Ma quale guerra, gli americani non vogliono sentir parlare di medio oriente

Stefano Pistolini

Forse, senza sprofondare nel sensazionalismo e nel catastrofismo, si può dire che il tanto annunciato “declino americano” consista proprio in questo diffuso rifiuto, in questa netta rinuncia a occupare lo spot della superpotenza, in servizio permanente per la salvaguardia della democrazia mondiale.

    Los Angeles. Pensate un po’: adesso l’America scopre la categoria dei bamboccioni. Il magazine del New York Times ci fa addirittura una cover story su quelli che chiama i “boomerang boys” e nell’attacco dell’articolo il giornalista sottolinea con clamore come un giovane su 5, tra i i venti e i trent’anni, ancora viva coi genitori: lo inviteremmo a farsi un giro da noi. Il fatto è che la recessione è una malattia complicata, di quelle, come si dice, con degli strascichi. Pratici, e soprattutto psicologici. La spossatezza, per esempio, il senso di stanchezza. Neanche le vitamine funzionano come una volta. L’America è stanca, convalescente, irritabile. Gli americani sono stanchi. Stanchi di guerre che cominciano tra il risuonare di marcette e finiscono sempre in un mare di guai, per non parlare dei bilanci di vite umane da brividi e dei costi insostenibili per le tasche dello stato. Mandare in giro per il mondo eserciti sotto le insegne della elargizione della democrazia a popoli che hanno tutt’altre idee, secondo l’americano medio, ha a che fare con il masochismo. O con oscuri interessi che lo disgustano. Le notizie sull’evoluzione della situazione in Iraq sono la dimostrazione di questo sentimento. Solo sentirle risuonare nelle televisioni americane provoca commenti stizziti, rabbia, sconforto in qualsiasi consesso. E l’Afghanistan? Tutti pronti a sottoscrivere che finirà esattamente allo stesso modo. Se qualcuno la pensa diversamente, noi non lo abbiamo ancora incontrato.

     

    Anche il presidente Barack Obama appare stanco. Le reazioni alle sue inziative sono, a dir poco, contraddittorie. Breve elenco? Riforma dell’assistenza sanitaria, Guantanamo, questione gay, circolazione delle armi da fuoco, adeguamento delle fonti energetiche, climate change. Perfino la battaglia di Michelle contro l’obesità ha risultati scoraggianti: fate un giro in un aeroporto americano per convincervene. Al sud, due donne su tre sono obese: due su tre, una percentuale inaccettabile, per un paese fissato con le salvaguardie. Barack Obama saprà ancora come confezionare un discorso coi fiocchi, ma da lì a sortirne effetti reali presso l’opinione pubblica il passo è lungo. Troppo, forse. La crisi economica, la grande paura, in effetti pare alle spalle. Faticosamente, come in una convalescenza da una malattia molto seria, il paese si rialza, scova stimoli e dinamo che riattivano il sistema. Ma lo spavento è stato terribile, la lezione memorabile. Qualche vecchio vizio torna al suo posto: i soldi, i desideri, la cronica malattia del consumismo. Ma di grandeur internazionale, di ruolo nel mondo, nessuno vuole neppure sentire parlare. Sia detto a due anni dalle presidenziali.

     

    Per questo motivo la parola “Baghdad” viene pronunciata con circospezione anche nei telegiornali e perfino le tv “all news” trattano l’argomento con le molle: intervenire senza mandare un esercito? State scherzando? Farci risucchiare un’altra volta? Nessuno ci crede. E nessuna guerra è stata vinta coi droni.  “No way”, viene detto per chiudere l’argomento. Piuttosto: se proprio non ci fossimo andati? Se avessimo lasciato Saddam al suo posto? Se, una volta per tutte, la smettessimo col cercare di imporre logiche americane a popoli che non ne vogliono sentir parlare e ti odiano cordialmente?

     

    [**Video_box_2**]Il messaggio è chiarissimo, è una temperatura percepita, al di là dei dati ufficiali e delle visite di preoccupata cortesia del segretario di stato John Kerry in Iraq. Approvazione dell’operato di Obama: 41 per cento. Il 54 per cento degli americani non considera più il presidente in grado di guidare il paese e di prendere le direzioni giuste. Le decisioni dello Studio ovale non vengono più recepite o ritenute interessanti, se rispolverano questioni internazionali. Anche la storia della liberazione del prigioniero di guerra Bowe Bergdahl è stata vista, a dir poco, con scetticismo. E non sono numeri destinati a cambiare, neppure se le cronache irachene dovessero imboccare un’escalation formidabile. Pensare a un Obama che va in televisione a rispolverare la questione dell’intervento è puro magical thinking. Si occupasse piuttosto della questione dei salari minimi, quello sì che è un argomento che fa presa. E i repubblicani si preoccupassero del 15 per cento di consenso che hanno tra i latini, invece di perder tempo a sparare sulla presidenza. Salari, immigrazione, energia. Economia, economia, economia. Non sarà più un paese per sognatori, ma che volete farci, a forza di fare i conti con lo sportello-prestiti della banca, ci si riduce così. Non è un caso che chi adesso nei sondaggi di gradimento sta sopra il 50 per cento di approvazione siano le piccole e grandi imprese, le scuole e la polizia.

     

    Forse, senza sprofondare nel sensazionalismo e nel catastrofismo, si può dire che il tanto annunciato “declino americano” consista proprio in questo diffuso rifiuto (90 per cento, vogliamo ipotizzare?), in questa netta rinuncia a occupare lo spot della superpotenza, in servizio permanente per la salvaguardia della democrazia mondiale. E in questo ritorno alla praticità delle piccole cose, che tanto piccole non sono, ma che riguardano tutte i fronti interni, non certo le recrudescenze che s’arroventano in medio oriente. Dio ce ne scampi. Diciamo che la questione economica ha messo k.o. quella militare. Senza appello. Del resto si può parlare. E se ne parlerà a dismisura, già in vista delle elezioni di mid-term di novembre, che aprono la corsa per le presidenziali 2016. Certo, resta, a noi, un rompicapo da risolvere: se il garante dell’ordine mondiale dice che per lui può bastare, chi è il prossimo in fila disposto a farsene carico?