David Luiz, il bambino di Dio
Piedi buoni, generoso e mattacchione: David Luiz, il brasiliano che prega in campo. Un raggio di luce in un Mondiale senz’anima. Sarà per quei capelli ricci e lunghi, per quell’aria da cavallo brado che te lo fa ricordare tra i mille e mille giocatori, meteore degli highlights. Sarà perché è un gran giocatore, strapotere fisico, si dice.
Il bambino palleggia a bordo campo, palleggia come un funambolo. Ha la maglia del Brasile, quella blu, sulle spalle il numero 18. Il bambino è seduto sull’erba color smeraldo. Palleggia con le sue gambette secche, rachitiche. Di fianco a lui c’è una sedia a rotelle. A un passo, accovacciato, con le ginocchia sull’erba per farsi piccolo, c’è un ragazzone grande, coi riccioli lunghi e la maglia del Brasile, quella gialla. La faccia allegra, un naso senza paura. Sorride. Quando al bambino scappa la palla, lontana due passi dalle sue gambette secche, David Luiz gliela ributta, sorride ancora. Il bambino ricomincia a giocare. David Luiz si fa più vicino, poi lo aiuta a risedersi sulla sedia a rotelle. Gli accarezza la testa, gli parla fitto. Il labiale non si capisce, i fotografi che si sono fatti attorno ascoltano e sorridono. Scattano e sorridono.
C’è un altro bambino a bordo campo. Corre. Ha la maglia gialla del Brasile. Corre veloce ma si vede che piange, spaventato della sua stessa audacia che l’ha portato a scavalcare tutte le barriere dell’allenamento della Selecao. Qualcuno grida, qualcuno rincorre. Il bambino finisce la sua corsa. La finisce tra le braccia di un ragazzone alto, con i riccioli lunghi. David Luiz lo abbraccia, lo consola, lo stringe. Si sfila la sua maglia gialla, gliela regala. Il bambino ha un pennarello, David Luiz gli firma la maglia. Poi chiama i fotografi per la foto ricordo col bambino che non piange più.
Mi era simpatico anche prima. Ogni volta che lo vedevo giocare, con la maglia giallo oro o con quella blu elettrico del Chelsea. Sarà per quei capelli ricci e lunghi, per quell’aria da cavallo brado che te lo fa ricordare tra i mille e mille giocatori, meteore degli highlights. Sarà perché è un gran giocatore, strapotere fisico, si dice. Difensore centrale, ma gran tecnica, piedi buoni si dice. Matto la sua parte, lo si vede già dal campo. Audace, perfino spericolato. Grandi sgroppate, grandi recuperi, svarioni insensati. Ogni tanto dei gran bei gol, rari anche per un difensore dai piedi buoni. Punizioni al fulmicotone, sventole dai trenta metri. Mi era simpatico con la maglia del Chelsea anche prima che tornasse Mourinho, padre severo che pure ogni tanto lo metteva in castigo. Credo per quell’aria spavalda. E la faccia aperta, pulita. Mi era simpatico perché il calcio è anche questo, una raccolta di figurine del cuore, irrazionali e infantili. E allora, come da bambini, c’è un campione che diventa il tuo campione, te lo tieni stretto. La sua figurina non la scambi mai.
Poi ho visto i bambini. Mi ha incuriosito, David Luiz. In questo calcio in cui qualcosa di spontaneo, qualcosa che non sia fatto per essere subito messo in un tweet o su Instagram, o spalmato in un ingaggio, è così raro trovarlo. Mi sono chiesto come mai. Così ho iniziato a scoprire chi è il mio nuovo idolo infantile. E ho trovato un indizio, o l’inizio di una conferma: che a scavare sotto la generosità, la bontà, e persino l’allegria alla fine ci trovi Dio. Ed ecco che “out of the blue (actually, he was wearing blue)”, “un giocatore si inginocchiò e puntò le mani al cielo. Poteva mai essere che il difensore del Chelsea e star del calcio europeo David Luiz fosse un credente born again? Potete scommetterci che sì!”. E’ lo stupore di Scott Wallace, giornalista sportivo del giornale statunitense Sports Almighty, una specie di Sports Illustrated evangelical, castigato nelle foto ma pepato nel sostenere i suoi valori. E’ davanti alla tv in una camera d’albergo di Londra, e vede uno che prega e parla di Dio, a Stamford Bridge: “Ero tornato tardi, e davanti alla tv mi domandavo se mai avessi potuto trovare un atleta europeo cristiano da far conoscere ai miei followers di Sports Almighty”. E così lo trovò, nella secolarizzatissima Inghilterra, un ragazzone brasiliano che pregava davanti al pubblico più ricco e snob del quartiere più snob e ricco di Londra.
