Due o tre indizi che spiegano come Apple è diventato un brand di lusso
Se è vero che Apple dopo la scomparsa di Steve Jobs non è più riuscita a lanciare prodotti realmente rivoluzionari e che, ha perso alcuni punti di market share a favore dei competitivi marchi cinesi, è vero che l’azienda di Cupertino ha continuato a lavorare al suo interno per affinare quel “Think Different”, da sempre suo mantra nel tech-biz
Milano. Se è vero che Apple dopo la scomparsa di Steve Jobs non è più riuscita a lanciare prodotti realmente rivoluzionari e che, su scala mondiale, abbia perso alcuni punti di market share a favore dei competitivi marchi cinesi, è vero anche che l’azienda di Cupertino ha continuato a lavorare alacremente al suo interno per affinare quel “Think Different” che da sempre è il suo mantra nel tech-biz. Innanzitutto cambiando le persone. Ha iniziato circa un anno fa assumendo l’amministratore delegato di Yves Saint Laurent e nominandolo vicepresidente del gruppo con incarico sui “progetti speciali”. Poi è stata la volta dell’arrivo di Angela Ahrendts, storico e remuneratissimo ceo di Burberry approdato in California da pochi mesi nel ruolo di vicepresident for retail e online store, si occupa cioè della direzione strategica, l’espansione e la gestione operativa degli Apple store fisici e dello store online, ruolo che risultava vacante da qualche anno. Infine la notizia di pochi giorni fa è l’arrivo di Patrick Pruniaux, che è stato vicepresidente di Tag Heuer, uno dei brand di orologi di maggior successo internazionale gravitante nell’orbita del polo del lusso LVMH. L’incarico di Pruniaux non è ancora stato rivelato, ma si ipotizza un suo ruolo chiave nel lancio di iWatch, lo smartwatch di Cupertino che il mercato da tempo sta attendendo.
All’inizio poteva sembrare la solita notizia del valzer di poltrone dei piani alti delle grandi corporation, poltrone occupate da persone scaltre e capaci e in grado di passare senza fare un plissé da un settore all’altro, oggi invece possiamo dire che tre indizi fanno (ben più che) una prova. E’ quindi appurato che l’approccio e il modello di business perseguito da Apple sia proprio quello del lusso e dell’alto di gamma, un comparto che lavora seguendo dinamiche ben precise.
A pensarci bene questa non rappresenta un vera novità: da tempo i prodotti tecnologici digitali hanno preso il posto dell’abbigliamento e sono diventati ciò che un tempo rappresentava la moda, cioè uno strumento per distinguersi, confrontarsi con gli altri, definirsi socialmente, creare tribù e alimentare antagonismi. Apple in particolare, al di là delle innovazioni tecnologiche dei propri prodotti, ha da sempre approcciato, gestito e comunicato se stessa come una casa di moda: i lanci delle nuove creazioni organizzati come delle sfilate, e poi a Cupertino l’estetica e il design sono da sempre considerati elementi al pari della tecnologia.
[**Video_box_2**]Ma questa volta la sfida è ancora più dura: i coreani e i cinesi si sono fatti ancora più competitivi nella produzione dei device innovativi e con una potenza di fuoco a livello distributivo e organizzativo difficilmente raggiungibile. Quindi l’innovazione, il design pulito e la coolness (fate un confronto tra un packaging di un prodotto Microsoft e uno Apple per capire di cosa stiamo parlando) rappresentano solo un punto di partenza. Tim Cook, il ceo di Apple che ha raccolto la pesante eredità di Steve Jobs, ha capito che è necessario lavorare molto su quegli elementi immateriali che permettono un posizionamento ancora più chiaro e distintivo. Seduzione e dimensione del desiderio, da sempre elementi fondanti del lusso, devono ancora di più oggi far parte del Dna del brand, soprattutto in comparti come quello dello smartwatch in cui arriva da follower, visto che Samsung e Sony sono già alla seconda generazione degli orologi intelligenti. In fondo anche nel 2001 lanciò l’iPod quando già esistevano lettori mp3, così pure nel 2007 con l’iPhone nel mercato dei cellulari allora dominato da Nokia.
Anche in questo caso, il prodotto non è tutto, e il grosso del lavoro andrà sicuramente fatto su un’altra serie di elementi, dalla distribuzione (di cui infatti si occupa l’ex ad di Burberry), al prezzo fino a tutti quei particolari che permettano di accendere “quell’esigenza che comincia dove la necessità finisce”, come amava definire il lusso Coco Chanel.
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