La minaccia più viva
Uccisi sette terroristi di Hamas, 70 razzi su Israele, che richiama i riservisti. I giovani e l’odio.
Milano. Tre giovani israeliani hanno confessato di aver ucciso un ragazzino palestinese di sedici anni, Mohammed Abu Khdeir – dandogli fuoco, probabilmente ancora cosciente – poche ore dopo che si è saputo che i tre ragazzi ebrei rapiti all’inizio di giugno erano stati uccisi da Hamas. E’ una storia di giovani e di odio, e di un’aria di vendetta che aleggia su Israele e su Gaza da settimane, con i titoli sulla Terza Intifada che riempiono i giornali, proprio quando tutto si sta tentando per evitarla. L’esercito israeliano sta colpendo alcuni target dentro la Striscia di Gaza, ci sono raid notturni e all’indomani le zone vicine alla Striscia si svegliano con l’allarme dei razzi: ne sono caduti settanta soltanto ieri, e Hamas li ha rivendicati. “Escalation seria”, commentano gli esperti: si va avanti così, ogni evento può trasformarsi in un casus belli, come l’uccisione dei sette miliziani di Hamas nella notte tra domenica e lunedì. Tsahal smentisce di aver fatto un raid contro di loro: sono morti per il crollo di un tunnel in cui erano rifugiati, a causa di un’esplosione. Il gruppo terrorista palestinese – al governo assieme ad Abu Mazen – dice che la colpa è dell’esercito israeliano. Intanto si è riunito un altro consiglio di sicurezza del governo per stabilire una strategia contro i razzi, ora che suonano le sirene anche nel centro di Israele, e l’esercito richiama 1.500 riservisti.
Se i paragoni con il passato funzionassero, potremmo dire che le premesse per una Terza Intifada in Israele e nei Territori palestinesi ci sono tutte. I colloqui tra israeliani e palestinesi sono collassati. La piazza araba è in subbuglio: ci sono stati scontri con la polizia, sassaiole, scontri in quelle che solitamente sono le sonnolente vie di Gerusalemme est. Uomini con il volto coperto hanno lanciato sassi contro poliziotti israeliani in assetto antisommossa, gli agenti hanno risposto con i lacrimogeni, c’erano le camionette, le barricate improvvisate. Tutto può accadere, tutto può degenerare: secondo il capo del Mossad Tamir Pardo, il conflitto con i palestinesi resta per Israele la minaccia più viva, più reale perfino della minaccia del nucleare iraniano.
Evitare un’escalation è la priorità. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto che Israele deve rispondere agli eventi con “calma e in maniera responsabile”. La calma gli è costata già un alleato: Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri e leader del partito Yisrael Beiteinu, che ieri ha lasciato con i suoi undici deputati la coalizione di governo, a causa di “differenze” che riguarderebbero proprio la risposta di Netanyahu – troppo moderata – agli eventi. Anche sul versante palestinese, scrive il giornalista israeliano Avi Issacharoff, il ritorno alle violenze di 14 anni fa non è auspicato. Ci sono stati scontri a Gerusalemme est, nel nord d’Israele – dove sindaci arabi hanno fatto appelli alla calma – ma poco è avvenuto in Cisgiordania. Sul sito +972, Larry Derfner, ex opinionista del Jerusalem Post, fa notare come la relativa calma della Cisgiordania in queste ore sia dovuta all’opposizione del rais Abu Mazen allo scoppio di una rivolta: “Il mio popolo vuole la pace”, ha scritto il rais palestinese in un editoriale su Haaretz.
La rivelazione del coinvolgimento di giovani ebrei nell’assassinio del ragazzino palestinese ha scatenato in Israele una reazione d’incredula introspezione. “Non c’è differenza tra sangue e sangue”, è il titolo di un editoriale firmato dal presidente uscente Shimon Peres e dal suo successore Reuven Rivlin: “La scelta è nelle nostre mani: arrendersi alla distruttiva visione del mondo presentata dai razzisti e dagli estremisti, o combatterla in maniera incondizionata; arrendersi al selvaggio e maligno terrorismo islamico o ebraico, o mettergli fine con ogni mezzo”. All’odio non si risponde con l’odio, chiedono molti editorialisti e politici in queste ore, ed è anche questa pressione a trattenere Netanyahu, considerato il più falco tra i falchi, da un’operazione a Gaza. Il costo politico è alto, non solo per la tenuta del governo, ma anche per l’alleanza con Abu Mazen, che secondo l’ex inviato americano in medio oriente Martin Indyk, è ormai stanco e in fin di vita, ma che è da anni l’unico interlocutore per mettere fine alla minaccia più grande per la sopravvivenza di Israele.
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