Barack Obama (foto LaPresse)

Il dilemma di Obama in Iraq, fra Teheran e lo Stato islamico

Qualunque parte prenda, il presidente rischia di avvantaggiare un nemico, e per questo anche nel caso iracheno è tentato da un’alternativa che ha praticato con una certa regolarità, l’inazione.

New York. Nel dicembre del 2011 Leon Panetta, allora segretario della Difesa, aveva salutato il ritiro delle truppe americane dall’Iraq con un messaggio denso di fiducia verso gli apparati di sicurezza di Baghdad: “L’esercito iracheno e la polizia sono state ricostruite e sono in grado di rispondere alle minacce; il livello di violenza è diminuito; al Qaida è indebolita; lo stato di diritto si è rafforzato; ci sono nuove possibilità educative e l’economia sta crescendo”. Rileggere dichiarazioni di questo tenore oggi fa una certa impressione, non soltanto perché le bandiere nere dello Stato islamico garriscono sulle più importanti città irachene e ormai i terroristi sunniti sono in grado di colpire alle porte di Baghdad, ma perché elementi estremisti di ogni risma si sono infiltrati nella macchina della sicurezza dello stato, quella che avrebbe dovuto garantire una transizione sicura verso la stabilità. I soggetti che dovevano essere in grado di rispondere alle minacce del terrorismo sono diventati a loro volta minacce.

 

Lunedì il New York Times ha svelato i contenuti di un documento riservato del Pentagono sullo stato delle forze irachene, dichiarazione impietosa che parla di una duplice infiltrazione nei ranghi militari di Baghdad: alcune sezioni dell’esercito sono piene di estremisti sunniti rinvigoriti dalla nascita del Califfato sotto l’egida di Abu Bakr al Baghdadi, il califfo Ibrahim; altri settori, legati alla leadership del premier Nouri al Maliki, sono in mano agli sciiti, molti dei quali sono stati addestrati in Iran e ora sono assistiti dalle forze speciali di Teheran. Soltanto metà delle brigate militari irachene, dice la bozza supervisionata dal generale Dana Pittard che è arrivata sulla scrivania del segretario Chuck Hagel per un’ultima revisione, sarebbe in grado – in termini di competenze e affidabilità – di mettere in pratica le istruzioni degli addestratori americani che la Casa Bianca potrebbe inviare per coadiuvare un’offensiva contro lo Stato islamico. Metà significa che gli advisor americani sarebbero esposti a un fuoco incrociato già nei ranghi militari. All’interno dell’Amministrazione si dibatte sull’opportunità di mandare nuovi aiuti militari dopo i 200 uomini inviati a presidiare l’aeroporto di Baghdad, considerato dall’intelligence a rischio di finire nelle mani dello Stato islamico. Il problema è capire di chi si può fidare Washington ora che i soldati fedeli all’Iran e gli estremisti sunniti si sono infiltrati in un esercito già di per sé malmesso. Il documento sostiene che i militari non hanno la forza, le competenze e i mezzi per tenere sotto controllo l’intera Baghdad per un lungo periodo di tempo, dichiarazione leggermente peggiorativa rispetto a quanto aveva detto il capo delle Forze armate Martin Dempsey un paio di settimane fa: “L’esercito iracheno – aveva spiegato – può difendere Baghdad ma non è in grado di lanciare una controffensiva”. Come dice un anonimo funzionario della Difesa al New York Times, “it’s a mess”, è un casino, perché non mandare aiuti significa lasciare l’esercito iracheno sempre più nelle mani delle milizie sciite fedeli all’Iran, le stesse che combattevano gli americani negli anni della guerra, e rinfocolare uno scontro intestino con i sunniti che si è acceso nuovamente con l’ascesa dello Stato islamico.

 

E’ la rappresentazione plastica del dilemma fra alternative terribili che tormenta Barack Obama. Qualunque parte prenda, il presidente rischia di avvantaggiare un nemico, e per questo anche nel caso iracheno è tentato da un’alternativa che ha praticato con una certa regolarità, l’inazione. In questo come in altri casi, l’inazione non significa il congelamento di uno status quo accettabile ma il progressivo peggioramento di uno scenario dove si fronteggiano uno stato canaglia e un gruppo terroristico sunnita attrezzato, ricco e ambizioso. Come ha detto il capo delle operazioni speciali del Pentagono, il generale Joseph Votel, evitare di scegliere in questo caso non è un’ipotesi sostenibile: “E’ rischioso lasciare che le cose si risolvano da sole, specialmente quando ci sono interessi che possono riguardare direttamente il nostro paese”. La minaccia alla sicurezza nazionale è certamente la lente attraverso cui alcuni consiglieri di Obama osservano gli sviluppi in Iraq. Altri sono più inclini a leggerla come una situazione grave ma non immediatamente collegata alle responsabilità americane. Nel discorso all’accademia di West Point a maggio, Obama ha detto che il terrorismo è ancora la minaccia più grave per l’America, ma che “non tutti i problemi hanno una risposta militare”. Un intervento, diceva il presidente, può essere però giustificato quando è minacciato direttamente l’interesse nazionale americano, e in questo caso si procede su un crinale semantico e politico sottile per distinguere la minaccia indiretta da quella diretta, il pericolo prossimo da quello remoto. Di certo c’è che a forza di fare distinzioni in Iraq Obama si è trovato con i nemici travestiti da alleati.