Uno scena del film “L’uomo che non c’era” (2001) in cui i fratelli Coen raccontano le vicende di un taciturno barbiere della provincia americana degli anni Cinquanta

Il barbiere fedele

Wendell Berry

Pubblichiamo in anteprima ampi stralci del primo capitolo di “Jayber Crow” di Wendell Berry (traduzione di Vincenzo Perna) uscito per Lindau il 3 luglio.

Pubblichiamo in anteprima ampi stralci del primo capitolo di “Jayber Crow” di Wendell Berry (traduzione di Vincenzo Perna) uscito per Lindau  il 3 luglio

 

Non ho mai sistemato un’insegna o un palo da barbiere, e neppure dato un nome al negozio. Non ce n’era bisogno. Tutti conoscevano l’edificio come “il negozio del barbiere”. Si chiamava così perché quello da tempo immemorabile era il suo nome. Port William non possedeva molta storia scritta. La sua storia era la memoria vivente di se stesso, e sorvolava gli anni come un raggio di luce in movimento. Il suo inizio era ormai dimenticato, e la fine ancora da scoprire. Pareva fosse lì da sempre. Dopo che sono rimasto lassù un certo tempo, la gente ha cominciato a chiamare il negozio “Jayber Crow”, o più semplicemente “Jayber”. “Be’, io vado da Jayber” dicevano le persone, come se il posto fosse segnato su una cartina invece che nella loro testa. Non ho mai avuto un telefono e perciò il mio nome non è mai stato sulla guida.

 

Dal 1937 al 1969 sono stato “il barbiere” di Port William. Si potrebbe dire che l’attività di barbiere a Port William era intermittente con l’eccezione del sabato, quando a volte restavo in negozio fino a mezzanotte e oltre. Se non avevo clienti mi sistemavo sulla poltrona e chiacchieravo con i perditempo, e se in negozio non c’era nessuno leggevo qualcosa o schiacciavo un pisolino. Una poltrona da barbiere è un magnifico accessorio per leggere e dormire. S’inclina all’indietro e offre un appoggio alla testa e ai piedi. Ma siccome non si può sempre oziare o sonnecchiare, a volte tenevo d’occhio il paese. Se il tempo era brutto guardavo dalla finestra. Quando faceva bello portavo fuori una sedia e mi piazzavo sotto l’acero sul bordo della strada. Ho sempre cercato di avere fiducia nei miei clienti – cioè, fiducia nella possibilità che uno di loro decidesse all’improvviso di presentarsi da me per un taglio o una rasatura, o per trovare un posto a sedere. E per la verità avevo bisogno delle monete che tintinnavano nelle tasche dei pantaloni di Port William, ed ero ansioso di aggiungerle alla raccolta che conservavo nella scatola da sigari sullo scaffale.

 

Ho mantenuto fiducia nei miei clienti, ma devo ammettere che l’ho fatto in modo abbastanza irregolare. A volte quando non avevo gente, uscivo a bighellonare. Avevo ricevuto in eredità dal mio predecessore un piccolo cartello di cartone, con un quadrante e due lancette cascanti che dichiaravano invariabilmente “Torno alle 6 e 30”. Se me ne andavo uscivo sempre un bel po’ prima delle sei e mezzo, per cui avevo un mucchio di tempo a disposizione. Se tornavo in anticipo sull’ora indicata, lo consideravo soprattutto un mio merito personale. A volte camminavo per vedere chi gironzolava per la via o per i negozi. Da lì passeggiavo in direzione del bosco che sorgeva sulle rocce scoscese sopra il fiume. Oppure, semplicemente, traversavo la strada e raggiungevo l’officina di Milo Settle, dove c’erano spesso lavori interessanti in corso e talvolta feroci discussioni politiche istigate dal suo vice Portly Jones, un individuo disposto a morire per le sue opinioni. Quando non ero in vena di stare in compagnia m’incamminavo in direzione opposta lungo la salita, oltre la scuola e verso la campagna. A volte mi prendevo un’intera giornata per andare a pescare con Burley Coulter o con uno dei Rowanberry, facendo però attenzione a tornare prima delle sei e mezzo.

 

Se invece me ne andavo dopo le sei e mezzo del pomeriggio, naturalmente potevo star via tutta la notte senza problemi. E siccome nessuno è propenso a farsi tagliare i capelli a quell’ora del mattino, potevo assentarmi fino alla stessa ora del pomeriggio. Il cartello diceva che sarei tornato alle sei e mezzo, ma non di quale giorno. Comunque, fino all’ultima volta, prima o poi sono sempre tornato. Port William ripagava gli sforzi dell’osservatore, ed ero sempre di vedetta per avvistare possibili eventi. A volte non capitava nulla, ma altre volte ho assistito a scene memorabili.

 

Durante un caldo pomeriggio estivo, per esempio, vidi Grover Gibbs passare davanti alla rimessa di Settle con un grosso sturalavandini in spalla. Grover avvistò il testone calvo e lucido di sudore di Portly Jones che spuntava da sotto un’automobile, e con una stoccata energica e precisa gli appiccicò a tradimento la ventosa sulla sommità del cranio. A quel punto Portly cadde preda di una specie di attacco convulsivo: cercò di uscire in fretta da sotto l’auto aiutandosi coi piedi e la mano sinistra e di togliersi di dosso lo sturalavandini senza successo con l’altra mano, come uno che cerca di trascinarsi fuori dalla fossa da meccanico per la testa. Ci mise un bel po’ a uscire da lì. L’assalitore nel frattempo aveva continuato a camminare per la sua strada, si era allontanato ed era tornato indietro con aria noncurante per contemplare il risultato del proprio estro. Passeggiava con aria innocente e le mani incrociate dentro la pettorina della tuta, lo sguardo indifferente, la faccia tesa intorno a un forellino tra le labbra da cui sibilava un motivetto. Si concesse il piacere di trovarsi faccia a faccia con Portly, che ormai aveva l’aspetto di un unicorno dal volto paonazzo.

 

“Grover, – disse – chi è stato? Se sei stato tu, ti ammazzo”. Grover non rispose, ma continuando a fischiettare cercò con solennità di aiutare Portly a sbarazzarsi del corno, cosa che gli riuscì soltanto praticando col trapano un foro nella ventosa per eliminare il vuoto.

 

"Ho rovinato uno sturalavandini”, raccontò Grover più tardi, “ma ovviamente non potevo dirgli che era mio”.

 

E una mattina presto, quand’ero praticamente l’unica persona in piedi, vidi Fielding Berlew che danzava in mezzo alla strada intonando con passione e gli occhi pieni di lacrime la Ballata di Rose McInnis. Aveva trascorso la notte in paese in una veglia solitaria – “tre terzi ubriaco” come avrebbe detto lui – a causa dei disaccordi con la moglie. Teneva le braccia spalancate come ali e ruotava su se stesso a passi lenti, con tutta la grazia di cui un ubriaco con i piedi infilati in un paio di stivali di gomma può essere capace. All’improvviso, in cima alla salita, comparve un autotreno. Il mezzo cominciò a vibrare procedendo a strappi e a zig-zag, poi emise un altissimo ululato, con sibilo di freni e stridio di gomme sull’asfalto. Quando il paraurti fu quasi a contatto delle gambe di Fee, l’autista riuscì a fermare il mezzo e crollò di sollievo e riconoscenza per lo scampato pericolo. In tutto quel trambusto, Fee non parve accorgersi di nulla e continuò a cantare e danzare. L’autista allora si riprese dallo spavento e mise mano al clacson, lanciando un lungo, esasperato lamento di disprezzo per Port William e tutti i suoi abitanti. A quel punto Fee finalmente si rese conto della situazione. Smise di ballare, e poi, come per un ripensamento, anche di cantare. Squadrò l’autista. Poi squadrò l’autotreno guardandolo dall’alto in basso, almeno per quanto un omino come lui potesse guardare a quel modo qualcosa che lo sovrastava di parecchi metri. Guardò di nuovo l’autista, poi disse: “Toglietemi questo figlio di puttana dalla strada prima che lo butti fuori io a calci”.

 

Un’altra mattina di un bel sabato di fine autunno, approfittai di una breve assenza dei clienti per andarmene da Lathrop a fare un pasto veloce. Alcuni ragazzi avevano cominciato a giocare a baseball nello spiazzo vuoto a fianco della chiesa. Shorty Sowers, il figlio del banchiere, era diretto in chiesa per la lezione di violino con la signora Alexander, la moglie del pastore. Mentre si avvicinava un battitore venne eliminato. Allora Shorty prese il violino per il manico, salì sulla roccia che faceva da base e gridò al lanciatore: “Fammi vedere che cosa sai fare!”.

