Il morso fatale, quanto costa essere eroe
“Garra Charrúa”, lo chiamano in Uruguay. Lo spirito combattivo della Celeste. “La Garra Charrúa è la nostra idiosincrasia”, spiega il vecchio campione degli anni 70 Waldemar Victorino.
Roma. “Garra Charrúa”, lo chiamano in Uruguay. Lo spirito combattivo della Celeste. “La Garra Charrúa è la nostra idiosincrasia”, spiega il vecchio campione degli anni 70 Waldemar Victorino. “Ce l’abbiamo tutti, non solo i calciatori. Vogliamo spingerci più in là, arrivare primi. Abbiamo sempre amato le sfide difficili e per noi il calcio era una sfida difficile”.
Perfino il presidente Pepe Mujica, l’ex guerrigliero negli ultimi tempi salutato come il capo di stato più popolare del mondo per il suo stile al risparmio e la sua bonomia, ha sentito il bisogno di esternare: “Io non ho visto che abbia morso nessuno”. L’Uruguay, da 48 ore, è un paese che lotta compatto come una squadra vincente. Fino alla negazione dell’evidenza. “Los uruguayos nacimos para las difíciles”, aveva scritto in una lettera aperta il capitano della squadra Diego Lugano per rianimare i tifosi dopo la sconfitta con la Costa Rica e prima di affrontare l’Inghilterra. “Noi uruguaiani siamo nati per le cose difficili. Siamo piccoli ma vogliamo essere grandi”. “Amiamo il calcio e sogniamo le cose impossibili. Il nostro orizzonte è stato e saranno lo sforzo e i miracoli; e la nostra passione sono state, sono e saranno le sfide”. Ma anche: “Siamo contraddittori, ingiusti, immaturi, sognatori, caparbi, molto caparbi. Non ci diamo mai per vinti, siamo lottatori”. “Vogliamo vincere le partite facili, ma le trasformiamo in difficili, e a volte le difficili ci diventano un pochino (solo un pochino) più facili”.
Un paese di 3.370.000 abitanti, di cui quasi 2 milioni nell’area metropolitana di Montevideo. Il paese con meno popolazione a vincere un Mondiale di calcio, anzi ben due – “L’Inghilterra è stata la madre del calcio, ma e l’Uruguay è il padre” – e la maggior proporzione di calciatori per chilometro quadrato del pianeta. C’è poi l’altra definizione: la “Svizzera del Sudamerica”. Per il modo in cui il minuscolo Uruguay è riuscito a sopravvivere, dal 1828, pur incuneato tra due vicini colossi, Brasile e Argentina. Per di più inventando all’inizio del ’900 lo stato sociale prima ancora di inglesi e scandinavi, e mantenendo a lungo la democrazia malgrado le tempeste della regione: anche se negli anni 60 dei tupamaros non scampò al contagio della moda guerrigliera, e per reazione tra 1973 e 1985 ebbe il suo duro regime militare.
In realtà, chi li conosce un po’ da vicino sa bene che questa ansia identitaria è dovuta al fatto che, indipendenza politica a parte, se non si qualifica, è quasi impossibile distinguere un argentino di Buenos Aires da un uruguaiano: per accento, vocabolario, folklore o gastronomia. Non a caso, a parte il calcio alcune delle principali querelle tra i due dirimpettai del Rio de la Plata sono dovute al modo in cui gli uruguaiani rivendicano come propri alcuni capisaldi fondanti dell’identità argentina. Il tango? “Lo hanno inventato musicisti uruguaiani, anche se suonando nei bordelli di Buenos Aires”. La Cumparsita? “La musica è di un uruguaiano”.
Attenti, però, a quelle unghie e denti della Garra Charrúa. “Garra”, tradotto in questo senso come “tenacia” o “grinta”, alla lettera indica proprio l’unghia: l’artiglio di una belva. Mentre i Charrúa sono quell’etnia aborigena da cui l’identità uruguayana fa derivare il suo pedigree: un po’ come gli inni italiani rivendicano la discendenza dagli antichi romani, e i manuali di scuola francesi ricordano anche agli scolari neri di Martinica e Guyana che “i nostri avi galli avevano gli occhi azzurri e le trecce rosse”. Oggi ricorda di avere avuto avi indigeni, non più dell’11 per cento rivela tracce Charrúa nel proprio Dna. I Charrúa, però, erano presumibilmente cannibali: fatto contestato da qualche storico, ma deducibile dallo stato in cui furono ritrovate, nel 1516, le spoglie di Juan Díaz de Solís, primo esploratore dell’attuale Uruguay.
Sì: il contesto non ha permesso a Luis Suárez di terminare con Chiellini il pasto fino agli stessi esiti, non sappiamo se Suárez abbia Dna Charrúa, ma se non altro un legato spirituale nelle sue imprese morsicatorie sembra esserci. E non solo nell’uso delle mascelle come arma, ma nella più generale condiscendenza con cui questa impresa è stata vista dai suoi connazionali. Appunto, in ciò è davvero “una famiglia”.
E così, adesso, la “famiglia” con antenati cannibali è più compatta che mai. Sui siti dei giornali che hanno pubblicato la dichiarazione di Mujica non è mancata, da parte di utenti stranieri, qualche battuta sulla recente legalizzazione uruguayana della marijuana: evidentemente la canapa indiana per la vista non è il toccasana medicinale che si dice. Ma Mujica è andato oltre il non aver visto. “C’è una campagna contro Suárez”, ha denunciato. Che, sì, “non lo abbiamo scelto come filosofo o come meccanico o per avere buone maniere, ma perché è un eccellente giocatore”. Ma per Mujica se si stabilisce il precedente per cui non si punisce per quel che ha visto l’arbitro ma per quello che si vede in televisione, “ci sarebbe un mucchio di rigori e falli di mano che si sarebbero dovuti rilevare e non sono stati rilevati”. Che il caso sia diventato questione di stato, lo si vede pure dal duro Twitter subito fatto dalla ministro del Turismo e sport, Liliám Kechichián, alla notizia della squalifica inflitta ieri dalla Fifa: “Sproporzionata”. D’altronde gli uruguaiani in massa, sui social network, gridano al “linciaggio” e alla “mafia della Fifa”. “Luis Suárez non faceva business!”. Uniti nella difesa anche i giornali, al di là della linea politica. “I media del Brasile e le catene internazionali hanno scatenato una caccia alle streghe”, è il punto di vista del País: quotidiano storicamente legato a quel Partido nacional di centrodestra, principale oppositore del governo di sinistra, ma in questo è perfettamente d’accordo con il presidente tupamaro. Di “Caccia alle streghe” scrive anche il liberale Observador, pur riconoscendo in Suárez la presenza di “impulsi aggressivi forse originati nella sua infanzia”. “La Fifa ha crocifisso Suárez”, concorda su una foto inginocchiato e a braccia aperte del punito la República, che guarda invece a sinistra, e che per illustrare le accuse del segretario dell’Associazione uruguaiana di football Alejandro Balbi sulla “cospirazione anglo-italiana contro Suárez” ha messo una foto di Marlon Brando nel “Padrino”. Curiosamente, l’unico uruguaiano che sembra smarcarsi dalla difesa a oltranza di Suárez è Alcides Ghiggia: unico ancora vivente della squadra che vinse il Mondiale del 1950, marcatore del gol della vittoria, e a sua volta giocatore ai suoi tempi altrettanto scapestrato che non Suárez. “Non so che ha nella testa”, “queste cose sul campo da gioco non si fanno”.
Nel 2010 aveva difeso Suárez, al tempo del suo famoso fallo di mano con il Ghana, Eduardo Galeano: lo scrittore uruguaiano ugualmente famoso per i suoi best seller terzomondisti e per quelli calcistici, secondo il quale il calciatore “si era sacrificato per il suo paese”. Paradossalmente, qui Galeano converge con Jorge Luis Borges: le cui opinioni politiche erano all’opposto, ma che considerava una componente essenziale dell’identità platense una istintiva simpatia per il ribelle che viola le regole, come il gaucho Martín Fierro del famoso poema di José Hernández. Il nazionalismo argentino, scrisse Borges, “esaltò quello sventurato trasformandolo in un paladino e lo propose come archetipo. Adesso ne soffriamo le conseguenze”. Fino ai default e ai denti aguzzi in campo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano