Aridatece gli addominali
Roma, altro pugno nello stomaco: la palestrona nata 50 anni fa sotto i pini di Villa Borghese è fallita. Memorie di un rito che coinvolgeva notai, avvocati e soubrette.
La borghesia romana è in subbuglio. La borghesia romana non ci sta. Si preparano querele, si fanno petizioni, si mette mano al portafoglio. Il problema-monnezza? La metro C fantasmatica? Il Pigneto drogato? L’assessore alla Cultura vacante? Il comune smandrappato? No: la borghesia rivuole la sua palestra.
Protestavano, e alcuni anche piangevano, venerdì scorso, a decine, con la loro sacca verde e bianca, i colori sociali del Roman Sport Center, palestrona sotterranea sotto i pini di Villa Borghese: volevano farsi venti vasche, hanno trovato i sigilli. Fallito, il Roman Sport Center, per i romani “la Roman”, cinquemila soci, novantatré dipendenti, la più alta concentrazione di notai avvocati commercialisti commercianti, un Racquet Club matriciano, con aggiunta di soubrette e sottosegretari. Ha chiuso, da un giorno all’altro, forse per sempre. Fallita: con procedimento numero 353/2014, emesso dal tribunale ordinario di Roma, del 7 maggio, richiesto dalla procura della Repubblica. Fallita, e di nascosto, pare, mentre i soci commercialisti notai e soubrette continuavano i loro addominali e dorsali sulle macchine bianche e verdi; alla cassa si continuava a emettere fattura, invece, e a timbrare abbonamenti, fino ai primi di luglio.
La borghesia romana non ci sta, la borghesia romana scende in piazza. C’è chi lancia una petizione online al sindaco; chi propone class action; chi, come il giornalista-senatore-socio della Roman Augusto Minzolini, propone una compagnia dei patrioti tipo Alitalia (i colori sono gli stessi) per rilevare la palestra e farla risorgere. L’avvocato Massimo Lauro, con studio in via Ludovisi, offre il patrocinio gratuito per chi vorrà denunziare per truffa “la Roman” e la sua azionista unica, signora Francesconi Rosetta. Il contesto: rione Ludovisi, sorto su sventramenti di fine Ottocento, in cui anche Papa Leone XIII aveva messo soldi suoi, molto vituperato da Emile Zola nel suo “Roma”; nel palazzo di Lauro, due notai, ambasciata di Cipro, la società cinematografica di Benigni. Targhe ottonate, posacenere pure d’ottone, con sabbia. Ascensore con panchetta di velluto.
Obelisco di porfido sulla scrivania. “Lo faccio per mio figlio, per una questione di principio” dice al Foglio Lauro, che ha preso parte a importanti processi, dalla Banda della Magliana a via Poma. “Sa, ci vedevamo lì a pranzo, una corsetta, un po’ di esercizi, era l’unico momento per stare insieme”. Il figlio aveva appena rinnovato un abbonamento triennale per 1.600 euro, il 6 giugno, a palestra già fallita, dice Lauro, interrotto continuamente dalle telefonate. Nell’ordine, chiamano per aderire alla denuncia truffati eccellenti: il corrispondente di un’agenzia di stampa spagnola; una professoressa universitaria giapponese; un signore che forse “ce marcia”: vorrebbe far causa anche lui alla palestra, spiega che è socio vitalizio dal 1972, aveva pagato un milione di lire all’epoca. L’avvocato Lauro pazientemente gli spiega che lui si occuperà solo del penale, e che forse in quarantadue anni la cifra è anche stata ammortizzata. (Anche l’avvocato Lauro era socio vitalizio, ha pagato 8 milioni di lire a inizio anni Novanta).
Oltre alle telefonate giungono lettere. Una è appena arrivata, in carta Pineider giallina, con un indirizzo prestigioso dei dintorni stampato a rilievo; “è di una signora. Le lasciano giù al portiere” dice Lauro, “dentro ci sono le ricevute dei pagamenti, le tesserine, non sa quante ne arrivano”. Lauro non è solo: lui ha ricevuto cento adesioni, ma “un’altra mia collega ha dietro di sé 40 avvocati, tutti andavano in palestra a ora di pranzo. Tutti pronti a denunciare”.
Dallo studio Lauro alla Roman ci sono poche centinaia di metri, basta salire su per via Veneto, tra americani delusi da una Dolce Vita mai esistita, negozi di cravatte costosi e orridi, l’Harry’s Bar che non c’entra nulla con quello veneziano, e il Café de Paris più giù sequestrato alla camorra, chiuso; ha chiuso anche il negozietto che una procace e geniale imprenditrice non femminista aveva aperto negli anni Novanta, di lucidatura scarpe. Lei si metteva in ginocchio a lucidare, molto professionale (tanti clienti, e succursale anche all’aeroporto di Fiumicino).
Sotto Villa Borghese, per arrivare alla Roman, si scende in una specie di astronave dalle architetture garagistico-brasiliane di Luigi Moretti, quello del Watergate Hotel di Washington ma anche di tanti bei palazzi fascisti a Roma, tra cui una stupenda casa del Balilla a Trastevere, e della villa Saracena di Santa Marinella, appartenuta a una principessa Pignatelli-Cortez poi testimonial della schiuma Camay. Cunicoli in cemento armato portano alla fermata della metro Spagna, a un parcheggio da duemila posti, a un supermercato, a una discoteca, e poi alla Roman (una specie di astronave incistata nella terra di Villa Borghese, questo complesso “Saba”, nome della società dei parcheggi che ha in concessione dal comune l’intero sito sotterraneo, con vite pullulanti fuori orario: la Roman, aperta dalle 8 alle 22, poi il supermercato, poi un’edicola, poi questa discoteca per una Roma-bene minorile, l’Art-Café; poi gabinetti molto amati da rumeni e bulgari, il tutto sotto le volte di cemento armato di Moretti, a proteggere questa umanità pinciana post nucleare).
Al supermercato Carrefour, fino a qualche anno fa Gs, prima della calata francese sulla grande distribuzione romana, si discute animatamente della Roman. Mentre americani vestiti da spiaggia comprano prodotti solari, e Jennifer Lopez canta nelle casse, una dipendente della Roman scandisce al cronista: “Deve mettere in rilievo il lato so-cia-le e so-cio-lo-gi-co”. Giustamente: da una settimana non ha più il lavoro. Come altre novantadue famiglie. E poi “basta con questa storia dei Vip, qui si veniva soprattutto perché era un punto di ritrovo, un polmone verde nel centro di Roma” (la storia, sulle cronache locali, prende le prime pagine). Di Vip, in effetti, ultimamente non ce n’erano più molti. Qualche socio ricorda i tempi di Madonna, Sylvester Stallone, Brigitte Nielsen, o, più semplicemente, Pamela Prati. Un altro azzarda che la borghesia sia emigrata verso lo Sporting Palace di piazza Fiume; lì, soprattutto attori, Luca Argentero, molte professioni, e attrezzature Technogym nuove. Anche il decano della Roman Sport Center, il sarto Renato Balestra, dopo aver condotto la sua personale lotta contro il dio Crono sulle macchine bianche e verdi della Roman, da anni aveva tradito per lo Sporting Palace.
Sempre al supermercato, un bel signore di 73 anni ci tiene a precisare d’essere anche lui socio vitalizio della Roman (e qui si capisce che tutti questi vitalizi non hanno fatto bene al business). Racconta d’essere “mental coach”, d’aver sempre fatto l’allenatore, in parallelo a una carriera da steward Alitalia, soprattutto racconta la storia balzachiana della Roman e del suo fondatore Eddie Cheever I, americano in vacanza a Roma con forte expertise nel settore delle palestre. Con la prima moglie americana Cheever fondò American Contourella, con centinaia di centri in giro per il mondo. A Roma apre invece “Silhouette” a via Barberini (“li cacciano perché quelli di sotto giustamente si lamentavano, tutti sti tonfi”), dove conosce Francesconi Rosetta, impiegata. C’è l’amore e nasce una nuova palestra a via Veneto e poi finalmente sotto Villa Borghese, nel 1962. I due si sposano, poi Cheever torna in America, Francesconi Rosetta diventa padrona di tutto il cucuzzaro, e sovrintende a tutto, fino proprio alle ultime settimane (ma negli ultimi giorni si è vista poco in giro, dicono).
Cheever è un piccolo mito minore romano: porta nella capitale lo squash (la Roman è la prima coi suoi due campi a far praticare questo sport) e il culturismo moderno, porta Schwarzenegger e Lou Ferrigno (quello di Hulk). Agli allenamenti si presenta sempre con una bottiglia di latte, che beve durante. Genererà poi un Eddie Cheever II, campione di Formula 1, detto “l’americanino de Roma”, e un Eddie Cheever III, anche lui corridore.
Al supermercato, la cassiera finora silente interrompe i racconti e i flussi di coscienza, e dice: “E li pescetti? Che fine faranno li pescetti?”. E allora tutti ci si ricorda dell’acquario a parete con pesci tropicali che contribuiva al design anni Sessanta della Roman. Si va subito a controllare: si scende una rampa di scale, eccoci di fronte all’ingresso, con le sue facciate di vetro e l’insegna bianca e verde (lo stemma societario, un triangolo vagamente massonico, verde e bianco, in un cerchio, con un omino e una donna stilizzati ai lati del triangolo. Portare le sacche con quel marchio, in certi anni, andava molto bene, a Roma). Sulla porta di vetro ci sono i sigilli della magistratura, e un foglio, scritto a mano, che invita a firmare la petizione su Facebook per riaprire la palestra. Si guarda dentro, sembra un mondo conservato sottovuoto da secoli, non solo da una settimana: il bancone di cemento armato brutalista, il pavimento di marmo nero; il grande divanone quadrato, lungo metri, da villa texana, di legno laccato bianco (con tanti segni di usura) e di pelle nera capitonné.
Accanto, l’acquario, vuoto, desolato: i pesci non ci sono, sarà stato svuotato con tardiva sensibilità? Si è scappati con la cassa e con i pesci? Dove sono in definitiva i pescetti della Roman? Qui nessuno sa dare risposta. Scatta però la madeleine ittica: una volta, parcheggiare qui davanti era impossibile, in questa rampa ripida dove si affollavano gli Sh e i TMax, i destrieri degli avvocati che piombavano dagli studi di via Bertoloni con le camicie strette, accanto alle auto con lampeggiante di ministri dei Lavori pubblici in tempi non ancora di casta. C’erano sempre i vapori della piscina che uscivano e appannavano i vetri; adesso guardo dentro ma non si vede niente; posso solo immaginare: quelle sale popolate dai macchinari dagli spigoli vivi: solo adesso me ne accorgo; nella capsula della Roman il tempo si era sempre fermato agli anni Sessanta: nessuna lussureggiante Technogym ma attrezzi marca Paramount, tutti di ferro, il che non dispiaceva, anzi contribuiva al fascino vecchiotto e virile di questo circolo romano senza Tevere, contrappunto ai vari Aniene e Canottieri Lazio, un cafonal atletico sommesso e decadente, niente a che vedere con gli ultimi agonismi bling ring delle palestre Hard Candy in cui ha diversificato la cantante Madonna (che un tempo, qui correva). Alla Roman, pochi schermi al plasma e poche canzonette ad alto volume, ma invece vecchi neon, asciugamani a nido d’ape affittati a un euro e cinquanta, con impiegati appositi a sorvegliare il saldo esatto e a registrare ammanchi e crediti (e anche lì, modelli di business forse non lungimiranti); e regimi da Califfato negli spogliatoi, con cartelli “si prega di usare il phon solo per asciugarsi i capelli e non altre parti del corpo”. Un’area bilance molto frequentata da pance Rotary e Lions, e nelle saune, discorsi soprattutto su rogiti, su vendite d’automobili, su consumi d’automobili, sul traffico sulla Pontina, e poi sull’ossessione romana, quella del cibo, simmetrica a quella milanese del profitto: “Cosa t’ha fatto tu’ socera”, e i sondaggi sul cosa si è mangiato, su cosa si mangia stasera e cosa si mangerà domani, nell’unica pianificazione ammessa in questa città meravigliosa. Sul cibo era poi all’avanguardia la Roman, con bar naturista anche in tempi antichi, con risi integrali e petti di pollo in vassoi di plastica penitenziali, e “la prima centrifuga della mia vita l’ho presa alla Roman”, altri ricordi brizzolati.
