Orazio Cavezza è un personaggio dei fumetti Disney ideato nel 1928. E’ il reporter d’assalto nella serie “Gli anni muggenti di Clarabella” di Philippe Gasc, ambientato negli anni Trenta

Mood ridanciano

Luigi Manconi

Siamo attori di un degrado di stile, da maschere a macchiette. Bisogna fissare un limite all’irrisione e una distanza glaciale.

    So che questo articolo mi procurerà solo guai, ma è difficile resistere alla tentazione e alle reiterate molestie di Giuliano Ferrara. Il quale, in uno dei suoi eccitati elogi di Carlo Giovanardi – questa volta a proposito dello scandaletto suscitato dal libro di Melania Mazzucco – così mi apostrofa: “Mi piacerebbe sapere il parere in merito dell’intrepido Luigi Manconi, nostra gradita voce e autorità nazionale del politicamente correttissimo” (il Foglio del 19 maggio scorso). La questione presenta molte facce. La prima è di natura, come dire, stilistica. Nella sfera politico-mediatica circola da decenni un umore culturale che definirei ridanciano (attribuendo a questo termine un’accezione più positiva che negativa). Questo Mood Ridanciano (o, se si vuole esagerare, questo Zeitgeist Lepido) può assumere numerose fogge. Innanzitutto, in quella che chiamerei del Buttiamola in Vacca. Il presupposto è che siamo tutti – protagonisti e comparse, comprimari e spalle, primi attori e figuranti e pubblico pagante – dentro una ininterrotta e onnipervasiva commedia all’italiana. Raramente quella commedia si avvale della regia di un Dino Risi o di un Mario Monicelli; al più deve accontentarsi del buon artigianato di quei registi che hanno tenacemente faticato sui generi cinematografici dell’Hollywood sul Tevere (Sergio Sollima, Duccio Tessari, Alberto de Martino, Sergio Corbucci, Giorgio Capitani…); ma assai più spesso la trama richiama irresistibilmente quegli sceneggiatori e quei registi che giravano nuovi film partendo dagli scarti delle pellicole precedenti, dalle gag malriuscite, dalle situazioni bislacche e dagli attori ormai rimbambiti. Ecco, è probabile che noi tutti si rischi di ritrovarci all’interno di questa estrema manifestazione di un sottogenere che conserva, dell’antica definizione, appena quella formula antropologico-geografica che è “all’italiana”. Se ci fate caso, nemmeno più si usano quelle locuzioni che cercavano di definire meglio e più brillantemente una formula ormai stantia: “all’amatriciana” o “alle vongole” (di discendenza addirittura pannunziana). Se applicata alla sfera politica, questa versione parodistica del carattere nazionale può manifestarsi attraverso le più differenti espressioni: dal tragico al grottesco.

     

    Ma qui interessa, come si è detto, soprattutto il Ridanciano: ed è da quando l’allora ministro della Pubblica istruzione, Mario Pedini, si esibì al pianoforte in uno studio televisivo (finivano gli anni Settanta) che la decadenza dello stile segnala il dominio della gestualità politica. Successivamente, fu Oscar Mammì, vestito di tutto punto, a impugnare il boma e a salire su una tavola di windsurf su richiesta di un euforico Pippo Baudo. La diga franò e, nei decenni che seguirono, ne vedemmo e ne facemmo di tutti i colori. Ma questa catastrofe stilistica, gabellata di volta in volta come “umanizzazione delle istituzioni” o “personalizzazione della leadership”, assecondava e incentivava un processo di fatale riduzione della politica a rappresentazione e dei politici a maschere. Da qui il passo che porta al macchiettismo è davvero breve. Ad agevolarlo c’è un processo altrettanto incontenibile di fissazione e cristallizzazione delle tematiche e delle relative controversie pubbliche in un recitato frusto e ripetitivo. E qui interveniamo noi, pubblico e attori: una irresistibile vocazione cazzara ci induce a godere indecentemente di quel Mood Ridanciano, fatto di gaffe inconsapevoli e di insulti crudeli, di sghignazzi sguaiati e di insinuazioni efferate, di abbruttimento compiaciuto e di volgarità leziosa. E così, dal celodurismo di Umberto Bossi (“però, che forza”) alle scempiaggini di Beppe Grillo (“uno smagliante ritmo comico”), da Borghezio a Buonanno, dalle suggestioni teosofiche di quel deputato dei 5 Stelle alle paranoie complottistiche del suo collega senatore, ci siamo tutti scompisciati dal ridere, trasformando quella sequela di casi umani in una sorta di epopea politico-antropologica. E in questo racconto della politica come patologia ci siamo rotolati e ingaglioffiti impudicamente. Dagospia e “La Zanzara” sono i luoghi sublimi di questo degrado compiaciuto e complice, dove quel tanto di volgare che è in ciascuno di noi viene adescato e blandito, solleticato e appagato. Dagospia e “La Zanzara” sono le documentatissime fotogallery della mostruosità contemporanea, in primo luogo del sistema politico e mediatico, ma in realtà di tutti i sotto-sistemi della società nazionale. E ciascuno a suo modo, e con canoni letterari differenti, Filippo Ceccarelli e Giuliano Ferrara, Francesco Merlo e Marco Imarisio e Stefano Di Michele, ne sono i colti narratori.
    Ma se di quella mostruosità non ci sentissimo in qualche misura partecipi, non ne godremmo così come ne godiamo: il piacere di quello spettacolo e delle sue cronache richiede una certa quale indulgenza che, a sua volta, non può che discendere da un confortante sentimento di auto-assoluzione. Ma qui io mi fermo. Oltre non posso andare. Mi è capitato negli ultimi anni di ingaggiare colluttazioni abbastanza aspre con due personaggi di quella commedia: Carlo Giovanardi e Marco Travaglio. Si tratta, come ognuno può vedere, di due personalità estremamente simili per tratti culturali e meccanismi comportamentali, per dispositivi linguistici e incontinenza gestuale, per tic e manie. E, soprattutto, per quel medesimo sguardo torvo e sordido che rivolgono agli esseri umani. Ho subìto le loro contumelie, le loro volgarità, le loro manomissioni e falsificazioni. Ne ho date, a mia volta di santa ragione, senza esclusione di colpi. Ma, ecco il punto, non mi sono mai sentito e francamente non mi sento “uno di loro”, pur essendo partecipe del medesimo scenario. Non mi sento un giovanardi, collocato in una posizione politica lontana e opposta alla sua; e non mi sento un travaglio, collocato in una posizione culturale lontana e opposta alla sua. Forse perché mi ritengo “moralmente superiore” a loro? Nient’affatto. Ma frequentare luoghi istituzionali o mediatici attigui, avere qualche conoscenza comune e incrociare – con prospettiva radicalmente diversa – le stesse problematiche, lungi dall’avvicinarmeli, me li rende ancora più distanti. Irreparabilmente distanti. E’ per questa ragione che non riesco ad accogliere gli inviti del direttore del Foglio e del senatore Luigi Compagna a sciogliere ditirambi per Giovanardi e a riconoscergli una sua (seppur perversa) utilità sociale. Ed è per questo stesso motivo che da anni non partecipo a confronti radio-televisivi con queste persone. In altre parole, non credo di essere la versione speculare (garantista? libertaria? estremista di sinistra?) di Giovanardi o Gasparri, di Castelli o Salvini, di Travaglio o Di Pietro. Senza alcuna albagìa preferisco fare un passo di lato, spostarmi di qualche metro, trovare ristoro in un angolo. Mi diverto a osservare la commedia, e anche a prendervi parte, grufolando insieme agli altri, ma c’è un limite che non mi sento di superare.

     

    Nei confronti di Giovanardi, il confine è presto detto: quando si ha la truce improntitudine di definire Stefano Cucchi, morto nel reparto detentivo dell’Ospedale Sandro Pertini, “tossicodipendente anoressico larva zombie epilettico”, la commedia è finita da un pezzo, e si sta spazzando il pavimento del teatro. E chi pronuncia quella sentenza di morte non mi è “moralmente inferiore”: mi è totalmente estraneo. Così come mi è totalmente estraneo l’universo concentrazionario e coercitivo di Marco Travaglio; e la sua concezione reazionaria e regressiva della società, paranoicamente presentata come una “Italia a delinquere”, dove la politica è “liquame” e dove gli immigrati sono “clandestini”: e non c’è possibilità alcuna di emancipazione. Mi conforta in questa lettura il fatto che, com’era prevedibile, quell’Orazio Cavezza di Marco Travaglio (vedi il cartone “Gli anni muggenti di Clarabella”, 1933), ha ricevuto finalmente l’agognato riconoscimento dei suoi arcinemici, Silvio Berlusconi e Daniela Santanchè: “E’ il più bravo giornalista italiano”.