siamo sbagliati. Ancora più deprimente è accorgersi che non possiamo far altro che sbagliare…”. L’uva è ancora aspra, adesso. Però tra un po’ sarà dolce. Magari anche il telefono squillerà. Tra un po’. Tra un po’, però, non di più – ché subito dopo pure l’uva comincia ad appassire.

Di più su questi argomenti: