Le unghie e i denti per difendersi
Tre ragazzi uccisi non in un conflitto territoriale, ma del califfato nascente e di un occidente stanco. Si chiama Vernichtung, eliminazione dell’entità sionista. Israele va difeso. Non è vendetta, non è incompatibile con la pietà.
Come sempre Adriano Sofri (Repubblica di ieri) l’ha azzeccata, almeno per la metà del ragionamento. Chi non prova dolore per l’assassinio dei tre ragazzi della yeshiva è nei guai con sé stesso, qualunque sia la ragione della mancata pietà. Però, aggiunge, ci sono molte ragioni di contesto che rendono ancora più tragica la circostanza tremenda della strage di umanità e di adolescenza compiuta alle porte di Hebron. E’ vero, quelle ragioni ci sono, ma è ora di togliere confusione politica e morale dal contesto spietato. Il problema non è impedire la vendetta, chiamata con linguaggio sciatto “ritorsione”. Quei tre ragazzi morti ammazzati non entrano nel novero di una generica contabilità delle vittime da una parte e dall’altra. Non c’entrano con le distinzioni tra Anp e Hamas, tra Hamas e Hamas, tra stato unitario plurinazionale come lo sogna il presidente di Israele e logica dei due stati in pace e in sicurezza, non c’entra con i confini del 1948, l’occupazione dei territori, la questione dei profughi e della legge del ritorno. Il contesto è l’islam politico, il califfato ai confini, il mondo occidentale Judenmüde, stanco degli ebrei (come ha detto George Steiner raccontato da Giulio Meotti), lo spirito di resa che spinge alle sue gesta il brigantaggio contro gli inermi, l’attacco alla razza estranea che dopo il gas e i kamikaze subisce i nuovi oltraggi di un’intifada dei tagliagole.
Israele è chiamata, vocata, a difendersi. Non è la vendetta. Non è la linea di Netanyahu. Non è aggressività sionista. Difendersi, contrattaccare, riunire le condizioni militari, politiche e diplomatiche per l’annientamento degli annientatori è una dolorosa e costosa necessità nazionale, quando nazione significa qualcosa di più e di diverso da ceppo etnico su territorio definito. Quando significa scelta di campo tra la profezia democratica e occidentale di Israele e l’uso violento del nome di Dio da parte dei suoi nemici. Che ormai da molto tempo, se mai lo siano stati, non sono più neanche all’apparenza nemici territoriali, soggetti di una contesa postcoloniale. Sono un pezzo della umma islamica il cui vero obiettivo, in una situazione prenucleare (l’Iran) e di ripiegamento occidentale post-iracheno, è la Vernichtung, l’eliminazione dell’entità sionista, del popolo e della nazione salvati che hanno nome Israele.
Gli scrittori progressisti, le anime buone e belle che non derido, e Sofri per la sua parte, e il Vaticano e chiunque altro esprima la disperata ansia della pace, hanno le loro profondissime ragioni, e la loro opinione o preghiera conta, ha un peso evidente, è una variabile del contesto. Ma il contesto è la sua stessa radice, la verità delle cose. Non la patina ideologica che ad esse si sovrappone. Israele è uno scandalo in senso evangelico, si può cercare di seppellirlo sotto una cortina di formule o renderlo evidente nell’unica logica possibile, quella che illuminò il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. C’è una entità statale o nazione o focolare ebraico. Dopo l’eclissi della ragione occidentale, ad Auschwitz, questa entità testimonia del nostro futuro ancora di più che del passato. O la si difende con le unghie e con i denti, che non sono incompatibili con la consapevolezza e la pietà, ma non si riducono alla dispensazione prudente di inviti a desistere, oppure no, oppure si accetta che la storia accorci la vita dello stato di Israele, che la demografia corroda le sue fondamenta, che la storia politica del mondo commini la sua legge dell’indifferenza e della pace. Niente è insano e moralmente spicciolo, proprio nel contesto ritorsivo delle escalation mediorientali, come la mancata risposta al quesito sulla salvezza dello stato degli ebrei. Un’evasione indifferente al dovere di esprimere ragione e umanità la si rintraccia nella stanchezza che ha convinto la società americana ad affidarsi a un presidente riluttante, l’Europa banchiera a contare sullo spirito degli affari con l’Iran più che sul calcolo del rischio, a far marcire anche il nudo sentimento dell’orrore di fronte ai fatti sulla base di un vittimario universale in cui c’è posto per tutti, per seminaristi ebrei e islamisti del partito palestinese del terrore, per classi dirigenti Anp benintenzionate ed eserciti con la bandiera nera malintenzionati. Il contesto c’è, è tragico e chiama a una scelta se non lo si intenda trasformare in un concorso di colpe o in una aperta complicità. Non è la vendetta che oggi fa paura, ma la strada delle buone intenzioni lungo la quale sono stati rapiti e ammazzati i tre ragazzi della yeshiva.
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