Una scena del film "Minority Report"

Delitti, castighi e dna

Cristina Giudici

Indagine tra cronaca nera e letteratura su un mito investigativo e le sue trappole. Il “fantasma di Heilbronn” e le statistiche predittive. Memorie di questori d’ingegno.

Non c’è alcun ramo delle scienze investigative così poco praticato, eppure tanto importante, qual è l’arte di interpretare delle orme”. (Sherlock Homes, in “Uno studio in rosso”)

 

“Perché, pensavo io, se un uomo è colpevole, ci si può certamente, in ogni caso, aspettar da lui qualcosa di decisivo; è lecito anzi contare sul risultato più inatteso. Io contavo allora sul vostro carattere, Rodiòn Romanyc, soprattutto sul vostro carattere!”. (Porfiri Petrovic, in “Delitto e Castigo”)

 


Davanti alla sua inconfutabilità, ci si deve arrendere. Vietato avanzare dubbi, proibito esitare, intercalare anche solo avversativi o cercare di porre interrogativi. Il pensiero unico sul Dna è ormai il mainstream dell’indagine giudiziaria, e guai a chi rema contro. Soprattutto ora che l’ombra del delitto di Yara, morta di percosse e stenti in Val Brembana, tre anni e mezzo fa, è tornata a rattristare le nostre vite quotidiane, e a spazzare l’ombra e illuminare le coscienze c’è soltanto la certezza della colpa, inchiodata dal Dna. Un’indagine, quella su Yara, ce lo hanno ripetuto fino allo sfinimento, clamorosa perché frutto di lunghe ricerche scientifiche e meticolose, ma piena di colpi di scena (tutti genetici), che manco nella serie tv “Csi - Scena del crimine”.
Eppure lo studio delle tracce, dei reperti organici o inorganici, di cui andava ghiotto anche Sherlock Holmes, figlio immaginario di sir Arthur Conan Doyle, medico inglese con passione positivista e vocazione esoterico-spiritualista, e inventore geniale del genere letterario più letto e disprezzato dai grandi romanzieri, può essere anche fuorviante. Lo dicono alcuni dati sugli errori commessi negli Stati Uniti, dove 800 casi di stupro risolti con l’analisi del Dna nell’arco di dieci anni sono stati messi in discussione a causa di errori avvenuti in laboratorio, come sostiene uno studio della rivista forense online Aba Journal (dell’American Bar Association) riportato recentemente dalla rivista Wired. E non perché il Dna possa essere una traccia incerta, il profilo genetico non può essere messo in discussione, ovvio. Esiste solo una probabilità su un miliardo di trovare due profili genetici identici, ci hanno spiegato e ribadito tutti i genetisti dai quattro angoli del pianeta, d’accordo. Ma perché dietro un tecnico di laboratorio, insaccato nella sua tuta bianca e col viso coperto da una mascherina sterile, c’è pur sempre un essere umano con la finitezza del suo Dna, che può sbagliare, intenzionalmente o meno, non si sa. Può accadere di usare tamponi contaminati, ad esempio, o di prelevare dei campioni su una scena del crimine inquinata da altre tracce genetiche, incluso quelle degli stessi investigatori o dei tecnici della scientifica. O perché non esiste ancora, in Italia, una banca del Dna, per fare esami comparativi necessari per scoprire a chi appartenga la traccia lasciata sulla scena del crimine. Dilemma: l’utilizzo giudiziario dei marcatori genetici tradotti in una sequela di numeri per fare i cosiddetti profiling e portarli in un tribunale – dopo la scoperta della prima impronta genetica del biochimico inglese Alec Jeffreys nel 1984 che permise di risolvere il caso di stupro e di omicidio di due giovani donne –, la fiducia aprioristica nella macromolecola presente negli organismi umani, il software biologico a cui ci si affida con tanto entusiasmo insomma, ha ucciso la fantasia o addomesticato l’intuito dell’investigatore?

 

Sicuramente se la scienza fosse stata più lesta, la sua evoluzione tecnologica più veloce, non avremmo mai potuto leggere le fantastiche avventure di una mente sagace come quella della simpatica zitella Miss Marple di Agatha Christie, che risolveva delitti mentre si dedicava alla botanica o a scambiare pettegolezzi con le coetanee del suo piccolo villaggio. O addirittura non ci sarebbero mai stati  dialoghi sublimi come quelli immaginati da Fëdor Dostoevskij in “Delitto e Castigo”, fra il giudice istruttore Porfirij Petrovic e Raskolnikov, frutto di un’acuta indagine psicologica e di una pressione morale, che induce il travagliato studente, con labbro tremante, a confessare, in cambio di un’ipotetica redenzione. Certo, come affermava Porfirij “con cento conigli non si fa un cavallo, con cento sospetti non si farà mai una prova”, e il serial killer ligure Donato Bilancia, che uccise 17 persone, fu preso nel 1998  grazie all’analisi del suo Dna lasciato su dei mozziconi di sigaretta, che avrebbero fatto impazzire d’invidia Conan Doyle. O ancora:  il caso di Ferdinando Carretta fu risolto (ma solo dopo la sua confessione in diretta televisiva nella trasmissione “Chi l’ha visto”) con l’analisi di tracce ematiche trovate nella casa in cui sterminò tutta la sua famiglia, nove anni prima, nel 1989. Ma è anche vero che il processo per l’omicidio della studentessa americana Meredith Kercher è finito in Cassazione perché la sentenza di secondo grado, in appello, aveva annullato la condanna e ribaltato le prove sui frammenti del Dna trovati su un gancio del reggiseno della vittima che corrispondevano, così pareva, a quelli trovati su un coltello della cucina di Raffaele Sollecito. Peccato che quel gancetto fosse stato preso 46 giorni dopo il delitto in un ambiente da cui erano passate centinaia di persone, come ha fatto notare l’avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno, molto scettica sull’utilizzo del Dna nelle indagini giudiziarie. “Il Dna è solo un indizio, non una prova schiacciante. Esiste un gigantesco equivoco: si ritiene che sia la fotografia e non una traccia”, ha dichiarato recentemente. Ricordando che negli Stati Uniti le principali cause degli errori giudiziari derivano dallo studio di cattivi campioni di Dna.

 

Anche se lo scherzo più pesante alla criminologia investigativa è stato fatto nel 2009 in Germania da un’operaia bavarese con molto sense of humor, alla quale si deve la leggenda del “Phantom von Heilbronn”, il fantasma di Heilbronn: una donna a cui erano stati attribuiti sei omicidi e trasformata in serial killer per via del suo Dna ritrovato sulla scena del crimine di 40 omicidi. Salvo poi scoprire che quel Dna apparteneva a un’operaia della fabbrica, che forniva i tamponi di ovatta ai colleghi. Peccato che l’indagine giudiziaria si fosse consegnata mani e piedi alla genetica, arrivando anche a mettere una taglia di 300 mila euro sul serial killer fantasma.

 

[**Video_box_2**]Eppure, pur manifestando un’appassionata fiducia nell’utilizzo del Dna, Achille Serra, l’ex prefetto e direttore della Squadra mobile di Milano, riuscì ad arrestare per la prima volta Renato Vallanzasca ricostruendo con un banale nastro adesivo il puzzle di una busta paga fatta a pezzettini e buttata nel cestino di un supermercato, dopo una rapina, quando nessuno sapeva ancora chi fosse il Re della Comasina. E fece fare appostamenti  a Milano davanti a  300 cabine telefoniche della Sip, quando ancora c’era la Sip, per trovare  il sequestratore dell’industriale bresciano Carlo Lavezzari: “Dovevamo aguzzare l’ingegno e supplire con l’intuito la mancanza di supporto della scienza”, spiega l’ex prefetto al Foglio, “ma in ogni caso io ritengo che ogni epoca abbia il suo investigatore. Anche se è probabile che, affidandosi ai metodi scientifici, si faccia girare meno il cervello. Bisogna trovare un approccio investigativo equilibrato, per non smarrire la forza dell’esperienza, ma è sbagliato al contempo pensare che l’investigatore vecchio stile sia per forza un eroe”, osserva Achille Serra, a cui Vallanzasca aveva detto con l’aria beffarda da balordo di periferia: “Se trovi le prove per inchiodarmi, ti regalo il mio Rolex d’oro”. Lui le trovò, senza l’aiuto dei Ris, gli lasciò il suo Rolex d’oro e lo mise in galera.

 

Era il 1972, quando ancora si scrivevano storie noir piene di pathos sugli sbirri, mastini da marciapiede, sui rapporti strambi che si creavano fra guardie e ladri (la zona grigia che oggi fa tanto orrore a pm senza memoria), fra detective  e assassini, che erano tutta un’altra storia. Come ammette oggi, ma solo parzialmente, il questore di Milano, Luigi Savina. “La scienza ci permette di trovare indizi anche nelle tracce  infinitesimali. Certo, con lo studio del Dna magari ci sono meno confronti, contatti ravvicinati, con il sospettato. Meno interrogatori in cui bisogna rizzare tutti i sensi, acuire lo spirito di osservazione, leggere fra le righe di una frase un indizio, una pista, con l’aiuto della conoscenza della psicologia umana. Ma oramai ci stiamo avvicinando alla criminologia predittiva, in stile ‘Minority Report’. Con la statistica e gli algoritmi, possiamo prevedere quando un rapinatore seriale colpirà e anche dove”, afferma il questore di Milano, entusiasta di ciò che lui definisce un paradosso della criminologia: il predective policing. “Minority Report”, per chi se ne fosse dimenticato, è il film di Steven Spielberg ispirato a un breve racconto fantascientifico di Philip K. Dick, in cui si immagina una società senza delitti grazie al sistema pre-crime, che però nella finzione letteraria viene smantellato perché imperfetto. Eppure alla questura di Milano esiste un software, “Key Crime”, che cerca di prevedere le rapine grazie alla statistica. Anche se poi la scienza dell’analisi dei dati non funziona sempre  perché gli esseri umani seguono ragioni che la scienza non conosce. E le azioni umane, anche seriali,  non possono essere sempre intercettate e previste, grazie a quella cosetta da niente che si chiama libero arbitrio. Ma senza addentrarci nella filosofia e nella criminologia, Lilia Fredella, direttrice della sezione scientifica della polizia di Milano – che ha contribuito con la sua squadra di scienziati a svelare, forse, l’enigma del delitto di Yara – e appassionatissima dei racconti di Agatha Christie, afferma: “Si può sbagliare l’analisi del Dna solo quando i contenitori sono sporchi o la scena del crimine è  contaminata da altre tracce. Per questa ragione abbiamo tipizzato il Dna di tutti i membri della nostra squadra: per ridurre il margine di errore. E comunque l’analisi del Dna non può essere la prova regina in un processo, e non ci si arriva mai in un nanosecondo come hanno preteso farci credere gli sceneggiatori di ‘Csi’”, scherza.

 

Anche se poi cercare di convertire un genetista alla religione del dubbio è tempo perso. Ci abbiamo provato, invano, con un autorevole genetista, Guido Barbujani, studi negli Usa e cattedra all’Università di Ferrara, che è meravigliato dai successi della ricerca genetica nel caso di Yara Gambirasio: “Gli investigatori sono stati talmente geniali da risalire fino al padre biologico, deceduto, grazie alla traccia lasciata su un francobollo leccato dieci anni prima”, afferma con entusiasmo lui, che, alla fine degli anni 90 venne chiamato dal vescovo di Padova, mons. Antonio Mattiazzo, per verificare se alcune reliquie di san Luca contenute nella cappella di Santa Giustina  fossero autentiche. E anche se la sua indagine lo ha portato a rompere i denti del santo per trovare delle tracce del Dna, a fare un viaggio in Siria, per avere ciò che in gergo tecnico si chiama coalescenza (trovare una sola affinità genetica nel Dna mitocondriale che permette di risalire la corrente verso il [tra]passato mediante l’eredità genetica materna anche due-tremila anni dopo). Risultato che è stato narrato da Barbujani nel suo libro “Lascia stare i santi” pubblicato pochi mesi fa per i tipi di Einaudi: “Il corpo di Padova era 2,87 volte più siriano che greco, 1,41 volte più siriano che turco, e 1,94 volte più turco che greco”. In sintesi: troppe probabilità, poche certezze. Meno male che il vescovo lo aveva già rassicurato prima dell’inizio della ricerca: la devozione di un culto basato sulla fede non ha bisogno della verifica della scienza.

 

E infatti nel racconto sulla sua esperienza, Barbujani racconta un altro episodio esilarante sugli scherzi che si possono fare al Dna. “E’ impressionante quanto sia facile lasciare in giro il proprio Dna. La prima volta che nel nostro laboratorio avevamo cercato di studiare Dna umano, moderno, parecchi anni fa, il risultato era stato stupefacente: fra i mocheni, una popolazione del Trentino, tutti erano praticamente identici. Prima di annunciare al mondo la clamorosa scoperta, ci eravamo chiesti se non ci fosse una spiegazione più banale. Alla fine, infatti, c’era: quel Dna apparteneva a uno di noi. Maneggiando i campioni, piccole quantità di sangue in provetta, con la disinvoltura del neofita che pensa di saperla lunga, li aveva contaminati tutti”.

 

Anche il giallista Massimo Carlotto è contrario a questa nuova religione e infatti non ha mai inserito un solo indizio scientifico nei suoi gialli. “Mi pare che tutto dipenda dalla metodologia, se non è corretta si sbaglia, e molti errori hanno portato innocenti sulla sedia elettrica in America”, osserva con veemenza, lui che nel 2009 ha scritto un racconto dal titolo “L’amore del bandito”, in cui il suo detective Marco Buratti, alias l’Alligatore, al Dna preferisce i contatti con i malavitosi, con cui si sente a suo agio per via delle sue conoscenze fatte quando era in prigione. “Allora, se proprio proprio, preferisco affidarmi a un pentito”, provoca lui, ex militante di Lotta continua che è passato attraverso un calvario giudiziario, prima di essere graziato. Eppure, come sottolinea Carlo Ginzburg nel suo saggio “Miti, emblemi, spie” (Einaudi), in cui analizza le radici di un paradigma indiziario in varie discipline per superare la contrapposizione fra razionalismo e irrazionalismo, innumerevoli sono gli esempi della sagacia di Sherlock Holmes nell’interpretare orme nella fanghiglia. Come quando aveva rintracciato, grazie alla sua osservazione, una parentela genetica fra due orecchie tagliate inviate per posta e quelle della destinataria della macabra missiva in “L’avventura della scatola di cartone”. “Nella sua qualità di medico, lei non ignorerà, Watson, che non esiste parte del corpo umano che offra varianti maggiori di un orecchio. Ciascun orecchio differisce da tutti gli altri (…). Immagini la mia sorpresa allorché, posando lo sguardo sulla signorina Clushing, notai che il suo orecchio corrispondeva esattamente all’orecchio femminile che avevo testé esaminato. Medesimo raccorciamento della pinna, la stessa ampia curva del lobo superiore (…) era evidente che la vittima era consanguinea”.

 

Dilemma: con l’aiuto dei Ris e della polizia scientifica  si consegnano alle patrie galere più assassini? Risposta di due autorevoli poliziotti, Achille Serra e Luigi Savina: “Probabilmente, no”. Forse  perché poi  alla fine ci vuole sempre un Ilja Porfirij, come in “Delitto e Castigo”, che rovista  nella coscienza di Raskolnikov,  immedesimandosi nella sua tragedia, nei suoi tortuosi percorsi mentali, nell’abisso dei suoi terrificanti travagli esistenziali,  per indurlo a confessare. “Raskolnikov si lasciò cadere sulla seggiola, ma senza levare gli occhi da Ilja Petrovic, molto meravigliato e spiacente. Tutti e due si guardarono per un minuto, aspettando. Fu portata l’acqua. ‘Son io…’, cominciò Raskolnikov. ‘Bevete dell’acqua’. Raskolnikov respinse con la mano il bicchiere e lentamente, con pause, ma distintamente pronunziò: ‘Son io, che uccisi la vecchia vedova dell’impiegato e sua sorella Lizaveta con un’accetta e la derubai’. Ilja Petrovic spalancò la bocca. Accorsero da tutte le parti. Raskolnikov ripeté la sua confessione”. Con buona pace del Dna.

Di più su questi argomenti: