Quando i giudici diventano editorialisti. Il caso Romeo
“Metodo”. “Sistema”. “Sodalizio”. “Cupola”. “Condotta”. “Legame”. “Lobby”. “Reticolo”. “Rapporti”. Avete presente la storia di Alfredo Romeo? Ok, seguite il filo.
Roma. “Metodo”. “Sistema”. “Sodalizio”. “Cupola”. “Condotta”. “Legame”. “Lobby”. “Reticolo”. “Rapporti”. Avete presente la storia di Alfredo Romeo? Ok, seguite il filo.
Quando un redattore riceve nella sua casella di posta elettronica un articolo di cronaca giudiziaria capisce subito da alcuni dettagli se quell’articolo contiene una notizia documentata, approfondita, studiata, verificata e dunque attendibile, o se contiene solo e semplicemente inutile fuffa. Un articolo con una buona notizia, di solito, viene costruito senza giocare troppo con le parole e viene presentato andando subito al nocciolo della questione. Più sono le notizie e meno sono i barocchismi. Più sono i barocchismi e meno sono le notizie. Da un certo punto di vista il criterio utilizzato per decodificare la qualità di un articolo di cronaca giudiziaria non è diverso da quello che andrebbe utilizzato per decodificare la qualità di un’ordinanza di custodia cautelare. L’approccio è lo stesso. Più sono le notizie di reato e meno sono i barocchismi. Più sono i barocchismi e meno sono le notizie di reato. Non ci si sbaglia quasi mai: è una regola infallibile per capire quando un magistrato o soprattutto un giudice costruisce il suo impianto sulla base di alcune prove schiaccianti o quando un magistrato o soprattutto un giudice costruisce il suo impianto sulla base di un teorema fragile. E’ una formula perfetta: se le prove sono clamorose, documentate, approfondite, studiate, verificate e dunque attendibili il magistrato andrà subito alla ciccia e non avrà difficoltà a dimostrare la condotta illecita.
Viceversa se si insegue un teorema e non si hanno a disposizione prove schiaccianti, documentate, approfondite e verificate si sarà più inclini a segnalare i fenomeni più che i reati e ci si comporterà esattamente come quei giornalisti che devono consegnare al redattore un articolo con una tesi precisa e che quell’articolo non riescono a condirlo in nessun modo con una serie di fatti documentati ma solo con lunghi pipponi ideologici. Da questo punto di vista, il caso Alfredo Romeo è quasi un caso di scuola e chiunque abbia avuto la possibilità di leggere l’ordinanza di custodia cautelare con cui il 16 dicembre del 2008 il gip di Napoli ha spedito in galera per 79 giorni l’imprenditore napoletano non può non essersi accorto che in quelle 583 pagine erano contenuti molti dettagli che aiutavano a capire che l’inchiesta che tutti i passacarte delle procure consideravano molto solida era tutto tranne che granitica. Dettagli che insomma aiutavano a capire che un’ordinanza costretta ad aggrapparsi ad alcune parole come “Metodo”, “Sistema”, “Sodalizio”, “Cupola”, “Condotta”, “Legame”, “Lobby”, “Reticolo”, “Rapporti” è quasi sempre un’ordinanza che nasconde un impianto debole. In cui il magistrato, non riuscendo a dimostrare ciò che vorrebbe dimostrare, sceglie, strizzando l’occhiolino al giudice e ovviamente anche al pubblico da casa, di aggrapparsi ad alcune espressioni evocative per convincere tutti che anche se il reato non è del tutto evidente è invece evidente – e che fa, guagliò, non le vedi anche tu? – che dietro quell’atteggiamento descritto non può che nascondersi un reato. L’evoluzione in chiave moderna dello stile contenuto all’interno delle ordinanze di custodia cautelare ha raggiunto ormai un livello tale che – potenza del processo mediatico – non è raro imbattersi in magistrati che costruiscono le proprie ordinanze con molti aggettivi, molti attributi, molti commenti, persino alcune battute, quasi come se fossero alle prese non con un severo ordine di arresto ma con un romanzo o, peggio, un articolo di giornale (forse anche per facilitare il compito di quei cronisti abituati ad utilizzare i giornali come se fossero delle buche delle lettere). L’indagato diventa così un “corruttore abituale” che vivendo dentro un “grande sodalizio” usa “con egoismo” il suo “sistema criminale” come fosse una “lobby” attraverso la quale “promuovere” a vantaggio dei suoi “legami” un “comitato di affari” di cui si descrivono le forme ma di cui spesso non si riesce a fotografare con esattezza un reato. “Un sistema, invero, di estrema semplicità, anche se vasto e articolato, in ragione degli enormi interessi economici coinvolti, in cui egli ricopre il ruolo di scrittore, sceneggiatore, regista, attore protagonista e fruitore finale”.
Il passaggio qui citato fa parte dell’ordinanza di custodia cautelare a seguito della quale Alfredo Romeo – assolto giovedì dalla Cassazione con formula piena – è stato spedito in carcere per 79 giorni. Si potrebbe a lungo ironizzare sul fatto che i giudici entrarono a tal punto nella parte dei narratori da scegliere non un carattere neutro per scrivere l’ordinanza ma un carattere accattivante e spiritoso come il comic sans. Si potrebbe a lungo ironizzare anche sul fatto che, piccolo dettaglio, i giudici accusavano l’imputato di aver truccato un appalto che in realtà non era stato né assegnato né indetto. Si potrebbe a lungo ironizzare, ancora, sul fatto che il sistema criminale descritto nella forma di associazione a delinquere era accompagnato, all’interno dell’ordinanza, più da aggettivi che da notizie di reato. Si potrebbe ironizzare, infine, sul fatto che il circo mediatico-giudiziario non soltanto ha trasformato i giornalisti in magistrati ma ha trasformato i magistrati in editorialisti. Ma riandando a spulciare le cronache di quei giorni e ricordandosi che in quelle ore il circo mediatico giudiziario travolse anche un assessore napoletano (Giorgio Nugnes) che si ritrovò condannato ancora prima di essere giudicato, e che giusto in quei giorni scelse drammaticamente di suicidarsi, non viene granché voglia di ironizzare. Viene soltanto voglia di sperare che qualcuno un giorno si accorga che il caso Romeo è un caso di scuola che merita qualcosa di più di un piccolo e anonimo trafiletto sul giornale.
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