L'inerzia obamiana ha ridotto il potere internazionale in Siria, Iraq e Territori palestinesi

Paola Peduzzi

Le truppe del regime siriano hanno circondato Aleppo

Le truppe del regime siriano hanno circondato Aleppo, l’area urbana più grande del paese sotto il controllo dei ribelli. Lo showdown è vicino, dicono allarmati i ribelli, “se si perde Aleppo si perde la rivoluzione”, sospirano, mentre l’esercito di Bashar el Assad si prepara all’assedio, pronto a strozzare Aleppo come già ha strozzato – con la fame, con le “barrel-bomb” – molte ex roccaforti dell’opposizione. E attenzione, dicono gli esperti di intelligence: lo Stato islamico, forte della cavalcata in Iraq, sta rimpolpando la sua presenza nel nord della provincia di Aleppo, sul confine con la Turchia, combattendo contro i ribelli. “Se l’offensiva di Damasco contro Aleppo continua, è probabile che lo Stato islamico approfitti degli scontri tra ribelli e regime per espandere la sua area di influenza nel nord e nel nord-ovest della Siria”, scrive in uno dei suoi bollettini dal fronte l’Institute for the Study of War, think tank specializzato in affari militari e di sicurezza fondato da Kimberly Kagan (nuora di Donald Kagan).
Ecco una rappresentazione plastica – e sanguinosa – del vuoto. Il vuoto di strategia, il vuoto di potere, il vuoto che qualcuno poi andrà a riempire, a modo suo. Quando cominciò la guerra in Siria tre anni fa con i ribelli contro Assad, molti esperti dicevano che nel vuoto che si stava creando – i ribelli erano senza sostegno e il regime era invero fragile – si sarebbero infilati elementi destabilizzanti. L’occidente partecipava alla causa dei ribelli ma non forniva aiuto concreto, e così gli squarci di territorio e di controllo si allargavano: Assad corse ai ripari e chiamò gli esperti alleati iraniani e russi. I ribelli si ritrovarono a dover convivere con i nuovi arrivati, estremisti di al Qaida, poi estremisti ex di al Qaida diventati potenza ricchissima del terrorismo moderno (lo Stato islamico) finendo per combattere su due fronti: contro gli estremisti e contro Assad. Il vuoto era stato colmato, non da forze stabilizzanti.

 

In Iraq sta avvenendo la stessa cosa. C’è un vuoto di potere a Baghdad che è andato creandosi nell’indifferenza di tutti. Il presidente Barack Obama ha avuto chiaro fin dall’inizio della sua avventura alla Casa Bianca che non voleva più avere troppo a che fare con l’Iraq. Oggi, costretti dall’avanzata dello Stato islamico a ributtare un occhio da quelle parti, gli americani chiedono un governo di unità nazionale che non può comprendere il premier Nouri al Maliki, il quale però non vuole certo andarsene, avendo pure appena vinto le elezioni. Le trattative sono collassate, sono state rimandate, ora rifissate per domenica, ma intanto i sostenitori di Maliki si organizzano, visto che la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei ha detto che Maliki c’è e Maliki resterà, e Teheran è in grado di ottenere a Baghdad molti più risultati di Washington. Nell’incertezza, mentre dietro le quinte starà sceneggiandosi l’“House of cards” irachena chissà quanto dark, gli Stati Uniti valutano le alternative. Il senatore John McCain potrà anche sembrare un grillo parlante da chiudere in uno sgabuzzino, ma ha ragione quando ricorda che “ancora non c’è una strategia in Iraq”, e sì che Mosul è caduta il 12 giugno scorso, e sì che soltanto un mese fa c’era un sentimento di urgenza che faceva pensare a un intervento immediato per contenere la minaccia dello Stato islamico, con il segretario di stato John Kerry spedito nella regione a farsi maltrattare un po’ da tutti. Un altro vuoto. Che non resta vuoto a lungo, perché i jet siriani ancora ieri hanno colpito obiettivi dello Stato islamico a Raqqa, in Siria.

 

Non c’è una convergenza d’interessi
Anche a Gaza si sta ripetendo lo stesso schema. Israele pensa a un’operazione di terra contro Hamas, ma se lo scontro tra Gerusalemme e il gruppo terrorista palestinese non è certo una novità, questa volta manca quella convergenza internazionale di interessi che in passato ha portato a una mediazione. Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet, ha spiegato che né l’Egitto né gli Stati Uniti, storicamente considerati pacieri nel conflitto israelo-palestinese, oggi hanno il potere – e forse nemmeno la volontà – di imporre un cessate il fuoco. Un vuoto che, sommato a tutti gli altri, non fa che ridurre i margini di manovra internazionali nella regione mediorientale.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi