I disperati del mezzo oriente
Gli intellettuali illuminati d’Israele vogliono sperare, predicano contro la disperazione dei governi e degli stati maggiori. Ma i veri disperati sono loro, cui sfugge tra le mani il sogno utopico di ragazzi
David Grossman e gli altri come lui, insomma loro, sono persone da cui quelli come noi, insomma noi, non possono o non possiamo prescindere. Si fa a meno volentieri degli ipocriti, dei cretini e dei senza talento, ma non è il loro caso. Quando dicono che la speranza deve vincerla sulla disperazione, sessantasei anni dopo la fondazione di Israele e quarantasette anni dopo la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, dicono qualcosa che non è fondato, almeno per come la pensiamo noi e forse la maggioranza degli ebrei israeliani, ma che è sentito in modo struggente e delicato e insopprimibile da minoranze che si sentono prigioniere di un’ideologia disperata di guerra e vorrebbero liberarsene per vivere la vita loro e dei loro figli e nipoti e dei figli e nipoti dei loro nemici e vicini, gli arabi palestinesi. Bisogna parlarne.
Siamo alle solite: rapimenti, traumi della nazione, vendette tribali subito punite dai giusti in casa loro, vendette religiose eternamente impunite che si fanno regime, campagne strategiche per sradicare le strutture del terrore in territori restituiti da Sharon ai nemici, la paura dal cielo su Gaza e Tel Aviv, la sproporzione di forze per ora a favore di Tsahal, per il domani chissà che apocalittici destini prepara la storia del mondo, tra Califfi, Ayatollah e despoti della umma islamica; e la diplomazia e la campagna per la pace imprigionate nelle vie tortuose dell’Onu, nelle stanze vuote della Casa Bianca di Obama, nelle ributtanti alleanze pro Hamas, sotto il segno del boicottaggio, della fine dell’embargo omicida, del genocidio imputato alle vittime, e sempre tutto avvolto dalla retorica dei muri di difesa come confini di morte, dei territori colpevomente occupati da mezzo secolo dopo una guerra vinta e senza poter mai vincere la pace e la sicurezza esistenziale per lo stato degli ebrei o per qualunque altra entità capace di contenere il messianismo laico dei sionisti e una nazione araba pacificata con sé stessa e con la civiltà occidentale. Siamo alle solite.
[**Video_box_2**]La speranza è virtù teologale e postura naturale dell’animo, non si può irridere la sua proclamazione come scudo contro la disperazione. Gli scrittori che diremo illuminati per capirci, non perché sia oscurantista la disponibilità a difendersi con le unghie e con i denti della maggioranza che sente fioca la luce della speranza, ma che non è fatta di suicidi virgiliani “in odio alla luce”, sono i veri disperati dell’utopia. Con Grossman e sopra tutto con il grandissimo Amos Oz, fondatore di Peace Now e autore dei più bei libri, romanzi e racconti dell’ultimo mezzo secolo, hanno vissuto, vissuto davvero e non in metafora, dentro un sogno: hanno visto, come nella Storia d’amore e di tenebra, i pionieri oltre l’orizzonte, quei “ragazzi robusti, dal cuore caldo, ma introversi e meditabondi” e quelle “ragazze prosperose, spontanee, equilibrate, come se sapessero tutto e capissero tutto, come se conoscessero a menadito anche te e i tuoi imbarazzi”. E hanno “sognato segretamente che un giorno o l’altro mi portassero via con loro” con loro che erano “vestiti di terra e di armi”, hanno sognato “che trasformassero anche me in un popolo combattente, che anche la mia vita diventasse un canto nuovo, una vita pura, onesta e semplice come un bicchiere d’acqua fresca in una giornata afosa”.
La vita non canta. O meglio non si limita a cantare. Il pentagramma della speranza è naturalmente e storicamente limitato, e a volte si deve sperare contro ogni speranza, e magari disperare del presente per preparare un qualsiasi futuro di inni alla gioia, alla pace, alla fratellanza universale. Non so se dipenda dal peccato originale o da altro racconto, ma so che lo sappiamo e che lo sanno anche gli scrittori illuminati. E non capisco perché, se non per la disperata malinconia di vivere indotta in loro dall’orrore della guerra, condannino all’oscurità dell’ignavia, dell’attivismo senza senno, dell’antropologia negativa e del radicalismo di morte la parte di nazione, di cui ogni volta diventa simbolo un Netanyahu di turno, che si aggrappa in fondo al vecchio sogno dei pionieri per rinsaldare le radici di uno status quo che è la spem contro la quale soltanto è possibile sperare. E’ fin troppo ovvio, Oslo non cambia il quadro, Abu Mazen non cambia il paesaggio, che le cose in Israele e Palestina stanno come stanno per un tempo infragenerazionale indefinibile, e che bisogna salvare le condizioni elementari di sopravvivenza di una comunità minacciata non dai propri demòni, o dal governo o dallo stato maggiore come nemici interni della quiete domestica e del futuro immaginabile, ma dalla violenta e sterminatrice volontà di riscatto del nemico nazionale e teologico. Questa volontà araba o islamista non va misurata moralisticamente, con il risultato che alla fine la si nega e se ne predica la trasformabilità, la riformabilità a mezzo di qualche dichiarazione innocua: essa è lì, significa quel che significa, e solo l’amore per il cuore caldo dei tuoi ragazzi, anche in te scrittore che di quei ragazzi uno lo hai perso in guerra, ed era il tuo, consentirà di prolungare oltre l’ostacolo il segno di vita e di speranza di quel che passa la storia e la metastoria del popolo ebraico e dei suoi vicini e nemici sparsi nel mondo e addensati ai suoi confini. Ecco, se questa è disperazione, siamo tutti disperati e non possiamo uscire dalla tragedia né deciderne l’uscita con un colpo di buona creanza o di buone intenzioni.
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