La madre di tutte le trattative
Cosa annotano sui taccuini gli americani e gli iraniani a Vienna? Magri progressi nel negoziato sul nucleare, forse slitta la deadline del 20 luglio. Tre domande a Teheran
Sbocciata il 24 novembre scorso sul lago di Ginevra e accolta con ardore come la madre di tutte le mediazioni, la trattativa sul programma nucleare iraniano è approdata tra i saloni neoclassici del Palazzo Coburg a Vienna con un carico di aspettative che travalica i confini della querelle atomica. In gioco c’è il futuro delle relazioni tra l’Iran e gli Stati Uniti e insieme un pezzo di legacy obamiana, ma a Vienna, indirettamente, si gioca anche una partita più ampia che coinvolge l’intero assetto mediorientale, perché se Teheran si dimostra un partner affidabile oggi, nuove collaborazioni potrebbero teoricamente fiorire domani in Iraq se non in Siria.
Tra sabato e domenica a Coburg sono sfilati l’inglese William Hague, il francese Laurent Fabius, il tedesco Frank-Walter Steinmeier e l’americano John Kerry, ma le defezioni degli altri ministri degli Esteri dei cosiddetti 5 più 1, il russo Sergei Lavrov e il cinese Wang Yi hanno subito dato l’impressione che a Vienna in questi giorni non ci sarebbe stata alcuna svolta. Il dipartimento di stato americano ha smentito l’esistenza di fratture con la Russia, ma Fabius ha criticato “il diverso approccio di Mosca” al negoziato con l’Iran e analisti russi annoverati come vicini al Cremlino hanno fustigato “l’irrealistico atteggiamento americano” e “la ricerca di negoziati lunghi e dolorosi che nascondono il desiderio di mantenere le sanzioni”. Dopo un decennio di balletti intorno al dossier iraniano, nonostante la condivisione di misure punitive piuttosto stringenti, Washington e Mosca continuano ad avere standard diversi verso l’Iran. Gli Stati Uniti esigono tagli significativi che allontanino lo spettro dell’armamento nucleare, Mosca si accontenta di ispezioni e verifiche puntuali. Nel fine settimana il New York Times ha raccolto lo sfogo di un funzionario dell’Amministrazione Obama che ha definito “inadeguate” le posizioni iraniane e ha ammonito che, in assenza di un cambio di rotta, Teheran avrebbe dovuto vivere con le conseguenze della sua intransigenza.
Nel frattempo le dichiarazioni da Vienna degli ultimi giorni hanno descritto “sforzi per accorciare le distanze”, “colloqui franchi”, “dialoghi utili” e altri educati giri di parole per dire che l’accordo è ancora lontano. “Il 60-70 per cento del compromesso c’è già”, ha detto il viceministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi, il problema è il restante 30. “Questa è forse l’ultima occasione per risolvere il disaccordo sul programma nucleare iraniano in maniera pacifica”, ha detto il ministro degli esteri tedesco Steinmeier, mentre il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif,concedeva magri “progressi sui malintesi” e le voci di una sempre più probabile estensione della deadline del 20 luglio sgonfiavano le attese. “Speriamo di finire questi colloqui con un accordo”, ha detto Zarif all’inizio del suo primo colloquio con Kerry domenica. “Lo speriamo tutti”, ha replicato il segretario di stato americano, critico in un recente commento sul Washington Post nei confronti delle belle parole degli iraniani cui però non corrispondono i fatti. Ma siccome la speranza è il leitmotiv della “madre di tutte le trattative” e anche della presidenza di Hassan Rohani, il quotidiano iraniano Shargh ha pubblicato in prima pagina un’immagine di Kerry e Zarif che sorridono e si stringono la mano, e a Vienna come aruspici gli osservatori hanno preso nota della presenza del fratello del presidente Rohani, Fereydoun, “i suoi occhi e le sue orecchie”, come presagio di una misteriosa fumata bianca; hanno sottolineato la cena tra Kerry e Lady Catherine Ashton, capa uscente della diplomazia europea, e speculato sull’effetto che avrebbe suscitato in Iran la vista della bandiera americana accanto a quella della Repubblica islamica.
Quando è parso che la fatica dei delegati avrebbe dominato gli ultimi scampoli di trattativa, Zarif ha sparigliato le carte e annunciato in un’intervista al New York Times “una proposta innovativa”: l’Iran “è disposto a congelare la sua capacità di produrre combustibile nucleare agli attuali livelli per diversi anni (le indiscrezioni dicono 7, i 5 più 1 chiedono almeno 10 anni di stop, ndr), ma alla fine di questo periodo sarà trattato come qualsiasi altro stato in possesso di un programma nucleare pacifico”. Ossia l’Iran concede ispezioni, verifiche, il prolungamento a tempo determinato dell’attuale accordo ad interim e vuole come contropartita la liberazione dalle sanzioni e le prospettive di qualsiasi altro membro del club dei firmatari del Trattato di non proliferazione.
Secondo il New York Times, Zarif voleva rassicurare gli americani sulla quantità e sulla purezza del combustibile nucleare prodotto dall’Iran da un lato e, dall’altro, rabbonire la Guida suprema, Ali Khamenei, ostile all’idea di smantellare le installazioni esistenti e anzi intenzionato a non precludersi la produzione di combustibile in futuro. Ma il plenipotenziario agli Esteri iraniano intendeva soprattutto dimostrare la buona volontà di Teheran. Lo ha fatto in termini fumosi, ma sono bastati a definirlo “flessibile” e se gli americani rifiutano sono loro gli irragionevoli, se la deadline di luglio non viene prolungata, le fratture tra i 5 più 1 potrebbero aggravarsi e dinanzi alla disponibilità iraniana potrebbe naufragare il fronte comune delle sanzioni. “Ho provato a offrire, non attraverso il negoziato, attraverso la stampa, alcune soluzioni”, ha detto Zarif ieri nel corso di una teatrale conferenza stampa in cui ha sottolineato più volte come l’Iran a Vienna abbia saputo offrire “soluzioni” piuttosto che “posizioni” e dichiarato che il negoziato proseguirà fino al 25 novembre.
La fumosa proposta di Zarif non risponde alle incognite sulla capacità di rottura degli iraniani (il tempo che intercorre per l’upgrading da un programma atomico civile a uno militare) che conservano le loro infrastrutture, ma quando Kerry ha parlato con la stampa ieri mattina si è appeso alla stampella di Zarif: “Entrambe le parti sono impegnate nella ricerca di una soluzione”, “i progressi sono tangibili”, Kerry ha addirittura citato la discussa fatwa contro le armi nucleari dell’ayatollah Khamenei e il tono generale è parso calibrato per non urtare la suscettibilità di Teheran.
Le conseguenze sul regime
E’ stato il trionfo di Zarif, l’uomo che un anno fa usciva dal cono d’ombra in cui lo aveva cacciato Mahmoud Ahmadinejad come un ramoscello d’ulivo teso verso l’occidente. Apparizione dopo apparizione, sorriso dopo sorriso, Zarif ha conquistato i media con il suo stile rassicurante – “Io non minaccio, non è il mio stile” – e se i suoi interlocutori lo criticano, lui li bypassa rivolgendosi all’opinione pubblica con messaggi diretti in un linguaggio semplice ed empatico sullo sfondo di giardini curati. In piena era Ahmadinejad, Zarif saltava tra università, simposi e congressi per limitare i danni delle sortite incendiarie del suo presidente. Gli amici americani scherzavano che con quell’agenda così fitta più che l’ambasciatore iraniano pareva il presidente degli Stati Uniti. “Perché no?”, rideva lui. Ma al netto dei talenti di Zarif e delle decisive discussioni tecniche che si protrarranno nei prossimi mesi, il Wall Street Journal sottolinea che tre domande fondamentali per il buon esito della trattativa restano senza risposta. La prima: l’Iran considera il raggiungimento di un accordo un obiettivo vitale o soltanto uno strumento importante per rilanciare l’economia? Un fallimento sarebbe considerato alla stregua di una minaccia esistenziale per il regime o no? Rohani ha legato la sua presidenza al successo della trattativa ma – e arriviamo al secondo interrogativo – chi tiene davvero le fila della trattativa? Poi c’è la terza domanda, forse la più insidiosa. Come valuta l’Iran la sua situazione strategica? Teheran si ritrova ad affrontare una grave minaccia al suo sistema di alleanze. Il cosiddetto “asse della resistenza” è sotto attacco in Siria e in Iraq: l’irrompere sulla scena dello Stato islamico di Abu Bakr al Baghdadi e lo spettro del suo Califfato alterano la percezione che l’Iran ha del suo ruolo e dei suoi interessi regionali? E’ ipotizzabile – domanda il Wall Street Journal – che Teheran arrivi a considerare un’intesa con i paesi sunniti moderati o addirittura con gli Stati Uniti o Israele?
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