La copertina del libro di Wendell Berry "Jayber Crow"

La lezione di Flannery O'Connor e quell'odio per chi interpreta i testi

Edoardo Rialti

Raccontare una storia è come prendere una manciata di chicchi da un silos pieno di grano. Le cose da dire sono sempre molte di più di quelle che riesci a raccontare.

Raccontare una storia è come prendere una manciata di chicchi da un silos pieno di grano. Le cose da dire sono sempre molte di più di quelle che riesci a raccontare. E come può testimoniare qualsiasi barbiere, anche molte di più di quelle che è necessario raccontare, e di quelle che la gente è disposta ad ascoltare”.

 

Se c’è una voce, nella narrativa contemporanea, che ha appreso bene la lezione della sua amata Flannery O’Connor – ossia che uno scrittore deve anzitutto trovare e raccontare la propria “regione”, sia essa dietro l’angolo di casa o per misteriosa affinità in qualche epoca e posto lontano, perché solo essere particolari impedisce di essere parziali – è proprio Wendell Berry, contadino del Kentucky, pacifista cristiano non confessionale, poeta, saggista citato anche da Obama, cantore e propugnatore di una “economia della comunità”. Lindau, colmando meritoriamente una grave lacuna, pubblica in italiano le sue opere di narrativa, a partire dal “Jayber Crow”, nella bella traduzione di Vincenzo Perna. Quella della O’Connor è forse l’unica lezione che l’autore sia disposto a concedere, visto come ammonisce eventuali critici: “Chiunque tenti di trovare un ‘testo’ in questo libro sarà perseguito; chiunque tenti di trovarvi un ‘sottotesto’ sarà bandito; chiunque tenti di spiegarlo, interpretarlo, districarlo, analizzarlo, decostruirlo o ‘capirlo’ in qualche altra maniera sarà mandato in esilio su un’isola deserta in compagnia degli altri interpretatori suoi simili”.

 

Si tratta delle memorie di un anziano scapolo, diventato barbiere dopo una crisi quando studiava per diventare pastore protestante – “finché non arrivavo alle lettere di Paolo, riuscivo a immaginare ogni cosa”– che percorrono un cinquantennio di storia americana, vista dalla vetrina del suo negozio e dalle strade e dai campi della cittadina di Port William, con le sue gioie e i suoi dolori, lo splendore dell’ordinario e le sue bassezze: “Eravamo legati l’un l’altro persino dal silenzio. Le persone avevano abitudini e continuavano a mantenerle. Si seminava e si mieteva. Si nutrivano e si sorvegliavano gli animali, che si accoppiavano e figliavano nel periodo stabilito. Si continuava a parlare del tempo e del lavoro. Si conservavano i ricordi, si raccontavano storie, si metteva da parte e si portava in giro ogni fatto curioso. I più vecchi meditavano sui loro ricordi, ponderavano e conversavano. Noi più giovani cominciavamo a capire che conoscevamo cose che altri avevano già conosciuto in precedenza”. Eventi grandi come la guerra o costanti come i raccolti e le piogge ci scorrono davanti con una prosa gentile e poetica come il suo umile protagonista, mai priva di delicato umorismo, o di profonda amarezza per il nuovo culto del progresso industriale e dell’ambizione, o per la sordità ideologica di certi ministri cristiani: “Sembravano provenire da un’Isola Che Non C’è popolata da professionisti della devozione che restavano giovani per sempre. Non andavano a scuola per imparare a capire il luogo in cui si trovavano, e men che meno per conoscerne i piaceri e le pene, o per sapere che cosa bisognava dire in quel luogo. Imparavano a farsi un’opinione altissima di Dio e bassissima delle sue opere, anche se ripetevano che il nostro mondo era stato creato da Lui. Riuscivano a immaginare la chiesa, che è un’organizzazione, ma non il mondo, che è ordine e mistero”. Questo passando dall’infanzia alla vecchiaia, con la sua misteriosa e progressiva inversione di fattori: “Allora, oggi me ne rendo conto, la mia esistenza era solo tempo e quasi niente memoria. Avevo conosciuto presto la morte, che però mi pareva ancora qualcosa che capita soltanto agli altri, e vivevo immerso in un fiume infinito di tempo, che avrebbe continuato a scorrere e tornare lo stesso in eterno. E ora, mentre guardo avvicinarsi la fine, mi rendo conto che la mia vita è quasi tutta memoria e pochissimo tempo”.

 

E nelle bevute all’aperto con gli amici, negli incidenti che falciano la vita dei bambini, nei tic o nelle delicatezze dei vecchi che ormai sono abbastanza saggi da dedicarsi “alle cose insignificanti”, o nelle cene solitarie di chi vive sempre solo, stabile e forte, tanto più struggente perché nutrito di silenzio, viene anche raccontato il silenzioso patto che il protagonista, innamorato di una donna legata a un uomo tanto meschino e infedele, stabilisce con se stesso: “Pensaci bene. Ti proponi di diventare il marito fedele di una donna sposata a un marito infedele?”. “Sì. Ed ecco perché. Se ha un marito infedele, gliene serve uno fedele”. “Una donna sposata che non dovrà mai sapere che tu sei suo marito? Pensaci. E che non sarà mai tua moglie?”. “Sì”. “Hai pensato a come può andare a finire? Sei in grado di farlo?”. “No”. “Sei pronto per questo passo? Pensaci, ora”. “Sì, sono pronto”.

 

Per molti, le posizioni di Berry in materia di economia, politica, società sono una bandiera da sventolare o irridere. Ma spesso si tratta di “interpretatori”, come quelli che scacciava in exergo. La grande arte non dimostra, ma mostra. “Se ami qualcuno, e lo ami abbastanza a lungo, alla fine capisci chi sei”, afferma a un certo punto il piccolo barbiere di Port William. Anche in questo caso, la grande vittoria artistica di Wendell Berry sta nel farci non soltanto guardare con più attenzione quanto già amiamo, la nostra regione – ma anche a farci apprezzare quell’abbastanza a lungo, che comprende tutta una vita, con occhi rinnovati.

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