 

Uscii da Lathrop appena in tempo per assistere al lancio e poi al piccolo tiro a campanile di Shorty che volava sulla terza base. “Dopo di che”, raccontò poi, “la riconobbi dallo schiaffone”.

 

E c’erano anche situazioni non tanto facili da risolvere. Tra tutti, negli ultimi anni della sua vita, il povero vecchio e sgangherato Fee Berlew fu l’unica persona che fui costretto (diciamo così) a buttar fuori dal negozio. Aveva ricevuto dal nipote in visita per Natale una pinta di whiskey, articolo sconsigliabile da lasciare in giro a casa della signora Berlew. Fee si diede da fare per difendere la pinta nel più breve tempo possibile, con il risultato che poco dopo cena si trovò in disaccordo con la signora Berlew. Naturalmente venne in negozio a cercare rifugio e conforto, ma a quel punto si presentò in condizioni pietose. Era ubriaco fradicio, frastornato, mezzo pazzo e traboccante dell’indignazione più stomachevole. Non riuscii a calmarlo, e alla fine neppure a sopportarlo. Così, anche se a malincuore, lo accompagnai fuori dalla porta nella notte fredda.

 

Lui però non se ne andò. Si appoggiò alla finestra, avvicinò la faccia al vetro e cominciò a ingiuriarmi. Mi chiamò “randagio dalla testa cagliata”, “orfano di un mezzo bastardo”, “maledetto ignobile parrucchiere” e altri termini meno gentili. La cosa divertì moltissimo le altre persone che si trovavano con me in negozio, ma io non la trovai per nulla simpatica.

 

Poi, la mattina dopo, per prima cosa vidi Fee arrivare e sporgere con cautela la testa dalla porta, quasi temendo che gliela mozzassi con il rasoio. Durante la notte aveva rag giunto quello stato di sobrietà in cui, tormentato dal dolore e dal rimorso, uno desidera perdere i sensi e forse anche morire. Alla fine alzò su di me i suoi occhietti rossi pieni di lacrime.

 

“Jayber, – disse – potresti perdonare un vecchio figlio di puttana?”.
“Sì” dissi. “Certo che posso. E lo faccio”.

 

E’ stato in una di quelle occasioni, per quanto riesco a ricordare, che ho notato per la prima volta Mattie Chatham – o Mattie Keith, come si chiamava allora.

 

Era un caldo pomeriggio di primavera. Ero in negozio e me ne stavo appoggiato allo stipite della porta a guardare fuori. Mattie camminava mano nella mano con altre due ragazzine, Thelma Settle e Althie Gibbs. Immagino stesse andando a dormire a casa di Thelma o Althie, perché altrimenti sarebbe andata nell’altra direzione. Casa sua stava in basso vicino al fiume, a un miglio e mezzo di cammino per la scorciatoia che i ragazzi prendevano sopra il dirupo.

 

Avevano attraversato la strada per togliersi dalla ressa e stavano parlottando e ridacchiando. A quell’epoca erano ormai “bambine grandi”, consapevoli di esserlo ma ancora incapaci della dignità che sentivano richiesta dalla nuova posizione sociale. Quella mancanza di solennità rendeva il loro riso ancor più divertente. Giocavano a strattonarsi e facevano persino fatica a restare sul marciapiede. Non si resero conto della mia presenza fino a che non giunsero quasi davanti alla porta del negozio, quando alzarono lo sguardo e mi videro: un tipo alto e magro, stempiato e con il doppio dei loro anni, che sorrideva dall’alto della porta. Quella vista tanto incongrua con i pensieri che passavano loro in mente accrebbe ancora di più il divertimento. Mi guardarono, aumentarono il tono e il volume delle risate e corsero via. Ma quel giorno vidi per la prima volta Mattie Keith e divenni consapevole della sua esistenza. Se avessi voluto, guardandola com’era allora, avrei potuto vedere in lei la donna che un giorno sarebbe diventata. O è forse perché ho conosciuto la donna che adesso la vedo tanto chiaramente nelle sue vesti di bambina?

 

Era una ragazzina molto bella, e tanta bellezza mi emozionò. Aveva capelli castani ondulati e tendenti al rosso. La faccia mostrava ancora alcune lentiggini. Ma mi impressionarono soprattutto gli occhi. Erano quasi neri, di una lucentezza liquida. Il breve sguardo ridente che mi aveva lanciato mi fece sentire straordinariamente visibile, come se fossi diventato percettibile nell’oscurità.

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