Un gran tedesco in Brasile
Jünger in vacanza: Rio come “residenza dello spirito del mondo”. Diario alla vigilia della catastrofe.
Neanche dopo una schiacciante vittoria sportiva il grande tedesco in villeggiatura a Rio de Janeiro sarebbe stato orgoglioso del suo paese, e l’idea di ritornarci gli avrebbe suscitato un tremendo umor nero. Certo, quella degli anni Trenta era un’altra Germania… “Que diable au-je à faire dans cette galère?”. “Che diavolo ci faccio su questa galera?”, si era chiesto verso la fine del viaggio con una battuta di Molière (da “Le furberie di Scapino”). Ma a stizzirlo era più che altro la prospettiva del ritorno ormai imminente e la massa dei passeggeri della nave che, dopo più di sei settimane di crociera, avevano già giocato tutte le proprie carte di presentazione in società, avevano esaurito gli argomenti e, in un teatro di futilità, tradito l’illusione che puntavano a creare dando in pubblico una certa immagine di sé. In quell’effimera messinscena, rispetto ai viaggiatori in vacanza, facevano “un’impressione di ben più robusta sostanza gli stewards che erano là per servirli, a riconferma del fatto che l’uomo è in generale più sopportabile quando lavora, come dimostra un qualsiasi pomeriggio domenicale a Berlino”.
Innegabile, Ernst Jünger era piuttosto di malumore tornando a casa in Germania, nel dicembre del 1936, dopo aver trascorso quasi due mesi in Brasile, come si evince dalle ultime pagine del suo “Viaggio atlantico”: “Atlantische Fahrt”, il sorprendente taccuino uscito in sordina a Londra nel 1947 come suo primo titolo del secondo Dopoguerra e appena riproposto da Klett-Cotta in una sontuosa edizione commentata, illustrata, ricca di foto inedite e di documenti originali.
Ma che diavolo ci faceva Ernst Jünger in Brasile?
Una vacanza. Anche se nei panni del turista, da intendersi letteralmente nel senso del “dress code” che contraddistingueva gli europei nel Nuovo mondo, era parecchio riluttante a calarsi. A un certo “rigorismo in fatto di abbigliamento” aveva scelto di attenersi dall’inizio, mettendo piede per la prima volta in terra latinoamericana. “Ho indossato un vestito di lino, e messo un cappellino di paglia”, annotava il giorno del suo approdo a Belém, alla foce del Rio Pará, “perché ho notato che una tenuta da esploratori avrebbe fatto scandalo. Particolarmente odiosi riescono qui i pantaloni inglesi alla zuava, per non dire dell’elmetto tropicale, che suscita un vero e proprio scalpore”. Neanche un cenno alla goffaggine degli eventuali calzoni al ginocchio o del casco con gli occhialoni da Afrikakorps, da parte del perfetto dandy che, al suo impeccabile abito estivo bianco panna, aveva abbinato un piccolo, vezzoso papillon. Sobrio, schivo, elegantissimo, ha un’aria rilassata a giudicare dalle foto che lo ritraggono lo Jünger 41enne in viaggio senza la famiglia oltre l’oceano. La moglie Gretha era rimasta a casa a Goslar con i due ragazzi per preparare il trasloco a Überlingen, sul lago di Costanza, dove si sarebbero trasferiti subito dopo il suo ritorno dal Brasile e dove Jünger avrebbe abitato vicino al fratello Friedrich Georg fino allo scoppio del Secondo conflitto mondiale e alla sua trasferta con le truppe di occupazione a Parigi. Ma della guerra, durante la lunga escursione lontano dal Vecchio mondo, non si accenna neanche a parlare. A dispetto della piena consapevolezza del suo inesorabile incombere – ben più che un presagio per l’autore che, per pubblicare il suo diario, rielaborò gli appunti presi a bordo solo nel ’46, dieci anni più tardi, poco dopo l’armistizio e la disfatta, e che inevitabilmente riconsiderò il suo viaggio con il senno di poi – in Brasile alla guerra ormai prossima non si voleva neanche pensare. E anzi, partire da solo, salpare da una Amburgo “rivestita, come per una festa d’addio, nei colori delle foglie autunnali”, puntare dritto su una terra esotica, fare rotta, nel cuore dell’inverno tedesco, verso “le residenze della primavera”, era un modo piuttosto eclatante di lasciarsi portare via.
Belém, Recife, San Paolo, Santos, Rio de Janeiro, Bahia: erano le tappe che Jünger aspettava di toccare in Sudamerica, dopo una prima sosta nelle Azzorre – a Ponta Delgada, sull’isola di San Miguel – e prima di un’ultima fermata alle Canarie, a Santa Cruz de la Palma. Imbarcatosi sul piroscafo “Monte Rosa” con un simile programma, il suo stato d’animo era molto diverso dalle cupezze che lo avrebbero assalito sulla via del ritorno. L’imbarcazione non era affatto una galera e anzi, seppure un po’ spartana negli arredi, era tra le più celebri e fotografate navi da crociera che negli anni Trenta, almeno una volta al mese, collegavano la Germania all’Amazzonia, portando migliaia di turisti a visitare le città della costa atlantica sudamericana. Partito “con il favore di Eolo” e diretto “verso il tepore esperiano”, non si sarebbe fatto guastare la festa nemmeno dai più noiosi compagni di viaggio, incontrati peraltro appena salito a bordo. Del tizio con cui avrebbe dovuto dividere la cabina, “un chiacchierone che mi tenne una conferenza di un’ora sull’arte di fare le valigie”, si sbarazzò alla svelta corrompendo lo steward. Di uno dei suoi vicini a tavola, “un tipo dall’intelligenza piatta, eppure assai amabile”, aveva presto saputo apprezzare le facezie e certi utili consigli, subito riferiti come imperdibili vademecum al fratello Friedrich Georg (“Fritz”), con il quale da oltre vent’anni Ernst, maggiore di tre anni, intratteneva un fitto scambio di pensieri e al quale durante il viaggio brasiliano inviò sei lunghe lettere irresistibili. Tale appunto è quella spedita a pochi giorni dalla partenza in cui riportava i suggerimenti di quel commensale “un po’ troppo loquace, dal quale però di tanto in tanto c’è qualcosa di buono da imparare”. Per esempio che sarebbe bene “non trascurare le donne con gli occhiali”, paragonabili a certe isole accanto alle quali i più tirano via diritti veleggiando oltre, e invece proprio per questo ben degne di una visita. “Una rara capacità di gratitudine e un intenso ardore segreto sarebbero le loro caratteristiche”. Jünger girava l’imbeccata al fratellino con una punta di divertito scetticismo: “Per quello che riguarda me”, gli spiegava, “la vista di un paio di occhiali mi ha sempre messo sul chi va là, e questo di sicuro è in qualche modo connesso al fatto che l’amore ce lo si immagina cieco, e che una donna di solito chiude gli occhi quando il preludio comincia”.
Ricordando, non solo per dovere di cronaca, che quel maestro di saggezza in tema di donne, isole e occhiali era Otto Storch – “un personaggio che potrebbe entrare in un romanzo di Joseph Conrad”, come Jünger avrebbe definito il temporaneo compagno di avventura con il quale, dopo le riserve iniziali, avrebbe stretto amicizia e tenuto una corrispondenza per anni, e il quale, militante in un’organizzazione comunista, per fuggire dal Reich tedesco, abbandonò la nave a Santos, vicino a San Paolo, per stabilirsi definitivamente in Brasile – ci piace credere che la sua lezione di vita buttata lì a tavola tra una portata e l’altra, abbia contribuito non poco a determinare la tonalità e l’intenzione di tutto il viaggio. Se infatti è vero che, come per rispettare i preliminari di un incontro erotico, scendendo oltre l’equatore verso il sud del mondo e accostandosi a un paese segnato da una tanto prorompente sensualità Jünger opta decisamente per una cecità amorosa – scaglia fuori bordo, tra le onde, il suo nuovo libro (era l’ultima edizione, fresca di stampa, dei “Ludi africani”) e lo guarda affondare tra i flutti senza lasciare traccia, rinuncia a ogni forma di intellettualità (“mai come durante questo viaggio in vita mia sono rimasto tanto a lungo senza un libro tra le mani”) e, vinto dalla seduzione del sole, dall’opulenza di una flora lussureggiante, si abbandona con piacere alle delizie di un’esistenza puramente vegetativa –, è pur vero che tiene scrupolosamente un diario e che, nel miglior stile del “contemplatore solitario”, dall’inizio alla fine della sua traversata transatlantica si dedica a quegli esercizi della visione che solo uno straordinario potenziamento dello sguardo, solo la dotazione di un ideale paio di occhiali, eventualmente forniti di lenti microscopiche, o telescopiche, avrebbero potuto favorire. Stregato da una natura magica, sedotto dal suo magnetismo, per non soccombere a quella malìa si fa tutt’occhi.
