LeBron il Giusto torna a Cleveland per un disperato bisogno d'amore
Il cestista era arrivato a Miami nei panni del giocatore più forte in circolazione, una macchina da basket praticamente perfetta, talento esorbitante riconosciuto all’unanimità, a prescindere dal colore della divisa.
New York. LeBron James era arrivato a Miami nei panni del giocatore più forte in circolazione, forse il migliore di sempre, una macchina da basket praticamente perfetta, talento esorbitante riconosciuto all’unanimità, a prescindere dal colore della divisa. Con operazione sportivamente suggestiva, seppur velata da un certo alone di cinismo mercenario e commerciale, il Re James ha guidato una brigata di fenomeni lautamente ricompensati per le loro performance future, e quattro anni più tardi si ritrova a essere un giocatore enormemente più ricco e più vincente. Ma non è tutto. LeBron aveva bisogno di una trasfigurazione, doveva trasformarsi da Re James a LeBron il Giusto, ragazzone che ritorna dalle spiagge assolate e disperate di Miami alle strade dove giacciono le fabbriche dismesse del suo paradiso working class – “dove ho camminato. Dove ho corso. Dove ho pianto. Dove ho sanguinato”, ha scritto nell’articolo in cui annuncia il ritorno, capitolo fondamentale del suo Bildungroman – in un perfetto percorso circolare. Il ritorno a Cleveland ha fatto sciogliere il cuore dell’America, che ammirava, odiandolo, il progetto cestistico esagerato e cinematografico di Miami. La vox populi dice che quattro anni fa James non aveva fatto la cosa giusta. Non aveva fatto nulla di esplicitamente deprecabile, sia chiaro: nell’America del merito e della pursuit of happines un talento del genere ha il diritto inalienabile di giocare per il dream team che lo paga meglio e gli dà più possibilità di successo, ché ognuno la happiness la cerca un po’ dove gli pare, perfino a Miami.
Di certo però non c’era esibizione di virtù nella scelta di mettersi in società con Dwyane Wade, Chris Bosh e tutti gli altri: ricordava la costruzione a tavolino di una boy band anni Novanta più che la formazione di una squadra, che è un fatto di cuore, sudore, orgoglio, appartenenza, e persino di pudore e umiltà. Per mettere insieme una masnada di fenomeni basta un libretto degli assegni; per fare una squadra serve un quid che non è mai del tutto mercificabile. Michael Jordan, che veste la doppia canottiera di autorità sportiva e morale, aveva commentato tagliente: “Non ho mai pensato di giocare con Magic Johnson, Larry Bird e gli altri, ero troppo impegnato a cercare di batterli”. Il Re James aveva seguito le sue ambizioni di gloria, ma il vero re, per essere riconosciuto come tale, deve incarnare la virtù, esercitare la giustizia, dev’essere “inspiring”, non bastano le decisioni convenienti, occorre il sacrificio, nel senso etimologico del termine: rendere sacro ciò che è profano. Di buoni giocatori, come di buoni presidenti, è piena la storia americana, ma non a tutti è concessa la fiamma eterna di Kennedy o il trono di marmo di Lincoln, onori che non sono strettamente legati ai risultati politici ottenuti ma alla capacità di incarnare un ideale.
Il Re James torna a Cleveland nei panni di LeBron il Giusto, ma cosa cerca esattamente? I trofei, certo, anche se con una masnada di giovani volenterosi sarà impossibile replicare quanto fatto a Miami, specialmente in un angolo d’America che non vede una coppa da quarant’anni. La gloria, sicuramente; cerca l’ammirazione, vuole fare di se stesso un’operetta morale, un modello per le genarazioni che verranno. Ma in un certo senso vuole innanzitutto liberarsi dal ricatto delle prestazioni e dei titoli. Vuole essere amato senza condizioni, per quello che è e non per le statistiche che farà vedere, e l’unico modo per ottenere il risultato era fare la cosa giusta. Di più: fare la cosa giusta per rimediare a una scelta sbagliata o comunque meno nobile. L’America amava già LeBron James per le sue qualità e lo ammirava per le sue vittorie; ora lo ama perché ha scelto la via della virtù. In una certa misura i risultati che otterrà a Cleveland saranno irrilevanti per il giudizio dei posteri su quello che potrebbe essere uno dei tanti fuoriclasse che passano e quasi orma non lasciano, o un eroe sempiterno. I più terragni dicono che anche il ritorno è l’ennesimo saggio del cinismo mercenario di LeBron, che non vuole farsi sfuggire dalle mani la legacy, l’eredità, la possibilità di eternarsi, quella che gli inquilini della Casa Bianca perseguono con tenacia quando non c’è più tempo per pensare al presente. La Casa Bianca ha elogiato LeBron, eroe dei due mondi che torna nella malconcia rust belt vilipesa dalla crisi, e non c’è nulla di più ovvio per un presidente che ha sovraccaricato il discorso pubblico di retorica emotiva. Ma forse lui, il Re James diventato LeBron il Giusto, è tornato a casa soltanto per quel disperato bisogno d’amore.
Il Foglio sportivo - in corpore sano