Luis Suarez, attaccante del Liverpool e dell'Uruguay (foto LaPresse)

Mordere la vittoria, mordere la polvere

Piero Vietti

“Sono cose che succedono all’interno dell’area di rigore, eravamo petto contro spalla e io ho anche subìto un colpo all’occhio. Sono cose che in campo possono succedere e non dobbiamo darci troppa importanza”. Se si vuole capire chi è Luis Suárez bisogna partire dalla fine.

“Sono cose che succedono all’interno dell’area di rigore, eravamo petto contro spalla e io ho anche subìto un colpo all’occhio. Sono cose che in campo possono succedere e non dobbiamo darci troppa importanza”. Se si vuole capire chi è Luis Suárez bisogna partire dalla fine, e per la precisione dalle sue parole a commento del morso rifilato a Chiellini durante Italia-Uruguay. Se c’è un giocatore al mondo che sa bene che cosa succede in un’area di rigore, quello è proprio Luis Suárez, il Pistolero.

 

Nato quarto di sette fratelli a Salto, in Uruguay, nel gennaio del 1987, oggi è probabilmente il terzo attaccante più forte del mondo, dopo Messi e Cristiano Ronaldo. Solo che commercialmente  funziona meno, quindi lo sanno in pochi. Quando è rientrato in campo per la seconda partita di questo Mondiale, ha preso tra i denti una squadra bollita e senza speranze e l’ha portata agli ottavi, segnando una doppietta all’Inghilterra e mordendo Chiellini contro l’Italia. Quasi sicuramente non li giocherà, gli ottavi, e nemmeno un bel po’ di partite dopo, né con la Nazionale né con il Liverpool, il suo club. Da quando il calcio è diventato il palcoscenico del buon esempio più che uno sport, quelli come lui vengono bastonati. Agli ottavi non ci sarà, ma sa che senza quel morso la sua squadra non sarebbe mai andata avanti. Esagerato, sbagliato, folle, quel morso è stato come un segnale ai suoi e agli avversari che l’Uruguay non avrebbe mollato, che era il momento di mangiarsi quegli Azzurri così spaventati. Il gol dell’1-0 di Godín arriverà pochissimi minuti dopo.

 

“Sono cose che succedono all’interno dell’area di rigore”. La frase è talmente paradossale da essere vera. Quando negli anni Settanta c’erano meno telecamere e il calcio era sport brutto, sporco e cattivo, in un derby di Torino il difensore della Juventus Morini morsicò l’attaccante granata Pulici sulla coscia, pur di non farlo tirare verso la porta difesa da Zoff. Quando oggi Pulici racconta quell’episodio sorride, e lo porta a esempio di quanto fossero sentiti i derby in quegli anni. “Quando la palla è in gioco – ha spiegato al New York Magazine Adam Naylor, psicologo dello sport alla Boston University  – le emozioni guidano il comportamento dell’atleta molto di più del semplice pensiero razionale. Le emozioni intense possono portare a prestazioni incredibili, ma possono anche portare alla follia totale”. Luis Suárez è uno che vive la partita come un concentrato puro di emozione, rabbia, frustrazione, incazzatura, follia. Non è razionale quando gioca. Ecco perché segna così tanti gol, ecco perché quest’anno è il giocatore che l’ha messa in porta più di tutti in Europa, e ha portato il Liverpool a sfiorare il titolo in Premier League. Piange, Suárez, e non si vergogna. Piange in campo dopo una vittoria, piange stravolto in panchina durante i minuti finali di una partita in bilico, piange davanti alle telecamere che gli sbirciano l’anima dopo la sconfitta che ha fatto perdere il campionato alla sua squadra. 

 

Quest’anno ha segnato in tutti i modi possibili: con tiri da 40 metri al volo, tocchi ravvicinati dall’area piccola, colpi di testa, dopo essersi dribblato mezza difesa avversaria, su punizione, di potenza, di precisione. A un certo punto della stagione bastava dargli la palla dalle parti dell’area, eri sicuro che avrebbe combinato qualcosa. Suárez vive per la porta, per il gol, conosce ogni metro dell’area di rigore, anche se gli piace entrarci da lontano, flirtare con quei sedici metri in cui si scrive il destino di una squadra, in cui si vede la differenza tra vivere e morire, tra mordere e avere paura.

 

Guardate il suo primo gol in assoluto, nella serie A uruguagia. E’ il 2005, lui ha 18 anni e a un certo punto un’azione orchestrata dai suoi compagni nell’area avversaria gli fa capitare un pallone all’altezza del muso. Vorrebbe morderlo, quel pallone: Luis è girato spalle alla porta, a pochi metri dalla rete. Salta all’indietro e colpisce il pallone con una rovesciata. Non è gol. Ma è in quell’istante che si capisce chi è Suárez. La palla, toccata da un difensore, rimbalza sulla traversa, poi sui piedi di un suo compagno (la squadra è il Nacional di Montevideo) che tira. Ancora respinta. Ma a quel punto Luis è già in piedi, ha continuato a seguire la palla, è rimasto lì, nel posto giusto. Questa volta non sbaglia. Gol. 

 

Quell’anno vince il campionato, e il Groningen, una squadra olandese, se lo porta in Europa. E’ felicissimo: potrà così avvicinarsi alla ragazza di cui è innamorato da quando ha quindici anni, Sofia, che qualche tempo prima si era trasferita con la famiglia nel Vecchio continente. Sofia diventerà sua moglie tre anni dopo, insieme avranno due figli. Nel Groningen resta un anno. Lo prende l’Ajax, gioca tre stagioni e mezza, segna 81 gol in 110 partite, vince una Coppa d’Olanda e diventa capitano. E’ là che dà il primo morso della sua carriera a un avversario, Bakkal del Psv. Lo rifarà in Premier League qualche anno dopo, come hanno ricordato tutti in questi giorni, un paio di stagioni dopo gli insulti razzisti a Evra, giocatore nero del Manchester United. Dopo il morso a Ivanovic del Chelsea subisce un periodo di isolamento nel Liverpool. La scena di lui che corre verso la bandierina dopo un gol, e quando si gira per abbracciare i compagni scopre che tutti stanno tornando a centrocampo senza guardarlo, è stata umiliante, ma uno stimolo in più per lui. Se li è riconquistati tutti a suon di gol e grandi prestazioni.

 

Un tifoso non può non innamorarsi di uno così. Uno cui interessa una sola cosa, il gol. La scorsa estate stava per lasciare Liverpool, ma il capitano Gerrard lo convinse a restare. Fu Gerrard a consolarlo dopo il 3-3 contro il Crystal Palace che consegnò il campionato al Manchester City. E’ stato Suárez a consolare Gerrard dopo la sconfitta dell’Inghilterra al Mondiale, prima di essere portato in trionfo dai compagni.

 

Adesso che tutto il mondo chiede comprensibilmente una punizione esemplare, che tanti ex giocatori alzano il ditino dicendo che il Liverpool dovrebbe venderlo, che la Fifa dovrebbe impedirgli di giocare per i prossimi cento anni, che i più scemi gli danno la colpa per l’eliminazione dell’Italia e i più frustrati sperano che venga punito duramente (come se questo facesse tornare in corsa gli Azzurri), lui si limita a spiegare che “sono cose che succedono in area di rigore”. C’è gente che aveva scommesso su un suo morso ai Mondiali, e ha fatto un sacco di soldi. Folle, imprevedibile e affamato, Suárez aspetterà la sentenza con la sua coscienza a posto.

 

Quattro anni fa di questi tempi, ai Mondiali in Sudafrica, l’Uruguay si stava giocando i quarti di finale con il Ghana. Al 120’ le due squadre erano ferme sull’1-1, l’arbitro aspettava un momento morto di gioco per fischiare la fine e andare ai rigori. Il Ghana però è nell’area uruguagia, e in mischia calcia in porta a colpo sicuro, il portiere battuto. Suárez salva con un piede sulla linea la palla, che rimbalza però sulla testa di un avversario. Altro tiro a colpo sicuro, e questa volta Suárez respinge con la mano. Rigore per il Ghana, Luis espulso. Non è gol, però. Il ghanese Gyan calcerà il rigore sulla traversa, e ai successivi tiri dal dischetto l’Uruguay vincerà 4-2. Luis portato in trionfo ancora una volta. “Ora è mia la mano di Dio”, dirà a fine partita scherzando seriamente, il sorriso aperto per mostrare bene i denti. 

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.