Chissà se Scott Wallace ha visto poi altre immagini meravigliose, che hanno fatto il giro del web e hanno trasformato David Luiz in un personaggio, rivelandone la persona. E’ una partita di Champions League, Chelsea-Genk, il 19 ottobre del 2011. Lui mette la mano sulla testa al suo compagno di squadra Fernando Torres, come un profeta ispirato. La tiene lì per lunghi secondi, con gli occhi chiusi, e prega. Prega, in Champions League. Fernando Torres, il Niño, è il pupone triste del Chelsea, con le sue guance rosse di couperose. Sono anni che praticamente non segna mai, mette malinconia a vederlo giocare. Era arrivato a Stamford Bridge da poco, schiacciato dal peso dei soldi che avevano messo su di lui. David Luiz invece gli mette la mano sui capelli biondi, mormora parole divine. Quella notte di Champions il Niño fece due gol, il Chelsea vinse 5 a 0. Chissà se avrà alzato gli occhi e le mani al cielo, come fa David Luiz quando fa gol. Uguale a come faceva Kaká.
Il calcio, il Brasile, la fede in Dio. Ricardo Kaká è il più famoso dei campioni di Dio. Quello che ha trasformato la sua fede, “I belong to Jesus”, in un marchio globale. Non è l’unico, certo. Ce ne sono stati altri. C’era stato Abel Balbo, bomber argentino della Roma, che trascinava i compagni a pregare. C’è Didier Drogba, magnifico principe arube, che a fine maggio se n’è andato da solo, pellegrino, fino a Lourdes. E Javier Zanetti, il primo calciatore del mondo a twittare la sua gioia quando sulla loggia di San Pietro è sbucato Francesco. Pure il Chicharito s’inginocchia con le braccia al cielo. C’è stata la Mano de Dios, c’è stato il Tacco di Allah. E l’acqua santa del Trap. Si può dire che il football e Dio abbiano da sempre buoni rapporti, com’è normale dove c’è tanto popolo e si pensa col cuore e coi piedi. Ma indubbiamente è Kaká che ha imposto Dio al centro della scena pubblica, come si diceva una volta. O almeno a centrocampo. Eppure adesso, in questi Mondiali che si giocano nel suo Brasile, nel paese del Cristo del Corcovado e delle sette evangeliche che riempiono gli stadi, dove Francesco celebrò una messa da due milioni sulla spiaggia altrimenti pagana di Copacabana, nelle periferie del sesso allegro per antonomasia e del peccato e della salvazione, Dio a ben pensarci è come sparito dalle telecamere. E’ un Mondiale asettico, un po’ finto, senz’anima. Poco cuore e passione. Anche poca magia, a rigore: nessuna macumba sugli spalti. E senza davvero una stella capace di far sognare. La Germania del 2006 aveva ancora Zidane e Del Piero, ed era già Merkel contro il resto del mondo. Il Sudafrica è stato il Mondiale di Nelson Mandela, il suo spirito aleggiava sopra ogni stadio, più forte del sacro baccano delle vuvuzelas, dei riti e delle danze africane che riempivano le immagini televisive.
Ora del Brasile, del suo cuore mistico e religioso e persino magico, non si vede niente. Tolto il paziente Gesù, che sta con le braccia aperte nel cielo di Rio. Al calcio d’inizio è sparito tutto, come gli indios con gli archi e le frecce inghiottiti dalla lontananza. C’è solo il rettangolo verde, i tifosi colorati ma tutti uguali e le spiagge con i grattacieli dietro le vetrate degli studi di Sky. Del cuore del Brasile non chiedete nemmeno alla Rai, chiusa nei suoi bunker senza finestre, come i telefilm degli anni 70 girati in interni perché costa meno. C’è il calcio, ci sono i campioni, la tecnica e la tattica. Ma niente che davvero faccia innamorare, un’esagerazione che sfondi la porta del cielo. Un Mondiale di professionisti, non di eroi. Qual è la figurina che non scambieresti mai, al calciomercato delle emozioni? Neymar, coi suoi capelli troppo gialli per essere davvero un supereroe. Messi, rimpicciolito a pulce nervosa, schiacciato nel suo mito. Benzema lo vorresti fisso nella tua squadra, ma non appenderesti il poster in cameretta. Nessuno che faccia davvero sognare. Non è un caso che l’unico eccesso che abbia finora lasciato un segno memorabile (e non solo sulla spalla di Chiellini), un segno a suo modo linguistico, cioè un segno umano, è il morso del Pistolero Suárez.
David Luiz non è la star del Brasile, non è neanche il suo giocatore più forte. Mourinho ogni tanto lo lasciava fuori. Troppo indisciplinato per lui. Ora l’ha lasciato partire, destinazione Parigi. E quando Mou ti lascia partire, vuol sempre dire qualcosa. Ma lui non è uno che sta attaccato ogni giorno al borsino quotazioni. Piuttosto, quando non giocava, spiegava ai tabloid: “Vuol dire che in questo momento Dio vuole altro da me”. E anche: “Ma io non incrocio le braccia in attesa che Dio faccia tutto quanto per me. Devi volerlo tu e lavorarci sopra”. Ma il ragazzo è sincero: “Mi piace giocare, ma allenarmi lo trovo noioso”. Sarà per questo che è famoso per i suoi scherzi ai compagni, per essere sempre il primo a perder tempo a bordo campo. Figuratevi Mou.
La verità è che c’è un’altra figurina che mi era subito tornata in mente, vedendo giocare David Luiz. Una figurina da bambino, rimasta in un cassetto della memoria. Mi ricordava qualcuno, questo difensore brasiliano bianco, paulista, un po’ anarchico e con i capelli lunghi e chiari. Un altro gran giocatore brasiliano, ma una meteora veloce, di quelle che non rimangono negli highlights della storia del calcio. I Mondiali del 1974 in Germania. I primi che mi ricordo bene. I Mondiali della grande Olanda a Orologeria, il vero sogno non solo calcistico di una generazione, l’unico spettacolo in quel Mondiale con la Polonia e la Germania est, che odorava ancora di Guerra fredda.
Francisco Marinho era il terzino del Brasile. Un Brasile noioso quasi quanto questo di oggi di Felipao Scolari. Lui era formidabile. Aveva i capelli biondi e lunghi, un brasiliano così non s’era mai visto. Correva come un matto sulla fascia, un suo personale calcio totale. Avrebbe dovuto essere olandese, lo dicevano tutti, con quella corsa anarchica e quei capelli al vento. Biondi. Anzi gialli, come la maglia. Erano i primi Mondiali della tv a colori, sistema Pal, che sparava cromatismi così saturi di elettroni, così gonfi di farfalle fluorescenti nel tubo catodico da far sembrare le partite quadri della pop art in movimento, e il prato un’astronave marziana. Così, più che biondi, Francisco Marinho aveva i capelli gialli, lo adoravo anche solo per quello, io che i capelli non li ho mai avuti. Ma soprattutto perché in quel Mondiale a colori eppure così grigio, quasi come questo del Brasile ma senza il Brasile, coi fenomeni ma senza i campioni, l’unica cosa che faceva sognare davvero era l’arancio saturo d’anarchia e rivoluzione tattica dell’Olanda, la maglia arancio e i capelli lunghi di Cruijff, la maglia arancio e i capelli lunghi di Krol. Francisco Marinho era quello, più il Brasile. Il massimo delle utopie calcistiche. Così quando ho rivisto un difensore brasiliano coi capelli lunghi, anche se non proprio gialli, mi è tornato in mente Francisco Marinho. Sono andato su Google. Chissà che fine aveva fatto. Se aveva giocato ancora a lungo con la stessa allegria. Se alzava anche lui le dita al cielo.
E’ morto il primo di giugno. Alla vigilia dei Mondiali nel suo Brasile. Di attacco cardiaco. Di fegato spappolato dall’alcol e dall’epatite. Povero in canna. Come perso. La Federazione e i suoi vecchi compagni avevano pure fatto una sottoscrizione per pagargli le cure. A lui che s’era barattato la carriera con la bottiglia già ai tempi d’oro. A lui che libero come l’aria affittava aerei privati per andare a giocare nei casinò dell’Uruguay. A fare festa lontano dagli allenamenti noiosi e dai rompicoglioni. Un George Best brasiliano, con lo stesso destino storto, già scritto.
David Luiz si chiama in realtà David Luiz Moreira Marinho. Tu guarda. Meno irrequieto, senz’altro meno autodistruttivo. Un giocherellone anzi, un compagnone. Un ragazzo sicuro della vita e della sua fede: “Tutto nella vita appartiene a Dio, ogni nostra decisione è già stata vista da lui”. Il calcio è un gioco da bambini, anche se non tutti i calciatori sono bambini. Il grande Eric Cantona il suo bambino lo prese a calci, in un minuto di nera follia. David Luiz è un bambinone diverso, che si è portato dietro la serenità e i suoi giochi dalla sua casa di Diadema, paesone di trecentomila abitanti nello stato di San Paolo, quando a quattordici anni fece quaranta ore di torpedone per raggiungere la sua prima squadra. “L’unica volta che mi chiamarono a scuola fu quando ballò in mutande sul banco in mezzo alla classe”, ha raccontato sua mamma. In tv andava forte una famosa telenovela danzerina, lui si difese: “Non è come in televisione?”. Un bravo bambino, non proprio un chierichetto, una spiccata vocazione esibizionista che con gli anni affinerà. Poi vennero le giovanili del Benfica. Poi Londra. E ora volerà a Parigi, pagato la folle cifra di 50 milioni per giocare, per rimanere un bambinone. Perché il cristiano evangelical David Luiz, il bravo ragazzo David Luiz, è uno così, non proprio un perfettino come Kaká. Se andate su YouTube e cercate “David Luiz - Funny moments”, trovate la rassegna esilarante delle sue boccacce alle spalle delle giornaliste in onda, le linguacce dietro le spalle nelle interviste ai compagni di squadra. Gli scherzi e i balletti, le movenze di un clown. Se invece cercate “David Luiz: the best defender in the world”, trovate le sue giocate da urlo, le sue spavalderie, i suoi gol e i suoi contrasti duri, i numeri entusiasmanti.
C’è un video che più di tutti l’ha fatto diventare una star dell’entertainment. Il 18 maggio 2012, la vittoria della Champions con il Chelsea. Arrivò inemendabilmente sbronzo davanti alle telecamere di Mediaset, con un cappellaccio da tifoso in testa, il braccio sulle spalle di Pierluigi Pardo, le parole strascicate come un ubriaco delle comiche. Uno spasso. Non bisogna essere laureati in Semiotica per accorgersi che è molto più lucido e a suo agio lui da sbronzo, che Pardo da sobrio. Da Milano c’era collegato Arrigo Sacchi: “Carecaaaaa!”, gli grida. Insomma “pelatoooooo!”. Sacchi più che ridere ha un rictus, diventa paonazzo, non riesce a dire neanche “complimenti”. Un trionfo.
Parla spesso di Dio, David Luiz. Opportune importune. E’ un Atleta di Cristo. E come aveva ben capito Scott Wallace, abituato ad altre latitudini culturali, non è che sempre e tutti i media siano così entusiasti, della sua fede da entusiasta. Su Facebook, c’è anche chi lo prende per i fondelli. Lui non è il tipo che si scompone: “La mia fede mi fa credere che posso crescere e migliorare come giocatore, mi dà forza e ispirazione”. “Sogno di essere ammirato come calciatore e come persona”. Poi fa una boccaccia un sorriso largo. Ciondola la testa a sinistra e a destra come quei pupazzetti che si muovono con le cinque dita. Con la sua aria un po’ anarchica, felice. Da Bambino di Dio.
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