“Mai come qui ho avuto la coscienza così chiara di un incantesimo”, scrive, “dai tempi della guerra mondiale non percepivo così lucidamente la realtà”. E se un’aperta antipatia si ritrova a manifestare nei confronti dello strumento ottico – come per l’occhiale, così per la macchina fotografica, “apparecchio per la meccanizzazione dei ricordi di cui la compagnia dei viaggiatori abusa proprio nell’attimo in cui dovrebbe celebrarsi il matrimonio della vista con il paesaggio” –, è perché l’avverte come un ostacolo, un elemento di disturbo, un filtro dal potere alienante che paradossalmente preclude l’attenzione e nuoce a quell’arte della descrizione che dai tempi di Alexander von Humboldt si è perduta. Cultore di quell’arte, fedele al modello del grande viaggiatore settecentesco, Jünger in Brasile allena il suo sguardo “entomologico” – lo sguardo del botanico, del naturalista, del cacciatore sottile – o abbraccia in prospettiva astronomica il più ampio campo visuale per osservare l’avvicendarsi delle civiltà della terra da una distanza stellare.
Così, impressionato dal celebre ingresso via mare nella città di Rio de Janeiro, dopo un mese esatto di viaggio, puntando gli occhi da lontano sulla capitale, la scorge come “una residenza dello spirito del mondo”. E l’ipotesi che proprio il viaggio brasiliano abbia rovesciato il suo sguardo sul pianeta, stimolato la concezione di uno “Stato mondiale”, incoraggiato la prospettiva amplissima di una morfologia della storia alla Spengler (da Jünger citato per la prima volta in questo diario), aperto lo scenario di un occidente al tramonto e lo spettacolo dell’alba di nuove civiltà, nulla toglie alla femminilità della “città del sole” – come Jünger chiama Rio in una cartolina spedita a Carl Schmitt – che sembra messa lì, “come una dea dal petto di granito”, solo per farsi ammirare. Le ricognizioni del filosofo della storia non scalfiscono di un briciolo la sovrana indifferenza di quella conturbante gigantessa, né rendono immune lui dal fascino seducente di quella divinità solare “languidamente distesa nella baia di Copacabana”.
“Ci si deve muovere come metafisico, non solo come viaggiatore”, scriveva Jünger da Rio all’amico Schmitt indirizzandogli una veduta del Pan di Zucchero ripresa dalla cima del Corcovado. Ma forse, se non si fosse messo in viaggio, al metafisico sarebbero sfuggite tante intuizioni destinate a maturare nelle sue riflessioni successive. “Ci sono filosofemi che vanno letti come descrizioni di viaggio”, scrive per esempio Jünger nella seconda versione del “Cuore avventuroso” redatta nel 1938 all’indomani del suo ritorno dal Brasile. “Si potrebbe andare a verificare a quali latitudini si sia spinto l’autore, lungo quali coste, accanto a quali isole abbia viaggiato”.
In effetti, scoperta a ritroso come un capitolo sconosciuto della biografia jüngeriana, narrata in un testo messo completamente in ombra dai suoi titoli usciti nel secondo Dopoguerra – dopo la prima edizione inglese del ’47, semiclandestina, destinata ai prigionieri di guerra tedeschi, il “Viaggio atlantico” fu pubblicato a Zurigo nel ’48 e in Germania, a Tubinga, solo nel ’49, contemporaneamente ai quaderni parigini, il bestseller “Irradiazioni”, ovvero il diario dell’ufficiale della Wehrmacht stanziata a Parigi che attrasse in via esclusiva l’attenzione del pubblico e la discussione politica – l’esperienza brasiliana resta sottotraccia nella trama di tanti scritti di Jünger e trapela in filigrana come una vena preziosa che ne nutrì i pensieri per anni. Perché, ad esempio, le immagini oniriche che chiudono “Il cuore avventuroso” recherebbero quelle indicazioni di luogo: “A bordo”, “Ponta Delgada”, “Rio”? Che abbia messo le radici nella giungla tropicale, per Jünger meta di numerose passeggiate solitarie ogni volta che scendeva a terra, l’immagine della solitudine boschiva, della grandezza del bosco, del “Waldgang” fulcro del “Trattato del ribelle” (1951) e emblema prediletto della libertà dell’intellettuale outsider? E che dire di quella battuta del “Nodo di Gordio” (1953) secondo cui “quanto al clima etico, Rio si troverebbe ben più profondamente in occidente che non Praga”?
Al di là degli inattesi bottini predati in Sudamerica e impaginati sottoforma di filosofemi, o di spunti per esercizi di poesia – i rarissimi coleotteri catturati e poi, per gratitudine, rimessi in libertà, le serpi ctonie osservate al rettilario di Butantan, il fasto araldica della palma reale, la sagoma affiorante sotto il pelo dell’acqua delle creature favolose avvistate dalla nave (meduse, cetacei, acrobatici pesci volanti) e immortalate nell’incontro prodigioso tra “la scoperta e l’invenzione”, “il fenomeno e l’immaginazione” – l’impressione più forte che Jünger riporta dalla sua lunga gita all’altro capo del mondo è quella di una grande serenità: sentimento divino, sovrano, nietzschiano già colto come un motivo tutto da sviluppare nella “Gaia scienza” di Nietzsche e, una volta gettato a mare il libro di lettura, intravisto in mezzo al mare (“elemento nel suo fondo tempestoso”) come una promessa di ristoro. Più volte nel corso della traversata gli appare quel miraggio, “in un attimo di potente visione”. Sempre al cospetto di un’isola: San Miguel, La Palma, Fernando de Noronha, Fogo, Capo Verde, queste ultime all’epoca ancora escluse dalle rotte dei visitatori, inavvicinate, come le donne-con-occhiali apprezzate dall’amico Otto Storch. La loro vista, come sempre l’avvistamento di un’isola, gli provoca una struggente nostalgia di casa, “come se là, dove gli scogli affiorano dal mare, io abbia vissuto in epoche lontanissime”. Rispetto a quei “palazzi di Nettuno, abitati da una sublime serenità”, tanto più buia gli riesce la prospettiva del rientro a casa che lo aspetta. Che diavolo ci faceva su quella galera che dalla terra del sole lo riportava alle tetraggini germaniche? Amburgo, che lo aveva salutato vestita dei colori autunnali, lo riaccoglie avvolta in un’aria “torbida”, “nebbiosa”, battuta da “un vento gelato”, nelle acque di un canale che sembra “il mare dell’Edda”. E, più ancora dei lividi cieli teutonici, grava su di lui “la minaccia dei tempi che chiaramente si annunciano, le cui fiamme già lambiscono l’orizzonte”.
Alla vigilia di una catastrofe di cui, guardando indietro alla parentesi felice del suo viaggio, ben poteva valutare l’entità, non gli restava che attingere alle riserve di azzurro pescato a piene mani e a occhi spalancati nell’altro emisfero per mantenersi “libero – sereno – attivo”, come si augura per i giorni e gli anni a venire, “nonostante tutte le bassezze che ci circondano”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano