Bolle e balle do Brasil
Lanfranco Pace, che non sempre c’ha azzeccato, riscrive il suo Mundial e rivendica: sono un polpo Paul che va dove mi mandano le scosse che io stesso mi infliggo.
Ho cominciato a seguire la Nazionale che ancora giocavano Chiappella, Frignani e Pandolfini e Muccinelli e Ricagni. Le partite le raccontava Niccolò Carosio, la voce nasale, il tono mai survoltato evocava certezze littorie. Parlava di Azzurri che non avrebbero tardato a prendere l’iniziativa benché contro vento, di tiri sotto la traversa che erano solo giustizia, del pallone che riposava beffardo in fondo alla rete. Piansi per l’eliminazione del 1954. E per quella del 1962. Sono un ultrà azzurro.
Da ultrà dico che ho vissuto un Mondiale di merda, che mi ci sono incazzato come non mi era mai successo, che tutto è andato ad arruffarmi il pelo. Me lo ricorderò così, nemmeno la demenza senile potrà farci nulla. Prima ancora che cominciasse, mi sono dovuto sciroppare fastidiosi commenti in stile Expo prossimo venturo, pagine di sociale che fanno sempre molto chic, su lavori non terminati in tempo, sull’insicurezza che regna sovrana, sulla rivolta che cresce a macchia d’olio, sulle favelas che chiedono case scuole e ospedali, non stadi. Non era vero niente, tutto era nella normalità di un paese che galoppa, con duecento milioni di abitanti e squilibri da correggere e dove per protestare si aspetta giustamente il momento di massima visibilità, di massimo impatto comunicativo, di massimo ricatto. Gli stadi dunque erano finiti e bellissimi, i collegamenti funzionanti, le favelas attrezzate per il tifo e si vedevano in giro solo grandi sorrisi.
Con il 7 a 1 della Germania al Brasile, si è consumato il superlativo in tutte le lingue del mondo e tornato rapidamente alla lacrima umanitaria, all’empatia sempre sospetta con diseredati cui hanno rotto il giocattolo, il rimbrotto a un popolo che per aver troppo scommesso sul calcio nella sua personalissima scalata al paradiso si ritroverebbe ora all’inferno. Poi vai a vedere e sì, c’è chi piange, molti. Ma c’è anche chi sorride, altrettanti. Chi parla di nuovo Maracanazo e chi non sa più nemmeno cosa sia il vecchio, sessantaquattro anni sono tante vite e i bambini adorano il mulatto della sigla che sul mio già precario equilibrio agisce più della frutta esotica sul capo di Carmen Miranda. Ho visto il Mondiale inquinato dai selfie, in Sudafrica la moda non era ancora esplosa, non s’era fatto in tempo. Ora appena le telecamere frugano gli spalti, non c’è momento topico, non c’è epifania calcistica che tenga: al solo vedersi proiettati sul maxi schermo, tifose e tifosi smettono di essere in apprensione, agitano le braccia e lanciano un radioso saluto al mondo. Davvero nulla ci unisce più della condivisione della vanità. Sospinta dalla necessità di inseguire e descrivere l’immagine e nella ricerca di una propria autonoma autorevolezza, la parola si è dilatata, sconfina nell’iperbole fino alla perdita di senso: un dribbling d’oratorio riuscito diventa un numero, un normalissimo calciatore un campione che potrebbe infiammare il mercato, una rete di tre quattro passaggi il segno dell’esistenza di un gruppo, una vittoria un passo verso la storia.
Le prime partite sono piacevoli ma generano non pochi equivoci e malintesi. Cile e Colombia e Messico seducono ma si vede che sono teneri, devono ancora mangiare pane. Il Brasile viene subito criticato ma ci si dimentica che di fronte ha la Croazia, quanto c’è di meglio della vecchia scuola balcanica. L’Olanda fa un ingresso fracassante, Van Persie realizza un gol che riesce una volta nella vita, infatti non ne farà altri così. La Spagna è trafitta. Il Portogallo è tritato dalla Germania. Eppure si vede a occhio nudo che spagnoli e lusitani, reduci da una stagione infernale, non stanno in piedi e non c’è preparatore o fisioterapista che possa rimetterli in sesto: soffrono di intossicazione da eccesso, vorrebbero staccare la spina e andare al mare, solo l’orgoglio li tiene in campo. Eppure i vincitori vengono osannati come titani, loro che sono sussiegosi anche quando perdono. Si vedrà per il seguito che l’Olanda è squadra onesta, con qualche elemento di classe e nulla di più, il loro divo, Robben, ogni volta che c’è da fare la differenza si scioglie. Van Gaal che conosce i suoi polli contraddice decenni di calcio totale e rispolvera catenaccio e contropiede. Viene eletto fine stratega e addirittura dodicesimo uomo in campo quando con la magia del cambio di portiere riesce a destabilizzare la Costa Rica e batterla ai rigori ai quarti. I superlativi anche qui si sprecano. Se non che nella partita successiva, la semifinale contro l’Argentina, è proprio lui a programmare male i rigori. Il primo, psicologicamente più delicato, lo fa calciare da un difensore, Vlaar, alto più di un metro e 90, piedi non finissimi ma grande cuore e polmoni spremuti con successo in due ore di splendida marcatura a Messi. Il giocatore dell’Aston Villa è stanco, frastornato e cicca. Alcuni dei miei si sono rifiutati di calciare, dirà il ct dell’Olanda, all’anima dello stratega.
Quando scendono in campo i nostri, sono di umore medio. Ma alla prima, mi scatta l’entusiasmo, percepisco forza tranquilla, giocano bene, la palla gira che è un piacere, mostrano gambe e cervello, gli albionici arrancano fino alla resa. La tradizione vorrebbe che si cominci in sordina ma nel 1978 esordimmo con il botto, vincemmo contro la Francia di Platini, non proprio l’Inghilterra di Hodgson. Bettega e Paolo Rossi duettavano come un’ira di Dio, fu un gran bel vedere, probabilmente il migliore gioco di sempre degli Azzurri che alla fine arrivarono quarti. Ci possiamo stare, mi dico.
Alla seconda, mi si rientrano le spalle, sto come in un buco. Rivivo i fantasmi di quando si puntava allo zero a zero o si difendeva lo svantaggio minimo tenendo d’occhio la differenza reti perché ci consideravamo furbi. Invece andava che si soffriva come bestie fino all’ultimo minuto e rimediavamo pure magre pazzesche contro il terzo mondo calcistico. Contro la Costa Rica le gambe sono improvvisamente mosce, l’occhio ha l’astuzia del piccione, Prandelli si perde in calcoli che non dovrebbe fare, la pavidità comincia a minare il collettivo. Sarà pure una squadra giovane e organizzata questa Costa Rica ma è pur sempre a cavallo dei mondi calcistici, sviluppato e no, il capitano, detto la Donnola, gioca in Inghilterra, nel Fulham, squadra di medio-bassa classifica, gli altri portano nomi da Nobel della Letteratura, Borges, Bolaños, Miller. L’Italia dai lombi blu passa la metà campo solo un paio di volte, si fa fischiare una ventina di fuori gioco: fa un solo tiro in porta, per giunta goffo.
Alla vigilia della terza, si respira ottimismo istituzionale. Due risultati su tre sono a nostro favore e poi non si sa se il cannibale sarà in campo e senza di lui l’Uruguay è una squadretta. Ovviamente Suárez ci sarà, segnerà un difensore, Godín, che stacca in elevazione come nessuno al mondo e usa la testa come terzo piede. E’ notte fonda. E mi risento come nel 1962, dopo quel terribile 2 giugno a Santiago quando i cileni ce le suonarono di dritto e di rovescio. Allora piansi, ora solo la dignità dell’età mi trattiene dal rotolarmi per terra.
Non perché si sia perso. La prima cosa che ti insegnano da ragazzino, a legnate se occorre, è che perdere ci sta e saper perdere è fondamentale. E’ che abbiamo perso senza capirci nulla, senza nemmeno sapere quanto valiamo davvero. Parte della cavalleria è rimasta nelle scuderie, parte è stata lasciata a casa, alcuni giocatori convocati per la battaglia non erano pronti, altri manifestamente bolliti e inscatolati. Prandelli non è migliorato di un acca nella lettura delle partite, ha la filosofia dell’esserci, dell’onesto partecipare, agli Europei del 2012 disse che era un successo il semplice fatto di essere arrivato in finale, dove prendemmo quattro sberle dagli spagnoli, la sconfitta più umiliante a quello stadio di una grande competizione dal 1970. Gli stessi che stanno mettendo alla berlina Felipe Scolari, difendono questo italiano detto probo perché si è dimesso subito e senza nulla pretendere. E’ uno dei portati del renzismo e della variante per columnist, il severgninismo, la figura del benemerito a prescindere.
Tutto quello che si è visto dopo mi conforta nell’idea che non c’è un dominatore assoluto, il gioco si è livellato. Anche la Germania definita macchina perfetta s’è salvata in extremis dal Ghana, ha sculato contro gli Stati Uniti, subìto per lunghi tratti contro l’Algeria e fatto il minimo contro la Francia. Insomma non c’erano tutte queste differenze tra le casate di antico lignaggio, avremmo dovuto avere piani di riserva e uomini di ricambio per far passar la nottata, ma ci sarebbe voluto un ct con grande esperienza internazionale e avvezzo a tornei di questo tipo, non un ex mediano di complemento. E magari qualche sempreverde di quelli che non mollano mai e cercano di buttarla dentro pure a 40 anni e appoggiandosi a una stampella. Avremmo fatto un pezzo di strada in più, non so quanta. Ma a dirla tutta chi se ne frega del senno di poi, del fare e disfare formazioni, esercizio accademico del perdente. A volte è meglio non rimuginare, non rivangare, accontentarsi di essere solo cornuti che cornuti e mazziati.
Per me dunque il Mondiale 2014 è durato dieci giorni, diciannove ore e trenta minuti. Essendo Campionato del mondo di calcio per squadre nazionali maggiori maschili, se non c’è lei, la Nazionale maggiore, non ci sono nemmeno io. E dovrebbe non esserci nessuno di noi italiani. Dovrebbe. Se non circolasse una variante particolarmente perniciosa di cretino che crede nell’internazionalismo calcistico, figlio dell’altro. E tifa per chi non gli spetta, in genere per paesi del terzo mondo. Al Mondiale del 1966, non ricordo più se l’Unità o Paese Sera titolò occhio alla Corea del nord, forzatura kominternista diffusa e radicata se pure gli operai di Middlesbrough colpiti da tanta impresa scortarono il sergente Pak Doo-Ik e i suoi compagni fino a Liverpool per l’incontro successivo. Nel 1970, per la finale Brasile-Italia, mi trovai casa tappezzata da striscioni verde-oro e cartelli inneggianti al nemico e pensare che m’ero scapicollato da Bologna apposta per essere lì in tempo: si sfiorò la rissa. Non sono solo fastidiosi, è che portano pure iella.
Dalle 19 e 40 del 24 giugno ho continuato a guardare calcio perché mi piace ma percorrendo tutto “d’un derrière distrait”. Senza sofferenza il calcio è poca cosa. Da ragazzino guardavo con ammirazione gesti tecnici a me preclusi da un certo precoce inquartamento ma quello che non potevo dare in scatto e dribbling lo davo in coraggio al limite dell’incoscienza. Andavo sotto chiunque: in una partitella sulla spiaggia incocciai un brianzolo che aveva gambe a massello e giocava pure in Promozione. Ancora oggi se mi tocco quella parte di tibia e perone sento una piccola fitta: ne vado molto fiero.
E’ come il biglietto d’ingresso al mercatino delle fantasie. In un mondo in cui ci si organizza da soli il palinsesto televisivo, si costruiscono library on demand, si fanno partite virtuali alla PlayStation, non si può non cogliere il sottile, esclusivo piacere di immaginare la partita che vuoi, decidere chi sono i buoni e chi i cattivi e chi far vincere, regista di un film di cui essere assoluto dominus e puoi scegliere attori e trama. Non faccio pronostici, quelli li fanno gli algoritmi della Goldman Sachs e ci azzeccano molto. Io faccio sogni ad occhi aperti: sono un polpo Paul che va dove mi mandano le scariche elettriche che io stesso mi infliggo.
Volevo fortemente la vittoria del Brasile, lo vedevo giocare con intelligenza catenaccio e contropiede, l’arma del più debole a noi molto nota. Lo vedevo più arroccato di Argentina e Olanda nell’altra semifinale, con qualche centrocampista in più e qualche attaccante in meno: i quattro della difesa, poi un pack da sei Paulinho, Luiz Gustavo, Hernanes, Ramires, Hulk e Willian, coperti, bassi, stretti, novanta minuti nella ridotta, fare ogni tanto qualche sortita per tenerli in allerta e poi colpirli all’ultimo minuto con un colpo di stinco, come le vere grandi canaglie si augurano venga risolto un derby.
Che soddisfazione che sarebbe stata. Invece sono andati teneramente e scioccamente alla guerra perché loro sono il Brasile, frecce contro mitraglia, sono finiti stinnicchiati secchi. Crollo emotivo, confusione mentale evidente. Ne ho visti altri anche più dolorosi. Il Milan in finale di Champions League a Istanbul contro il Liverpool di Rafa Benítez, 3 a 0 alla fine del primo tempo, 3 a 3 e successiva sconfitta ai calci di rigore: Mourinho ancora dà di gomito ogni volta che parla di questa contro performance di Ancelotti, unica nella storia recente della competizione. Ancora il Milan, questa volta contro il Deportivo: vince a San Siro, ha la qualificazione alla finale in tasca, a La Coruña prende quattro gol in venti minuti: né Carlo Ancelotti né i giocatori seppero mai spiegare cosa fosse successo.
Quando si è rimasti in quattro a contendersi il titolo, le partite diventano chiuse, noiose, si bloccano, la paura di perdere prevale sempre sulla voglia di vincere: un 7 a 1 in semifinale non si era mai visto, va considerato evento unico e irripetibile, un evento irrazionale che non si può spiegare, accade e basta. Ma giusto per mitigare lo zelo cortigiano di quelli che si sono subito messi a studiare il tedesco, ricordo che non più tardi di aprile il Bayern di Monaco, ossatura e ispiratore del gioco di questa Germania, è stato letteralmente schiantato a casa sua dal Real Madrid.
Dovrà vedersela con l’Argentina, l’idea di farle sette gol e neppure due se la può anche togliere dalla testa. Il gioco dell’Argentina non ha mai incantato, nemmeno quando c’era Maradona, la più bella fu davvero quella corale governata dietro da Daniel Passarella e trascinata da Mario Kempes al titolo nel 1978. Ma sanno sopportare la sofferenza, cosa che nella loro gioia di vivere i brasiliani hanno rimosso. Zabaleta con il cotone che spunta dalle narici sanguinanti e Biglia con il braccio lussato e fasciato che si battono fino all’ultimo secondo e corrono ad abbracciare il loro portiere è il tratto caratteriale di un popolo.
Che non mollerà. Non mollerà Messi: se vuole entrare nella storia deve farlo ora, nella storia si entra solo con la propria Nazionale. E fra quattro anni in Russia rischia di essere l’ombra del calciatore che è. Avrà trent’anni, la sua morfologia non gli permette a quella età di conservare intatta l’esplosività del movimento e dello spostamento delle gambe. Potrebbe avere lo stesso problema del tennista Michael Chang, che da ragazzo mulinava gambe e prendeva di tutto da fondo campo. Ma da uomo correva sfiatato come un tappo.
E se non ci riesce nemmeno Messi a fermare l’Alemania, pazienza vorrà dire che è l’anno suo. Ci affiancherà nell’albo d’oro e un po’ dispiace perché noi li abbiamo sempre suonati. Non per questo le si deve dichiarare guerra: ma all’idea di calcio che propugna e propaga, sì.
Il calcio etico è figlio del rigore finanziario e un’invasione di campo dell’etica protestante. Questa storia del codice etico in campo e fuori è semplicemente ridicola. I più grandi calciatori sono stati maledetti e nessuno si è mai sognato di far loro la morale. Prandelli che ha scritto un codicino se l’è dovuto rimangiare in silenzio e di corsa nel suo stesso interesse. E non è affatto etico lamentarsi per l’espulsione di Marchisio e il morso di Suárez a Chiellini nella partita contro l’Uruguay.
Quest’altra storia dei bilanci in ordine e dei conti in regola delle società calcistiche è fasulla: il bell’ordine tedesco sa di cooperative, cogestione, aiuti federali e delle singole regioni. Il calcio italiano ha anzitutto bisogno di accedere alla proprietà degli stadi, primo passo verso la trasformazione dei club in vere imprese capitalistiche.
E non mi piace la deriva giovanilistica nel calcio, uno come Pirlo lo terrei fino a quando non avesse la barba bianca: come Scalfari incuterebbe il timore della saggezza. Non mi piaceva il calcio tedesco quando era fisico, irruente e banale e di Germanie ce n’erano due. Ora ce n’è una sola, ben salda al centro dell’Europa e con vocazione all’egemonia in tutti i campi. E a me viene qualche brivido.
Il Foglio sportivo - in corpore sano