Il Cav., la sharia e il pornoprocesso
Ruby, il diritto morale come arma, la sentenza d’Appello oggi a Milano
Che beffa sarebbe se dopo aver cercato per anni di spedirlo in galera in qualità di corruttore, truffatore e mafioso, adesso i soliti miliziani togati si accontentassero di inchiodarlo in quanto Grande Puttaniere. Uno smacco non dappoco. Del resto, come si fa a prendere sul serio un processo così congegnato? “Lei ha mai pronunciato la parola bunga bunga?”, domanda alla teste il pm Sangermano con aria inquisitoria. Lei, incredula, si guarda attorno, poi posa di nuovo lo sguardo sul pubblico ministero e risponde: “Sì, lo ammetto, ho pronunciato la parola ‘bunga bunga’”. Nel pornoprocesso attorno alla presunta penetrazione tra l’allora premier e la marocchina ultradiciassettenne Karima el Mahroug, le deposizioni somigliano alle confessioni. Trentatré ragazze chiamate in aula in qualità di testimoni e assurte a epigoni del puttanesimo immorale si sentono rivolgere domande del seguente tenore: “Ricorda se vi erano contatti fisici tra i presenti? Le donne mostravano i seni rifatti? Si apprende che partirono dei trenini: vuole specificare meglio? Quali e quanti indumenti toglievano le ragazze? Che cosa significa che le presenti assumevano ‘connotazioni equivoche’? Ha visto dei palpeggiamenti o delle interazioni tattili tra i presenti? In questo avvicinarsi le ragazze adombravano contatti di tipo omosessuale? Lei ha visto dei toccamenti? Soltanto sui seni o anche nell’interno coscia? Si è mai intrattenuta in intimità con il presidente? ‘In intimità’ significa avere rapporti sessuali. Glielo dico subito così parlo chiaro!”.
Se pensate che sia uno scherzo, vi sbagliate. Persino un acerrimo antiberlusconiano che abbia a cuore lo stato di diritto – non per adesione ideale ma per il banale desiderio di vivere da uomo libero in un paese libero – inorridirebbe di fronte a una simile performance giudiziaria. La separazione tra diritto e morale che Bentham nobilita come primo mattone per costruire “la fabbrica della felicità umana” evapora. Primeggia invece la sharia in salsa milanese. La procura ambrosiana s’ispira sfacciatamente ai processi farsa celebrati nella Kabul talebana. Il codice penale marocchino che permette ai condannati per abusi sessuali di sposare la vittima minorenne al fine di salvaguardare l’onore delle famiglie coinvolte diventa l’avanguardia da inseguire. Il codice saudita che punisce esemplarmente, a morte, la donna che osi avere un rapporto sessuale con un uomo diverso dal coniuge è ritenuto un encomiabile baluardo della pubblica morale. E che dire di noi, poveri illusi, che ci sollazzavamo gaiamente nella “libertà dei moderni”? Pensavamo che la norma fosse un limite all’arbitrio giudiziario, non un alibi per lo strapotere. Pensavamo che dinanzi a un magistrato dovessimo rispondere di eventuali reati, non di umani peccati. Invece la sharia milanese prescrive onore e rigore, sobrietà e castità dentro e fuori dal letto.
In un paragone con la bellicosa Sparta, Benjamin Constant esalta l’Atene mercantile perché qui il cittadino si bea del sacrosanto “diritto di occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie”; gli ateniesi, citando Senofonte, sono “indulgenti verso la sposa troppo fragile che cede alla tirannia della natura, chiudono gli occhi sull’irresistibile potere delle passioni, perdonano la prima debolezza e dimenticano la seconda”. Per i brianzoli solo pugnette. Persino la gazzetta delle procure solleva dubbi sull’impianto accusatorio in un processo che non sarebbe mai dovuto cominciare. Fu proprio quella gazzetta, il Fatto quotidiano, ad aggiudicarsi lo scoop sulle bollenti dichiarazioni rilasciate da Ruby ai pm nel 2010. La ragazza ha sempre negato di aver copulato con l’allora premier. Mancano prove e testimonianze sulla presunta penetrazione, è tutto un pullulare di congetture e opinioni in libertà. Basta questo per condannare una persona a sette anni di carcere? A Kabul sì. A Milano lo scopriremo oggi.
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