Bisognava essere presentati da un socio, alla Roman, certo non con le procedure segregazioniste dei grandi club romani della Caccia e degli Scacchi (lì altra epica, col miliardario Paul Getty bocciato con palla nera, che dice “me lo compro, la Caccia”); ma poi si finiva comunque, con una livella che non badava ai quarti di nobiltà, nelle grinfie di uno degli addetti alla reception: il roccioso Eduardo, l’atletico Mario, la signora Gilda o la signora Sipontina detta Pina; incentivati da percentuali, lestissimi a fidelizzarti, impossibili da evitare quando si arrivava negli spigolosi giorni del rinnovo, proponevano formule sempre meno rifiutabili; milleduecento euro il primo anno, poi solo novecento al secondo, e poi via via a scendere, con investimenti però sempre più lunghi, fino ai famosi vitalizi, che molti evitavano con retropensieri iettatori, pur valutandone la convenienza.
A una ristretta casta erano poi riservati gli armadietti personali, numerati, in usufrutto perenne, in cui lasciare asciugamani e shampoo e ciabatte preferiti, e spesso erano shampoo e ciabatte di hotel gloriosi, il Mamounia, il Danieli, qualche Ritz (che fine faranno adesso questi shampoo e queste ciabatte?). I lettini Uva, dal design antico e poco aerodinamico, ingeneravano timori cutanei. Due piscinette idromassaggio, una tiepida e l’altra bollente, niente mosaici o resine ma invece clinker e piastrellone dagli angoli spesso sbrecciati, con principi e marchesi del foro in slippini con qualche palla pendula, e Daytona al polso, a volte cianotici.
Non è che l’ormone fosse assente, alla Roman, al contrario.
“Se non sei in coppia, la Roman è perfetta”, sostiene il protagonista di “Ho voglia di te” di Federico Moccia; “finita ogni serie, ci si guarda e ci si spizza, un sorriso e poi vai”. Legioni di belli e belle consumavano chilometri su tapis roulant (a pagamento, al secondo piano, area cardiofitness, empireo della Roman), e l’acchiappo ha sempre avuto un ruolo non secondario nella scelta della capsula bianca e verde: acchiappo più gay che etero, forse, fondato anche sulla leggenda nera di un Christian De Sica sorpreso in complesse coreografie nel bagno turco (una di quelle gloriose leggende metropolitane che Roma produce con parsimonia, come quella secondo cui Rutelli e Palombelli sarebbero stati a capo di una lobby delle ganasce da divieto di sosta). E gaie erano anche le deviazioni e distrazioni che si ponevano al podista: dall’astronave della Roman, senza passare dal pianeta terra, tramite boccaporti elicoidali di cemento armato, tra Brasilia e Jules Verne, si sbucava direttamente su al Galoppatoio, distretto dell’acchiappo notturno e anonimo, dei cruising secolari anche d’autore, narrati da Alberto Arbasino in “Fratelli d’Italia”. E correre la sera era dolce, mentre altri boccaporti della Roman sfiatavano i vapori della piscina e degli idromassaggi, come una piccola Chernobyl però innocua e romantica, sotto i pini dannunziani (sotto, altre leggende: alcune signorine molto energetiche macinavano chilometri esagerati sulle loro cyclette, sempre molto truccate e perfettamente soignée anche in orari incongrui, ingenerando pensieri in epoche di squillo dei Parioli non ancora baby). Adesso tutta questa meraviglia è finita forse per sempre: si dice che spianeranno tutto per ampliare i parcheggi, o che il gruppo delle palestre transatlantiche Virgin sia pronto a rilevare tutto. Ma chissà che fine avranno fatto, intanto, i pescetti della Roman.
Il Foglio sportivo - in corpore sano