Il Giappone della rivoluzione Abe ora si è dotato anche di un esercito

Giulia Pompili

Almeno su una cosa non ci sono dubbi: da quando è arrivato al governo nel dicembre del 2012, Shinzo Abe sta realizzando a tappe forzate ogni singolo punto del suo programma elettorale.

Almeno su una cosa non ci sono dubbi: da quando è arrivato al governo nel dicembre del 2012, Shinzo Abe sta realizzando a tappe forzate ogni singolo punto del suo programma elettorale. Riforme impensabili per un paese conservatore come il Giappone, a partire dall’Abenomics, la politica economica superespansiva, la Womenomics, per far entrare le donne nel mondo del lavoro, e gli interventi sulle politiche dell’immigrazione, gli accordi di libero scambio con l’America e l’Unione europea. E poi, di pari passo, ci sono le rivoluzioni culturali, quelle meno pratiche, ma dal significato simbolico epocale. E’ il caso della visita di Shinzo Abe al santuario scintoista Yasukuni, nel dicembre scorso, dove vengono ricordati i militari giapponesi caduti in guerra. Le (poche) visite ufficiali di uomini di stato nel luogo dove ricordare i servitori del Giappone sono sempre accompagnate da imbarazzi e reazioni di condanna internazionale, perché nella lista dei caduti ci sono anche quattordici persone classificate come criminali di classe A, condannate per “crimini contro la pace”. Abe se n’è infischiato delle polemiche, e ha mandato un messaggio chiaro: un primo ministro può andare a rendere omaggio agli uomini che hanno perso la vita per lo stato senza che Cina e Corea del sud si sentano minacciate. Ma quello che è accaduto ieri ha un valore storico senza precedenti, e finirà per cambiare definitivamente gli equilibri del Pacifico. L’esecutivo giapponese, infatti, riunito nel Kantei di Tokyo, la residenza del primo ministro, ha deliberato la riforma interpretativa dell’articolo 9 della Costituzione, quella redatta da Washington dopo la resa giapponese alla fine della Seconda guerra mondiale che vietava al Giappone di dotarsi di un esercito. Niente ha fermato il progetto di Shinzo Abe, non le numerose manifestazioni pacifiste davanti al palazzo del governo nei giorni scorsi, nemmeno l’uomo che qualche giorno fa si è dato fuoco alla stazione del quartiere di Shinjuku a Tokyo subito dopo aver letto un messaggio contro la militarizzazione del Giappone di Abe. E non lo hanno fermato i sondaggi dei giornali che davano i cittadini giapponesi divisi esattamente a metà, tra chi voleva che la Costituzione restasse quella antimilitarista e chi pensava che fosse arrivato il momento di superare gli errori del passato e tornare a essere un paese che può difendersi in caso di minacce.

 

Secondo la Carta, il popolo giapponese, “aspirando sinceramente a una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, rinuncia per sempre alla guerra quale diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza quale mezzo per risolvere le controversie internazionali. Per conseguire l’obiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno mantenute forze di terra, di mare e dell’aria e altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello stato non sarà riconosciuto”. Per modificare il secondo comma dell’articolo 9, Abe avrebbe dovuto realizzare una riforma costituzionale, e quindi raggiungere la maggioranza qualificata nella Dieta – una maggioranza che forse non avrebbe mai avuto. Dunque ha agito aggirando il problema, e convincendo il New Komeito, l’alleato del Partito liberal democratico di maggioranza, da sempre contrario a una revisione militarista della Carta, a cambiare (per ora) solo l’interpretazione di quel comma. Nessuno ha usato ancora il nome proprio di “esercito”, ma le Forze di autodifesa torneranno da oggi a difendere il proprio paese se fosse chiara una minaccia all’ordine e alla stabilità del paese, oppure come sostegno militare in caso di attacco agli alleati da parte di un nemico comune. Il Giappone fino a ieri poteva intervenire militarmente solo se direttamente attaccato, e l’esempio più usato per spiegare l’inefficacia del comma costituzionale è quello dei missili nordcoreani: secondo la vecchia interpretazione Tokyo non avrebbe potuto abbattere un missile di Pyongyang fino a quando non fosse caduto su territorio giapponese. “Il dibattito politico che ha portato a questa decisione è stato accompagnato da qualche confusione e qualche esagerazione”, scriveva ieri James L. Schoff del Carnegie Endowment for International Peace, “ma obiettivamente per il Giappone è un passo moderato e legittimo. Tokyo in questo modo può migliorare la propria sicurezza e favorire l’integrazione più profonda dell’alleanza con gli Stati Uniti”. E infatti la decisione del governo di Abe è stata accolta con favore dall’Amministrazione di Barack Obama, che ha bisogno di supporto logistico soprattutto per la base di Okinawa, in pratica la sede del pivot asiatico di Obama, che però sta lentamente riducendo le proprie risorse sia per motivi economici sia per le costanti pressioni dei cittadini giapponesi residenti. La Cina invece ha detto di essere “preoccupata del pericoloso nuovo corso giapponese”. Il governo di Tokyo, ostaggio per sessant’anni di una Costituzione antimilitarista, ha l’occasione di tornare ad avere un ruolo cruciale nello scacchiere asiatico e contribuire attivamente alla stabilità della regione. Sperando che sappia coglierla.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.