Così la vita 2.0 diventa genere letterario (perdibilissimo)
I libri di Pincio e Raimo che raccoglieranno i loro post su Facebook. E capovolgono il mito dello scrittore eremita che salva della letteratura.
Per fare un libro, secondo Jonathan Franzen, ci vuole una stanza con dentro: un tavolo; una finestra; uno scrittore e un pc - no Mac, perché, ipse dixit, il funzionalismo è più importante dell’estetismo. Niente tv, telefono, playstation, internet. Soprattutto, niente social network, che invece per molti altri scrittori sono un’inesauribile fonte d’ispirazione. Di questi ce ne sono due che i social li hanno usati addirittura come espediente narrativo: Tommaso Pincio e Christian Raimo, bravi romanzieri romani, prossimi entrambi a pubblicare un libro che raccoglie i loro status di Facebook. Non siate casalinghe di Voghera ed evitate di pensare che in questo modo un libro avrebbe potuto scriverlo chiunque, persino voi.
Sulle colonne de La Lettura del Corriere di qualche settimana fa, Vanni Santoni protocollava la cosa come “autofiction finzionale, un fenomeno italiano”. Ovvero: usare il proprio spazio sui social raccontando una vita che non è esattamente la propria, mentre gli altri abboccano.
Su Facebook siamo tutti signore Dalloway: diamo feste per coprire il silenzio, come la protagonista dell’omonimo romanzo di Virginia Woolf. Crediamo più al rimando di una foto o di uno status brillante che alla realtà. Così, quando Raimo ha preso a raccontare aneddoti del suo lavoro di professore, concedendosi le licenze che tutti ci concediamo su Facebook, ha visto che la cosa tirava e che, come si dice tra letterati, avveniva il miracolo della sospensione dell’incredulità. Così ci ha marciato sopra, arrivando a inventare telefonate con i suoi alunni. “Prof, le volevo dire che la supplente ha trovato una scatoletta di Simmenthal nel suo cassetto”. E tutti a ridere. Like! Genio! Davvero?!?
E invece non è vero niente.
Meno autofiction ma sempre finzionale è la trovata di Pincio, che da 2 anni pubblica status in cui reca notizie, promuove libri, sfotte altrui svarioni sempre con lo stesso incipit: “nel caso ci sono genti che non sanno”. Da questa “parodia di utenti”, scrive Santoni sul Corriere, “che paiono animati da una vena educativa”, nascerà un libro che si chiamerà “Genti che non sanno” e il cui senso è imponderabile. Ci auguriamo sia qualcosa tipo “nel caso ci siano genti che non sanno cosa sia l’avanguardia finzionale, dopo il libro di Pincio lo sapranno.”
Dubbi: quando i due hanno iniziato il gioco degli status, avevano il preciso scopo di farne un libro, fondando così l’autofiction finzionale? Oppure, siccome il gioco è andato meglio del previsto, hanno deciso di cavalcare l’onda (come ha fatto Benedetta Parodi con i libri di ricette)?
In un’intervista del 2010 su Nazione Indiana, intitolata “La responsabilità dell’autore”, Pincio ha detto che la colpa degli editori è stata quella di andare incontro alle esigenze di un pubblico di livello basso e abbassato. Quegli editori, ha detto Raimo sempre su Nazione Indiana e sempre nel 2010, si fidano di “un riconoscimento facile da parte di un’industria culturale in cerca di autori innocui”.
Tuttavia, era il 2010, la grande crisi sembrava ancora una crisi lampo. Franzen sarebbe stato molto d’accordo e proprio perché i social network incitano alla continua ricerca del consenso e all’esercizio smodato dell’autopromozione, ha sempre ritenuto che uno scrittore dovesse tenersene lontano, perché scrivere non è un cesellamento dell’opera più condivisibile possibile, ma un lavoro di ideazione, astrazione, irruzione e rottura (anche di palle). Solo che Franzen è un barboso dolciniano sociopatico. È stato sposato con una capace di dirgli: “Guarda, caro, che non puoi spogliarti e decostruire”. Si erano conosciuti al college e che questo fosse il problema lui l’ha capito in tempo per divorziare, lasciare New York e dedicarsi a birdwatching, spocchia e letteratura. Il tutto senza mai lanciarsi tra le cosce di una dottoranda o strappare sorrisi su Twitter.
Franzen, infatti, non fa l’intrattenitore: è un romanziere. Uno che ha pubblicato “Libertà” mentre tutti piangevano la morte del romanzo occidentale, resuscitandolo. Un supereroe che la “responsabilità di un autore” se l’è assunta, non l’ha solo indicata.
Pincio e Raimo non sembrano interessati a salvare né il romanzo (tanto ci ha già pensato Franzen), né la letteratura, ma piuttosto a legittimare lo share come criterio letterario. Ed è comunque una rivoluzione.
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