Perché era scontato che Belgio e Colombia ci avrebbero conquistati

Pierluigi Pardo

Come gli adolescenti al primo appuntamento, con addosso la pressione dei predestinati. Lo sapevano tutti. Colombia e Belgio come un ritornello. Le realtà emergenti, la meglio gioventù. Adesso sono qui, a tre partite dalla gloria.

Come gli adolescenti al primo appuntamento, con addosso la pressione dei predestinati. Lo sapevano tutti. Colombia e Belgio come un ritornello. Le realtà emergenti, la meglio gioventù. Adesso sono qui, a tre partite dalla gloria. Davanti a loro Neymar e Messi, la storia del Sudamerica, le maglie gloriose e pesanti di Brasile e Argentina. E tutto sembra possibile. Del Belgio si parla da anni, di questa generazione d’oro. Se non conoscevi a memoria i loro nomi eri uno sfigato. Uno che non conosce il calcio. C’è Thibaut Courtois che prosegue la tradizione tra i pali di Pfaff e Preud’Homme. C’è Fellaini, il capellone. Ci sono Kompany, Vertonghen, Vermaelen, Witsel e De Bruyne. C’è Mertens che ormai conoscono tutti in Italia (a Napoli è stato più continuo di Insigne, prima stagione da tredici gol) e c’è Lukaku che contro gli Usa ha dato energia anche psicologica quando Howard sembrava invincibile.

 

La stella, se ne esiste una in una squadra così ricca di talento diffuso, si chiama Eden Hazard, da due anni al Chelsea con buon profitto, 30 gol in 24 mesi. Viene da una famiglia di sportivi, Thierry e Carine, padre e madre entrambi ex calciatori e tre fratelli tutti con il pallone in testa. Talento poderoso, protagonista del double (campionato e coppa) di Rudi Garcia con il Lille nel 2011. Ha un carattere complesso. Ha fatto disperare i belgi a inizio carriera per una certa irregolarità. Tutti si ricordano il burger-gate. Il 3 giugno del 2011 scende in campo nel match decisivo contro la Turchia di Hiddink per le qualificazioni all’Europeo e quando Leekens, il ct, lo sostituisce, manca ancora mezz’ora. Tutto il tempo per andare a farsi un hamburger e sedersi in tribuna con mamma e papà. Le telecamere lo inquadrano mentre addenta il panino e scoppia il casino (rima). Tanto più che il ct l’aveva già più volte rimproverato per scarsa puntualità e poco impegno in allenamento. Lui aveva risposto a tono. “Non devo allenarmi o correre molto. Io faccio azioni decisive”. Modesto. E diplomatico, come quando quest’anno dopo la sconfitta con l’Atletico Madrid in Champions ha accusato Mourinho di non averli preparati a dovere. Sembrava una dichiarazione di guerra adatta per portarlo subito al Psg, ma per il momento il progetto non è andato in porto, anzi Eden ha dichiarato ufficialmente che l’anno prossimo indosserà la maglia “blues” n. 10. Intanto ha addosso quella del Belgio, se la merita, e sabato proverà a mettere paura a Lionel Messi, l’altro 10.

 

[**Video_box_2**]La Colombia invece il suo fenomeno l’ha lasciato a casa. Il giorno dell’annuncio ufficiale, un mese fa, del forfait di Radamel Falcao è stato lutto nazionale. “Non me la sento di rubare il posto a un compagno che sta meglio di me”, ha detto, con l’umiltà di un gregario. Fuori da gennaio per la lesione al crociato in un banale match dei sedicesimi di coppa di Francia, contro il Monts, Radamel adesso davanti alla tv guarda le prodezze dei compagni dopo aver stramaledetto mille volte quell’infortunio. Vent’anni dopo la folle uccisione di Andrés Escobar, colpevole di aver segnato un autogol decisivo nel match contro gli Usa del Mondiale ’94, la Colombia sta facendo la storia. Copacabana è invasa da tifosi in festa. I cafeteros mostrano al mondo il talento di James Rodríguez (si pronuncia “Kames”, alla spagnola), le sterzate improvvise di Cuadrado, la potenza sotto porta di Jackson Martínez, la solidità in difesa dove Armero, Yepes, Zapata e Zúñiga sembrano i fratelli talentuosi dei giocatori che arrancano in campionato. Pekerman, argentino di origine ebraica, vuole far piangere i brasiliani. Nella sua unica esperienza in un Mondiale, con l’Albiceleste nel 2006, uscì proprio ai quarti e contro la squadra ospitante, la Germania, ai calci di rigore, dopo aver escluso a sorpresa Zanetti, Samuel e Veron. Non è superstizioso e prepara la trappola. Un 4-4-1-1 più coperto per far venire freddo nella caldissima Fortaleza a Scolari. Ha tutto per far piangere questi duecento milioni di brasiliani, per disinnescare la cresta trendy di Neymar che adesso i cabeleiros, i barbieri di Rio e dintorni, provano a riprodurre sulle teste dei ragazzi. Il più bravo è Marcelo Ferreira, un 22enne hair artist capace di disegnare perfettamente tra orecchie, nuca e base del cranio l’immagine di O’Ney. La sua bottega è sdraiata a un passo dalla favela di Jacaré, quella dove nacque Romario. Il taglio costa 45 dollari. Molto per un quartiere dove il reddito medio è 200 dollari al mese. Eppure c’è la fila. Perché il Mondiale è il Mondiale.