La cura estera al made in Italy
La spinta degli investitori stranieri alla farmaceutica italiana
Può il “made in Italy” giovarsi delle occasioni di guadagno ricercate dal capitale straniero? Oppure hanno ragione gli scettici-sempre-e-comunque, che vedono trame oscure o pericoli incombenti per il nostro tessuto produttivo dietro ogni investimento estero? “Questo clima di pessimismo che pervade l’Italia quando si tratta di rapportarsi con la globalizzazione dei mercati è insopportabile”, dice al Foglio Massimo Scaccabarozzi, amministratore delegato di Janssen Italia, società farmaceutica del gruppo statunitense Johnson & Johnson con 1.200 dipendenti nel nostro paese. I casi Alitalia e Indesit sono soltanto gli ultimi in ordine di tempo: “Prima a gran voce chiediamo l’apporto di investimenti esteri per rilanciare crescita e occupazione. Poi quando arrivano cominciamo a storcere il naso, a chiederci ‘chi’ davvero ci sia dietro. Ma se i capitali italiani per qualche ragione latitano, ben vengano gli stranieri!”. Scaccabarozzi, da presidente di Farmindustria, gode di un punto d’osservazione privilegiato: nella farmaceutica italiana, che impiega 63 mila addetti in 174 fabbriche, il 60 per cento della presenza industriale – calcolata per impiego, fatturato e investimenti – è di origine straniera. Si tratta soprattutto di insediamenti nati negli anni 80, ma che da qualche mese lanciano segnali di rinnovata vitalità. “Per il prossimo anno prevediamo 1,5 miliardi di investimenti aggiuntivi dal settore, quasi tutti con passaporto non italiano, e 2.000 assunzioni in un comparto ad altissima intensità di ricerca e sviluppo. La stabilità politica e istituzionale, sicuramente, ci avvantaggia”, dice Scaccabarozzi. Il nostro paese, in questo campo, è anche piattaforma di esportazioni in tutto il mondo: la filiale italiana della statunitense Eli Lilly, un mese fa, ha avviato nuovi investimenti a Sesto Fiorentino per puntare a diventare il secondo esportatore globale di farmaci anti diabetici. La filiale della tedesca Merck Serono, in un incontro pubblico a maggio con il presidente del Consiglio Renzi, ha annunciato investimenti per altri 50 milioni nell’impianto di Bari.
Va bene la stabilità politica, ma il settore non risente forse delle difficoltà di fare business che incontrano tutti gli altri imprenditori? Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison e docente all’Università Cattolica di Milano, ragiona col Foglio sui “considerevoli vantaggi competitivi” della farmaceutica in Italia: “Una manodopera altamente qualificata a relativi bassi costi rispetto a Francia, Svizzera e Germania. Poi la presenza di cluster industriali già affermati, con le annesse esternalità positive in termini di ricerca. Il tutto in un settore dove l’intensità energetica non è elevatissima e il problema della logistica è sormontabile”. Per questo gli investitori esteri presenti in forze nel paese sembrano disposti a superare barriere che pure la categoria continua a lamentare: incertezza fiscale, lungaggini nei pagamenti dal settore pubblico, ritardi e complessità nel processo autorizzativo di nuovi prodotti generati anche dalla riforma che fu del Titolo V della Costituzione. Al punto che l’Italia diventa fonte di esportazioni in tutto il mondo: “Se la bilancia commerciale italiana è passata dal 2010 al 2013 da un passivo di 30 miliardi di euro a un attivo di 30 lo dobbiamo alle esportazioni aumentate di 52 miliardi – dice Fortis – L’industria farmaceutica, da sola, ha contribuito per il 10 per cento di questo risultato. Negli ultimi tre anni l’export italiano di farmaci confezionati è cresciuto come mai prima, di 6,8 miliardi di dollari”. Per questo, sul Sole 24 Ore, Fortis ha suggerito a Renzi di lanciare un “click day” per il settore: il governo prenda direttamente in custodia le sorti delle prime cinque domande d’investimento di nuovi siti produttivi o di ampliamento di quelli esistenti superiori ai 20 milioni di euro da parte dei gruppi stranieri. Gli garantisca la possibilità di cominciare le attività senza sobbarcarsi l’impatto frenante della nostra burocrazia. “Non solo nella farmaceutica, le aree di potenziale investimento straniero sono ancora molte – dice Fortis – Dopo che per oltre trent’anni abbiamo compromesso le sorti di grandi gruppi strategici nazionali, oggi almeno faremmo meglio a stendere tappeti rossi per chi vuole venire qui”.
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