Dediti alla causa, campioni, ma timidi. E' un Mondiale senza leader
Lo si diventa, diceva Max Weber, con dedizione, determinazione, spirito di sacrificio e speranza. E timore nei propri avversari. Il calcio però è maledettamente più complicato della politica.
Ogni gruppo ha bisogno di un leader: si diventa leader, diceva Max Weber, con la totale dedizione alla causa, con la feroce determinazione, con la capacità di suscitare fra i propri seguaci spirito di sacrificio e speranza. E timore nei propri avversari. Il calcio però è maledettamente più complicato della politica, ha un substrato di irrazionale e la leggerezza dell’alea: dunque per essere leader ci vuole qualcos’altro.
Dediti qui, a parte i nostri, lo sono stati tutti. Chi non ha sputato anima e polmoni? Li abbiamo visti vomitare sull’erba perché questo accade quando lo stomaco è annodato, sputare e la saliva rimanere attaccata alla bocca, quando la fatica è troppa e il respiro secca le fauci e brucia le mucose. Ormai si gioca per un tempo che sembra infinito: regolamentari più recuperi più supplementari più altri recuperi, con l’arbitro rigoroso si va verso i centotrenta minuti.
Inebriati da tanta sofferenza che pure va salutata con applausi di gratitudine, non ci accorgiamo però di aver visto grandi campioni, azioni entusiasmanti, gesti tecnici pazzeschi, ma non grandi leader. Forse perché il canone principale di questo Mondiale sta nel prendere la palla, correre dritto per dritto più avanti possibile, più veloce possibile e crossare, un tipo di calcio molto generoso che non necessariamente richiede lucidità e intelligenza. O più semplicemente perché non ci sono più facce da leader. Non ho visto nuovi Beckenbauer né nuovi Platini né nuovi Maradona né Zanetti né Franco Baresi né Scirea né Tardelli: non parlo di qualità, di tecnica, ma di quel modo particolare di stare in campo, caracollante, ubiquo e centripeto che distingue il leader.
Dire che Messi, Neymar, James Rodriguez, Arjen Robben, Karim Benzema, Eden Hazard, Thomas Müller e Bryan Ruiz sono i leader delle otto squadre che da oggi si affronteranno in un nuovo “mata-mata” è così scontato da sembrare falso. Non sempre il nome più famoso, l’uomo immagine, il calciatore più brillante, quel 10 caro alle folle e ai buongustai, il numero dell’arte pura, sia anche un leader. Non lo è Neymar, un esile ragazzino, non lo è almeno per ora neanche Messi. Determinanti, risolutivi ma non leader.
Per esserlo, occorre uno strano miscuglio di ritegno e tracotanza, di comprensione del momento e lungimiranza, di capacità di leggere la partita, di capire quando suonare la carica e quando la ritirata, l’energia per sostenere senza sosta chi è in difficoltà e abbastanza senso di sé da non farlo pesare: deve essere molto di più di un capo-partito. Il leader sul campo è fraterno e solidale, psicologo ma alla bisogna padre severo e non esita a prendere i suoi per la collottola, letteralmente: Giorgio Chinaglia, leader non capitano della Lazio del primo scudetto, rincorse Vincenzo D’Amico, oggi nota voce tecnica della Rai, per tutto l’Olimpico cercando di prenderlo a calci in culo di fronte a migliaia di spettatori in estasi.
Baggio per dire fu calciatore sublime ma non fu mai leader: troppo schivo, troppo dentro la sua bravura e la bellezza dei suoi gesti, troppo spirituale, non abbastanza cattivo. Non fu leader l’immortale Van Basten, il Milan degli anni d’oro lo governava il rude e silenzioso Franco Baresi.
Messi non è Maradona non per una questione di talento: non lo è perché lui era ovunque e ovunque portava grinta, cattiveria e classe infinita, prendeva la squadra e se la metteva sulle spalle in ogni momento, e quando era fatto, strafatto era solo più grande e ci spingeva a chiederci cosa avrebbe potuto mai fare senza coca. Magari Messi avrà anche risolto da solo più partite di quante ne abbia risolte Diego, ma è ancora il trottolino dalle gambe d’oro, micidiale dalla tre quarti in su ma non universale: se non vince il titolo lui rimarrà un’opera d’arte non finita.
Non è leader Neymar e questa volta il Brasile un leader non ce l’ha proprio, il carattere di David Luiz o Thiago Silva non compensano il loro evidente calo di forma. C’è voluta la psicologa per rimettere insieme i cocci dell’autostima dopo il brivido cileno, ci ha fatto bene ha commentato Neymar: queste non sono parole da leader.
Non è leader dell’Olanda Van Persie stella solitaria per definizione. Meno che mai lo è Robben, puro istinto predatorio, il suo mondo comincia quando sposta verso sinistra la palla rubata e finisce quando la butta dentro. Un De Jong o uno Sneijder sono al più vice leader nelle loro rispettive parti di campo.
Non ha un leader riconosciuto la Colombia e se bisogna proprio sceglierne uno è quel vecchietto di Mario Yepes. Nella Germania per ruolo e curriculum potrebbe essere Lahm, infatti è capitano e centrocampista centrale ma è timido, manca di carisma. Müller non sarebbe male ma è giocherellone e i leader burloni riescono meglio in politica. Il francese Pogba è troppo giovane e sembra lo scaramacai che esce d’improvviso dal cubo: più continuo, più solido è Matuidi che potrebbe essere leader del Psg se non ci fosse già un certo Ibrahimovic.
Si avvicinano di più al ruolo di leader, i due capitani della Costa Rica e del Belgio, rispettivamente Ruiz e Kompany da preferirsi a Hazard che pure ha fatto follie nell’ottavo contro gli Stati Uniti. Quando vedi la massa nera del ventottenne centrale del Manchester City che allo scadere del tempo e con la sua squadra in vantaggio solo per 1 a 0 interrompere l’azione avversaria, proporre lo scambio e farsi cinquanta metri di campo per andare a ricevere, allora ti dici che questo non è solo uno dei migliori difensori del mondo: è un vero leader. Anche se poi ha tirato una stampellata che ha scavalcato pure i fotografi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano