Il segretario di stato americano John Kerry (Foto Ap)

Kerry umiliato

Paola Peduzzi

I curdi fanno da sé, i giordani sono disperati, i sauditi furiosi, i palestinesi ammiccano a Damasco.

Milano. La giornata di ieri a Parigi è stata la più facile della settimana per il segretario di stato americano John Kerry. Per quanto bizzarro possa sembrare, poter discutere di Russia e Ucraina, in questo momento, è quasi rigenerante: almeno su quel fronte la politica estera americana (sanzionatoria) sta ottenendo qualche piccolo risultato. Sul resto, sulla più grande crisi geopolitica che l’Amministrazione Obama deve gestire, in Iraq e Siria, la missione di Kerry si sta rivelando un disastro. E sì che in conferenza stampa la settimana scorsa il presidente Barack Obama aveva annunciato il tour del suo segretario come una promessa: non manderemo uomini sul campo iracheno, soltanto 300 consiglieri militari a Baghdad, ma non preoccupatevi, arriva Kerry, creerà un gruppo di paesi alleati e determinati, e si riapriranno le vie diplomatiche per la stabilizzazione della crisi.
Così il segretario di stato è arrivato domenica in Egitto, ha incontrato il neo presidente Abdel Fattah al Sisi, gli ha assicurato che i 575 milioni di dollari di sostegno da Washington sono in arrivo e che sta lavorando per lo scongelamento di tutto il contributo che l’America, ogni anno, elargisce al Cairo (circa un miliardo e trecentomila dollari). Anche i dieci Apache promessi arriveranno “presto, molto presto”, ha detto Kerry, sottolineando però che non s’è parlato con Sisi soltanto di armi e soldi: “Mi ha garantito il suo impegno per la rivalutazione della legge sui diritti umani e dei processi giudiziari”. Il giorno prima un tribunale aveva condannato a morte altri 180 membri della Fratellanza musulmana (ormai sono più di un migliaio i condannati) e il giorno dopo l’incontro promettente tra Kerry e Sisi, con un tempismo beffardo, un altro tribunale ha condannato a sette anni di prigione tre giornalisti di al Jazeera accusati di aver complottato con i Fratelli musulmani per destabilizzare l’Egitto. Ma, come ha detto il segretario di stato: Sisi è qui da dieci giorni soltanto (il golpe militare risale a esattamente un anno fa), non si può avere tutto e subito.

 

Indefesso nella sua missione di “alliance building”, Kerry è arrivato lunedì a Baghdad, con l’obiettivo di ribadire che gli Stati Uniti non vogliono interferire nella decisione degli iracheni che hanno appena rieletto Nouri al Maliki al governo, ma che è necessario creare un esecutivo di unità nazionale, perché i sunniti trascurati (è un eufemismo) dal leader sciita Maliki stanno aderendo in massa alla causa dei jihadisti dello Stato islamico (Isis). Nella conversazione, il premier iracheno ha ribadito la richiesta di strike aerei da parte degli americani contro l’Isis: non ci è dato sapere che cosa gli abbia risposto Kerry, ma sappiamo che dopo l’incontro è stato riportato che il segretario di stato non ha escluso gli strike pur senza un governo di transizione, ma ha anche detto qualche ora dopo che gli strike sarebbero “un atto di irresponsabilità” da parte degli Stati Uniti.

 

Comunque sia andata, mentre Kerry era a Erbil mercoledì per incontrare i leader curdi iracheni e chiedere loro (“implorare” è il termine utilizzato dal New York Times) di sostenere Baghdad nella lotta contro lo Stato islamico, Maliki ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di creare un governo di unità nazionale. Perché dovrebbe? Martedì i jet siriani hanno colpito avamposti dell’Isis in territorio iracheno e gli iraniani, che dei siriani e di Maliki sono i principali sponsor, hanno detto di essere pronti a occuparsi loro degli strike. Kerry può anche tormentarsi nella suo flip-flopping, tanto Maliki ha un piano B efficientissimo, che i curdi tra l’altro conoscono alla perfezione, ed è il motivo per cui i peshmerga hanno combattuto contro Isis per salvare dall’assalto la città di Kirkuk, la città nel nord dell’Iraq contesa tra Baghdad e i curdi. Secondo fonti citate dal Wall Street Journal, è del tutto improbabile che ora i curdi siano disposti a negoziare ancora con Maliki per lo status di Kirkuk.
Ieri infine Kerry è arrivato a Parigi, dove ha incontrato i leader europei, ha discusso della tregua ancora fragile tra Ucraina e Russia e ha incontrato alcuni diplomatici arabi per continuare l’operazione diplomatica su Iraq e Siria: i più disperati erano i giordani, visto che mentre gli americani decidono una strategia e gli iraniani preparano l’offensiva, l’Isis rischia di sconfinare in Giordania; i più nervosi invece erano i sauditi, preoccupati da questa involontaria comunanza di obiettivi con l’Iran nella lotta contro l’Isis. Oggi Kerry arriva a Riad per incontrare i leader sauditi, e non sarà un vertice facile: da quando è scoppiata la crisi in Siria contro il regime di Bashar el Assad, Riad chiede un intervento deciso da parte di Washington. Quando l’intervento non è arrivato, l’ira della Casa reale saudita è diventata sempre più palese e sfrontata. Anche perché, in questo ribaltamento di fronti, persino il leader palestinese Abu Mazen, perno della riscossa americana sulla questione israelo-palestinese, ha prima fatto un governo di unità nazionale con Hamas e ieri ha inviato una lettera di congratulazioni al siriano Assad, dicendogli che con la sua vittoria alle elezioni si fa un passo in avanti verso la pace.

 

Come scrive Matthew Lee per Associated Press, s’è creata “una dinamica bizzarra delle alleanze in medio oriente” che spaventa gli alleati storici degli Stati Uniti, i sauditi, i turchi, i giordani. Ora l’Amministrazione Obama sta cercando una soluzione che comprenda sia Iraq sia Siria, ma l’inazione contro Assad, come dicevano molti, obbliga oggi l’America a prendere decisioni sempre più difficili e con margini di manovra risicati. Ad aprile, Kerry aveva detto: durante la Guerra fredda “era tutto più facile rispetto a oggi – più semplice direi”. Si sapeva da che parte stare, insomma, il flip-flopping non era nemmeno pensabile, peccato che allora la deterrenza fosse un principio, e non quella che sembra oggi: una beffa, più spesso un’umilazione.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi