I finiani che furono
Che ne è stato degli uomini che fondarono Futuro e libertà in rivolta contro Berlusconi? Da Campi a Croppi, da Flavia Perina a Sofia Ventura il catalogo delle macerie è questo.
“… e, rivolto il passo, come sembrava, verso il ponte Obuchov, sparì completamente nella tenebra notturna”.
(“Il cappotto”, Nikolaj Gogol’)
Poi lui (ri)apparve. Mica come al Lirico (per carità, e facendo i debiti scongiuri). Abbronzato, apparve. In abito chiaro, apparve. I capelli imbiancati, pure: svolazzanti, quasi come piumaggio di papero nascituro, di passero nel nido – dopo un anno e mezzo di assenza e ripensamenti e il fantasma del fallimento sempre caricato in spalla. Sorridente (con largo sorriso) apparve. Lui agitò la mano; loro agitarono cartellini tricolori. “#Partecipa”, ohibò. Lui sa dei sorrisini dietro le quinte – il riapparire di un naufrago dopo un disastro, il Robinson Crusoe di via della Scrofa, il ritorno in scena quando ormai anche la scenografia è stata smontata e lo spettacolo è fuori cartellone. Provarci. Riprovarci. Tentare. Davanti a sé, nella platea non folta seppur volenterosa, anche una sua personale, forse dolorosa Spoon River: straniamento di fantasma (politico) che non riconosce i fantasmi (politici) che lo accompagnarono – in giorni se non di vera gloria, almeno giorni in cui qualcosa sembrava possibile. Anni fa, due bravi giornalisti di quell’area politica, Luciano Lanna e Filippo Rossi, scrissero un imperdibile felicissimo volume: “Fascisti immaginari” (Vallecchi), seicento e passa pagine dove tutto un intero mondo era sezionato ed esposto – come su una bancarella, venghino signori!, la donna baffuta e il fascio guevarista!, però con gusto e curiosità, ché poi il capitolo “Mussolini” non c’era, ma c’era il capitolo “Willy Coyote”, beep-beep, “il coyote devi averlo dentro di te. E devi tirarlo fuori”, altro che solco e aratro. Ed ecco, allora, l’adunata di mesta tricolorazione di fine giugno. A guardar lassù Fini che saluta – lui che fu Capo maiuscolato per quasi un ventennio, di tutt’altro ventennio, però, si capisce e consola, e pazienza se all’inizio persino i camerati con ormoni e cervelli confusi lo applaudivano quale “Fini, Fini / il nuovo Mussolini!”, ora tutor o coach o allenatore, o quello che è, ma bordocampo sempre e per sempre, con timori prandelliani e speranze miracolose alla Oronzo Canà. Anche un video, dove appare appunto tecnico in campo di calcio, “la partita si può perdere se la giochi a testa alta, senza secondi fini” – e viene allora quasi vertigine, tra ciò che si è e tra ciò che si dice di non volere, Fini e doppi fini. A guardar giù la platea – che chissà cosa spera: che una scialuppa riprenda il mare, che ciò che fu non sia del tutto finito negli abissi da dove neppure il subacqueo Fini potrebbe riportare qualcosa a galla. I “fascisti immaginari” hanno ora saldato ogni conto – chissà: chiuso ogni conto. Adesso, la cronaca da altro è occupata. Da ciò che gli occhi di Gianfranco Fini forse scrutavano senza più vedere: i “finiani immaginari”.
Quelli più eroici, quasi i più baldanzosi, quelli dell’ultima stagione – mica raffica di niente, né di Salò né di Salsomaggiore, ma sosta pensosa a quel bivio (“che fai, mi cacci?”) che sembrava aprire verso un’autostrada e che invece condusse a un viottolo cieco e muto e sordo. Futuro & libertà: abbondante la seconda, praticamente “tana libera tutti”; scarso il primo. E ognuno andò: in esodo, diaspora, dimenticanza. Il Capo per primo. Così che resta ancora da chiedersi se fu lui inadatto a loro, speranze e sogni e illusioni, o se furono loro inadatti a sopravvivere fuori dalla luce finiana che man mano si spegneva, come le stelle, a miliardi, di quel racconto di fantascienza. Se Fini fosse per loro come il cappotto per il povero Akakij Akakievic del racconto di Gogol’ – che della sparizione di quel cappotto ne muore, fino a farsi fantasma che sul ponte Kalinkin “in aspetto di funzionario, cercava non si sapeva quale cappotto rubatogli”; o piuttosto loro – il tiepido paltò dell’ultima sua stagione. Fatto sta: il galeone che fu della destra che non divenne è ora scialuppa che chissà se mai il mare riprenderà – definitivamente Anzio, più che illusorie Antille. E Fini, che secondo molti suoi accusatori (vocianti berlusconiani, vocianti nostalgici, vocianti e basta) da se stesso si separò, dalla sua storia e dai suoi stessi cromosomi, anche da quella frazione di mondo dell’ultimo suo tentativo di circumnavigazione si è distaccato. Perché non avevano più niente da dirsi. Forse perché non c’era più niente da dire – da nessuna parte.
Non dei soliti colonnelli che furono di tavolinetti di Caffetteria ciarlieri frequentatori, e che dietro le quinte di commedie altrui ora provano a sopravvivere, pallide irrilevanti guest star. No, non quelli. Altri. Ecco, si potrebbe partire da lì, dal “Manifesto di ottobre” – pomposamente battezzato essendo stato formulato in epoca di vendemmia non felice, annata 2010. Un curioso esperimento di destra/non destra, “perché qualcosa avvenga”, forza con “l’immaginazione e il progetto”, stabilire “la stretta relazione tra Potere e Sapere che dà virtù all’etica pubblica” – un volo (politico) da perderli di vista e da perderci la testa. Per alcuni colpo di genio, per altri stitica paraculata, per altri ancora confuso frullato. Scrittori e attori, storici e professori, filosofi e archeologi, ricercatori ed economisti, apposero la firma in quel sorgente autunno. Intellettuali impegnati, la compagna lesbica del Pd, il deputato ambientalista, il giornalista di sinistra, il regista progressista – e altri più “organici”, si potrebbe dire, al mondo che di Fini fu e al mondo che Fini pensava (pensavano) volesse costruire. Così Luciano Lanna e Filippo Rossi, Sofia Ventura e Alessandro Campi, Benedetto Della Vedova e Fabio Granata, Flavia Perina e Monica Centanni… Poco più di tre anni, quasi cento. Fu un manifesto di illusione, fu una lunga lista di altrove dispersi – non lì con Fini, in questo rientro tra Buffalo Bill, “mi presentarono i miei cinquant’anni / e un contratto col circo ‘Paceebene’ a girare l’Europa”, e una piazza laterale. Lentamente, amichevolmente, anche le strade di Lanna e Rossi, che condensarono un intero mondo nel loro volume, si sono separate. Lanna, dopo aver fatto con Flavia Perina (adesso vicedirettore all’Adnkronos) un Secolo d’Italia pazzo e fascinoso, scrive per un programma Rai e il Garantista di Piero Sansonetti, ha vinto il concorso di professore a scuola, e forse professore si farà… “Pensavamo allora che con Fini, in quella stagione, si aprisse un varco alle nostre sensibilità, un’occasione per rompere a destra e a sinistra. Ma altri, invece, pensavano a una sorta di nuovo centrodestra come quello di Alfano, e alla fine…”, allarga le braccia Lanna. Rossi, che dirigeva FareFuturo, è ormai figlio della Tuscia, “laico impenitente”, pure il sindaco di Viterbo voleva fare, è da anni artefice di Caffeina, il bel festival dove incontri molti cantanti di sinistra (Piero Pelù, Guccini in programma, omaggio a De André), molti bravi scrittori (David Grossman, Antonio Pennacchi), quelli dello Strega in massa, bravi giallisti (Andrea Vitale, Maurizo De Giovanni, Alessandro Maurizi), e insieme Antonio Ingroia e Giancarlo Caselli, e pure Oscar Farinetti e Slow Food , e c’è persino Walter Veltroni, e soprattutto, all’ombra del Palazzo dei Papi, Gianfranco Fini che torna, col suo libro di perdute memorie, strade cha casualmente si riprendono, molto casualmente – ancora tu? – e poi di nuovo addio. E così, e percio, “non ci si può non dire renziani”, ha scritto Rossi nel suo blog sul Fatto. Ecco: nuova luce che più fitte ombre su chi già stava in penombra produce.
In certi momenti si può credere che la propria vita (pubblica, politica: solo quella, per carità) possa essere tutt’uno con quella di un’altra persona, di un leader che il polveroso magazzino della memoria viene a smuovere. Quasi mai è così – ogni tanto, però, pare bello e rassicurante crederlo. Il bravo Umberto Croppi è sempre stato un curioso degli altri – e gli altri lui ha spesso incuriosito. Un incursore – perfetto, per quel manifesto ottobrino, dove pure non c’era, e ha dovuto fronteggiare, da assessore capitolino alla Cultura, la tentazione di certi altri di far corse di bighe al Circo Massimo – “qui non si fanno corse di bighe”, aveva affisso sulla porta, a impossibile redenzione di una destra orfana, alla fine di tutto, in particolare di Ben Hur e della vocazione all’ippica. E forse porta adesso il peso di molte cose sfuggite, quella parte della destra che al suo destino voleva sfuggire, e che Fini illuse, o che con Fini s’illuse – ché c’è sempre un Italo Bocchino che alla burocratica necessità, all’inevitabile mattanza politico-sociale, riconduce. “Poi prevalse Bocchino…”, dicono infatti a lamento, a lagnanza, chi fu finiano nella stagione finale, anche per scommessa (e sopravvivenza) di vita, e ora la verde prateria intorno è solo sterpaglia arsa. “Ah, se Gianfranco fosse stato come Renzi…”, il bullo col suo manipolo che ora cavalca gagliardamente là dove l’erba è alta e fresca, e pare catturare il pensiero di molti che della destra volevano fare azzardo temerario. Croppi ora si addolora per la scomparsa di Maria Luisa Spaziani, “signora della poesia”, o invia foto sul suo vano tentativo di salire sul bus affollato, “273 è il numero della linea ma anche quello dei passeggeri stipati nel mezzo”. Di quella stagione, senza quel rapido riapparire di Fini tra lo sventolio dei cartellini tricolori, forse non si sarebbe più parlato. Finiani, appunto, immaginari – svaporizzati. Immaginario esausto. Angelo Mellone – che forse con minor patimento esistenziale attraversò quei giorni – oggi dirigente Rai, l’unico coi pettorali in vista, così si raffigura su Twitter: “Lazio. Patria e figli. Chi dorme non piglia audience”, e consiglia a qualcuno la rilettura del “Piccolo principe”, e può dettagliare, a richiesta altrui, “sono indeciso se aprire le gocciole, i wafer o mangiarmi un muffin”, l’esatta strategia, “muffin prima, gocciole dopo”, e sparge perle di saggezza: “Non sempre è bello ciò che è giusto. E non sempre è giusto ciò che è bello”, oppure “Il narcisismo è l’incapacità di sciogliere il proprio Io nel mondo” – come il muffin nel caffellatte, magari… Ma c’è un lampo di genio, una perfetta metafora di quegli anni lontani (non così tanto, ma così tanto sembra) stilata dal suo carrozziere, e da lui resa pubblica, e ciò quasi un intero manifesto vale: “A quello j’hanno fatto una modifica alla ‘mejo me sento’…”.
Ecco, chissà cosa poteva essere – quell’essere finiani, arditi ganzi ottobrini, così da mandare il mondo di sotto sopra e quello di sopra sotto. Alla fine, tutto restò com’era, solo una modifica “alla mejo me sento”, ’na romanella, come si dice, un colpo distratto in superficie e nient’altro… Dissolvimento, neppure troppi rimpianti. E chissà, infatti, se ne avrà patimento il professor Alessandro Campi, politologo che fu orgoglio di quella stagione – tutto un fiorire di analisi, previsioni, suggestioni, e così come smuoveva la discussione della pigra destra su Pierre Manent e Hans Morgenthau, Julien Freund e persino “il Pessoa politico”, sperava forse di operare qualche prodigio intellettuale in quel disparato accampamento. “La battaglia delle idee, se presa sul serio, deve essere combattuta a tutto campo e con ogni mezzo”. Cominciarono già – a pochi mesi dal manifesto firmato a ottobre con elevazione mediatica a “ideologo ufficiale del finismo”, ruolo che, ironicamente precisò, “rischia di essermi sottratto dall’astro nascente di Umberto Croppi (mio antico amico)” – i sintomi di disagio, e dissero che a una certa assemblea finiana a Milano il prof. politol. non voleva andare, causa eccessi di antiberlusconismo, telefonate preoccupate di Fini, chiarimenti mai definitivi, spiegazioni chissà quanto convincenti. Il “realismo politico”, il filone politologico caro al politologo, forse ciò imponeva – non sognare l’impossibile. E adesso, “con il distacco dell’osservatore neutrale” (così nel suo sito presentano il libro “Cronache da Narni”). E quella “destra in cammino”, che celebrò in un saggio del 2007, ha il fiato grosso e il passo stanco. Pare, a volte, senza più fiato del tutto.
“Sono vent’anni che sogno, più che altro. E aspetto”. Così disse al Fatto, nel 2012, Sofia Ventura – la politologa dai capelli rossi, allieva di Angelo Panebianco, “laica dura”, quella che azzannò il “velinismo” su FareFuturo, e che al Corriere, nel 2009, aveva confidato: “Sinceramente, non so se riuscirei a stare nel Pdl se non ci fosse Fini, che rappresenta una prospettiva di cambiamento. Lui sogna una destra decente”. Sognava Fini. Sognava la prof.ssa Ventura. Per un po’ i sogni sembrarono coincidere – l’onirica aspettativa di una, la buona educazione, “elegante nei modi” (fu messo in conto), dell’altro. Firmò anche lei, quel manifesto autunnale per una primavera che mai arrivò. Ma lungo era lo sguardo della prof.ssa Ventura – così due anni dopo, con largo anticipo persino sui diretti interessati di sinistra, fece la sua mossa del cavallo, scompaginò, “se Renzi si candida lo voto, se vince e lo candidano premier, lo rivoto”, politicamente e politologicamente rapita dalla “via più blairiana alla riforma liberale” da Matteo instradata, pur se l’Unità (per distrazione più che per maleducazione, si spera) scrisse “si apre il confronto dopo che un’elettrice ex Pdl ha scritto: ‘Voterò Renzi, ma se non vincerà lui, non voterò Pd’”, senza nome né cognome, manco fosse l’elettrice di Voghera del centrodestra. Ma ora anche la prof.ssa Ventura – che dispensa consigli su molti giornali – nel campo periferico dove Fini ha scelto di allenare non si è vista.
Doveva sembrare, a Fini, quella sala romana, quasi la desolata versione politica della collina di Spoon River, dove sonnecchiano, (politicamente, facendosi scongiuri) “tutti, tutti, dormono sulla collina”, chi trapassò in una febbre e chi fu uomo venerabile della Rivoluzione, “tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina” – assenti, fuggiti, distratti, stanchi, annoiati, delusi, assuefatti, frustrati, sbandati, arrabbiati… Poche, le facce che furono (sempre, il generoso Roberto Menia che non smonta). Altri, tra i cento e cento suoi deputati, altrove. A coltivare con fatica sogni, a non sognare più affatto, persino al governo con Renzi. Dove sono, dunque, Adolfo Urso e Andrea Ronchi, Italo Bocchino e Flavia Perina, Carmelo Briguglio e Fabio Granata – in quale sonno sono? Fu l’ultima squadra che allenò, prima di cominciare quest’altro giovanile torneo – perse la partita, il campionato, la maglia. Dissero alcuni già l’anno passato di essere stati marchiati e macellati dal Pdl per fedeltà alla causa, “è stata una pulizia etnica, paghiamo quelle ‘lettere scarlatte’: An”. E Fini già oltre: immerso, nei silenziosi suoi abissi. “Eravamo amici d’infanzia”, mormorò Ronchi, l’unico ex ministro non rimesso in lista. E Urso, presidente di Farefuturo (impegno più che mai gravoso), il più intellettuale tra di loro, che azzarda (pure lui: è una costante, chissà come andrebbe indagata) metafore calcistiche sulla sorte della sua parte politica, “l’Italia di Prandelli e il centrodestra: storie diverse, destini simili”, oppure fa trasparire rimpianti, “le magie di Renzi e quella magia che manca al centrodestra” – ah, la Leopolda blu!, ah, la Leopolda blu a noi! E Bocchino tornato al Secolo, tra l’invidia di molti, che ad Alfano dona il marchio “Nuovo centrodestra” che preventivamente aveva registrato, pensa tu, nel 2011 presso lo spett.le “Ufficio marchi e brevetti del ministero dello Sviluppo economico”. E Giulia Bongiorno, avv. di chiara fama, con Passera adesso che fa Italia Unica, e per l’estate consiglia la lettura del libro di Alfonso Celotto, “Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale”, ché “si legge in poco e si sorride molto” – impalpabile e lieve, quasi un Fli letterario, ma senza mesto finale. Benedetto, invece, un po’ liberale un po’ radicale un po’ liberista, è sottosegretario. E Fabio, el Pasionario di quella breve e matta stagione di Fli, e i barbudos (ben rasati, però) del fu regime berlusconiano mai arrivarono al trionfo di Santa Clara, che fa il capo di Green Italia, non meno passionale, non meno speranzoso, “l’Avvenire è iniziato”. Sempre un inizio dopo un inizio dopo un inizio. Perciò, pure Fini…
I finiani che furono, i finiani immaginari, spesso scrivono libri. Come a provare a lasciare un minimo di traccia del loro lieve poggiare sul terreno della politica. Lo stesso Fini lo ha fatto: “Il ventennio. Io, Berlusconi e la destra tradita”. E Italo Bocchino: “Una storia di destra”. E Urso, con Mauro Mazza: “Vent’anni e una notte”. E Granata, con “L’Italia a chi la ama” – l’unico che possa, con singolare e già antica concordanza, vantare una introduzione di Fini e una prefazione di Beppe Pisanu, quanta grazia!, ecc. ecc. Qualcuno ha perciò ha rubato il cappotto ad Akakij Akakievic – che adesso fa il matto. Qualcuno però il cappotto lo ha semplicemente smarrito. Distratto. Sbadato. Disattento. Scombinato. Nudo, si sente. Fortuna – è arrivata l’estate.
Il Foglio sportivo - in corpore sano