Christine Lagarde e Jean-Claude Juncker a un incontro dei ministri economici dell’Eurozona. La governance globale corrode i confini, ma poi si rivela utile per gli stati nazionali

Crisi, quale crisi?

Marco Valerio Lo Prete

Il mondo ha impedito un’altra Grande Depressione ma noi fatichiamo ad accorgercene. Ecco perché

La Grande recessione nata negli Stati Uniti nel 2007, cresciuta in Europa e poi propagatasi in tutto il mondo, prometteva in origine sfaceli più gravi di quelli causati dalla Grande Depressione del 1929. Così però non è stato, anche se dal nostro punto d’osservazione – un Vecchio continente ancora alle prese con tassi di sviluppo appena percettibili, livelli di disoccupazione elevati e tendenza disinflazionistica in corso – tendiamo a non accorgercene. Se la recessione covata in occidente non si è trasformata in una Grande Depressione planetaria, e se anzi oggi nel mondo il capitalismo globalizzato rimane il modello di riferimento attraverso cui si continua a creare ricchezza, lo dobbiamo a una serie di organizzazioni internazionali algide e tecnocratiche che fino al crac di Lehman Brothers tendevamo nel migliore dei casi a ignorare, e altre volte a denigrare.

 

Parliamo di quell’insieme di sigle identificate  – con formula un po’ abusata e pure intraducibile, almeno nella vulgata – con la “governance globale”: Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca mondiale (Wb), Banca dei regolamenti internazionali (Bri), Organizzazione mondiale del commercio (Wto), vertice dei Grandi (G7, G8 o G20) e altre ancora. Insomma, a dispetto di un radicato e diffuso scetticismo in circolazione tra analisti, media e opinione pubblica, “il sistema ha funzionato”, “The System worked”, come da titolo dell’ultimo libro di Daniel W. Drezner, appena pubblicato da Oxford University Press.

 

Una provocazione? Drezner giura di no. E non soltanto perché non avrebbe nessun interesse a vedere intaccata la sua credibilità: quella di docente di Politica internazionale alla prestigiosa Fletcher School della Tufts University in Massachusetts, fellow del blasonato think tank tendenza liberal Brookings Institution, già economista al dipartimento del Tesoro della Casa Bianca e ascoltato opinionista su giornali come il New York Times o riviste come Foreign Affairs. L’autore, piuttosto, giura di aver cominciato la propria ricerca con tutt’altra intenzione: dimostrare “la sclerotizzazione” del sistema delle organizzazioni internazionali nato dopo la Seconda guerra mondiale principalmente su iniziativa degli Stati Uniti, descrivere l’incapacità dello stesso sistema di prevedere il crollo del mondo finanziario e di attutire la caduta dell’economia reale, documentare infine la senescenza di un sistema che da tempo non riflette più i cangianti equilibri geopolitici e in particolare l’inesorabile declino dei paesi occidentali. Drezner aveva dunque iniziato a indagare in questa direzione, salvo scoprire più tardi che si trattava della direzione sbagliata. Perché “il sistema ha funzionato”, appunto.

 

Nel 2008 gli studiosi Menzie Chinn e Jeffry Frieden lanciarono, tutt’altro che isolati, un allarme: “La ‘recessione’ del 1929 divenne una ‘depressione’ soprattutto a causa del collasso della cooperazione internazionale. La crisi attuale potrebbe andare in quella direzione se la collaborazione internazionale fallisse”. In tempi di globalizzazione, infatti, gli sforzi dei singoli governi nazionali, per quanto lungimiranti, non sono sufficienti affinché un paese possa riagganciare lo sviluppo. Charles Kindleberger, storico dell’economia scomparso nel 2003 e autore nel 1978 del classico “Euforia e panico. Storia delle crisi finanziarie”, ribattezzato dall’Economist come “the master of the genre”, teorizzò l’esistenza di “beni pubblici globali” necessari a superare una crisi finanziaria: suggerì il “mantenimento di un mercato relativamente aperto per le scorte di merci in difficoltà”; la fornitura di liquidità al sistema finanziario globale attraverso “prestiti anti ciclici a lungo termine”; il sostegno al credito durante la crisi. Nel 1929, questi “beni pubblici” divennero d’un tratto introvabili: il sistema monetario e finanziario globale non resse l’urto dei fallimenti di alcuni importanti operatori privati, mentre il protezionismo divenne prassi comune negli scambi commerciali. All’alba dell’ultima crisi, quasi 80 anni dopo, non ci si attendeva molto di più dalla governance globale, cioè da quell’“insieme di norme formali e informali che regolano l’economia globale, e delle organizzazioni dotate di potere autoritativo che promulgano, coordinano, monitorano o applicano le suddette norme”. Se fino al 2008 la bolla dei mutui subprime si era gonfiata a dismisura negli Stati Uniti, per esempio, lo si doveva in parte a un macroscopico squilibrio internazionale generato dagli acquisti massicci di asset denominati in dollari da parte del governo di Pechino (ansioso di evitare un apprezzamento del renminbi). Per anni il Fondo monetario internazionale era sembrato non vedere – meglio, non voler vedere – questa violazione delle sue stesse regole: le autocritiche arrivarono troppo tardi; nel frattempo, attraverso questa falla della governance globale, era passato un flusso di capitali che avrebbe poi avuto conseguenze fatali. Un altro esempio: gli standard di Basilea II sulla regolamentazione e la supervisione delle banche del pianeta non sono riusciti a prevenire l’implosione di decine di istituti di credito occidentali; anzi, l’indebolimento del settore, secondo molti analisti, è stato accelerato da regole che consentivano un’eccessiva leva finanziaria. In definitiva, nel 2008, quasi nessun osservatore avrebbe scommesso sulla capacità della governance globale di garantire, all’apice della crisi, quei “beni pubblici” considerati vitali da Kindleberger e non solo. Sei anni dopo, però, tanto scetticismo andrebbe rivisto. Innanzitutto alla luce dei dati macroeconomici.

 

“Quale che sia il metro di giudizio, l’economia globale è rimbalzata in maniera molto più robusta dopo il 2008 di quanto non successe durante la Grande Depressione”, scrive Drezner citando i dati aggregati da due economisti come Barry Eichengreen e Kevin O’Rourke. La caduta iniziale della produzione industriale e del commercio a livello globale all’inizio della crisi finanziaria è stata più drammatica di quella che era seguita al crac di Wall Street nel 1929. Già quattro anni dopo la chiusura di Lehman Brothers, però, la produzione industriale globale era più alta del 10 per cento che all’inizio della crisi. Quattro anni dopo il 1929, invece, la produzione industriale raggiungeva soltanto i due terzi del livello pre-crisi. Un discorso simile vale più in generale per la crescita economica. Il pil globale era caduto di 3 punti percentuali nel 1930, poi si era ridotto di 4 punti nei due anni successivi. Secondo le statistiche del Fmi, invece, il pil globale è calato di 0,59 punti percentuali nel 2009, poi ha fatto segnare tassi di crescita del 5,22 e del 3,95 per cento nei due anni immediatamente successivi. Anche la povertà estrema, nel frattempo, ha continuato ad arretrare nel mondo: secondo la Banca mondiale è proprio durante la crisi che, in anticipo rispetto ai tempi previsti, si è raggiunto l’obiettivo proposto dalle Nazioni Unite di dimezzare il numero di persone in “povertà estrema” rispetto al 1990. L’Indice della globalizzazione redatto annualmente dal think tank svizzero Kof, che misura in maniera sintetica tutto quello che si muove attraverso i confini statali – commercio, capitali, rimesse, turismo e altro – ha continuato a crescere, seppur di poco, a livello globale; per le venti principali economie, addirittura, l’indice nel 2010 è tornato ai valori record del 2007. A quattro anni dal crac del 1929, per fare un confronto, i flussi commerciali si erano ridotti di un quarto; a quattro anni dalla caduta di Wall Street del 2008, invece, i flussi commerciali erano del 5 per cento superiori. L’Economist ha stimato che le esportazioni globali, misurate in percentuale del pil, tra il 2011 e il 2013 sono state maggiori dei tre anni precedenti il 2008. Gli asset gestiti da capitali esteri in giro per il mondo sono oggi del 10-15 per cento maggiori rispetto ai picchi pre crisi. Gli investimenti diretti esteri, cioè quelli che puntano a generare stabilmente produzione e business in un paese e che sono generati da un individuo o una società di un paese straniero, ammontavano in media a 1,47 trilioni di dollari dal 2010 al 2012, contro una media appena più alta (1,49 trilioni di dollari) tra 2005 e 2007. Le organizzazioni economiche internazionali c’entrano eccome: è grazie agli impegni cooperativi presi in sede di G20 e Organizzazione mondiale del commercio che “i flussi transfrontalieri non si sono inariditi dopo il 2008”, scrive Drezner. Nel giugno 2013, l’Organizzazione mondiale del commercio ha stimato che l’effetto cumulato di tutte le misure protezionistiche decise dopo la crisi, nel tentativo di alcuni paesi di avvantaggiare le proprie economie erigendo barriere tariffarie o non tariffarie, ha generato una riduzione complessiva dei flussi commerciali dello 0,2 per cento. D’altronde i negoziati del Doha Round per una ulteriore liberalizzazione degli scambi di beni, servizi e investimenti saranno pure in stallo, ma il Wto ha continuato a funzionare egregiamente come foro per dirimere le dispute tra governi. E non è poco.

 

Il coordinamento emerso in sede di G20 ha perso un po’ di abbrivio con l’allontanarsi del momento più acuto della crisi, ammette Drezner, ma ha fornito una stampella non indifferente tra 2008 e 2009, con misure di stimolo fiscale per circa 2 trilioni di dollari nelle venti principali economie, pari all’1,4 per cento del pil globale. Sostiene Drezner: “Anche dei partner riluttanti come la Germania, alla fine, si sono inchinati alla pressione degli economisti e dei partner del G20. Berlino infatti, nel 2009, ha attuato il terzo più consistente stimolo fiscale del pianeta. Il fatto che la Germania abbia agito in contraddizione con le sue preferenze iniziali (pro rigore fiscale sempre e comunque, ndr) è un classico esempio di come la governance economica globale possa condurre a un maggiore coordinamento delle politiche economiche, e non essere soltanto il frutto di un accordo armonico tra i diversi punti di vista”.

 

Le Banche centrali, poi, hanno fatto la loro parte: non solo tagliando i tassi di interesse nell’autunno del 2008, in quella che secondo alcuni fu la prima espansione monetaria coordinata a livello mondiale della storia, ma anche con accordi bilaterali di swap temporanei di liquidità tra gli Istituti delle maggiori economie. Dal 2007 al 2012, poi, i bilanci delle Banche centrali dei paesi avanzati sono più che raddoppiati per dimensione, a testimoniare lo sforzo non ortodosso messo in campo. Perfino la Bri, che oggi suggerisce cautela a proseguire sulla strada delle politiche monetarie non convenzionali, nel suo rapporto annuale del 2012 ha riconosciuto che “l’azione decisiva da parte delle Banche centrali durante la crisi finanziaria è stata probabilmente decisiva nell’evitare una ripetizione dell’esperienza della Grande Depressione”.

 

Nemmeno la sicurezza internazionale ha risentito in maniera acuta dell’instabilità economica. Gli episodi di pirateria divenuti così frequenti nel 2009 nel Corno dell’Africa, per esempio, sono risultati un fuoco di paglia: spento, tra l’altro, grazie a uno sforzo inedito di cooperazione tra Stati Uniti, Cina e altre potenze. Secondo l’Institute for Economics and Peace, che ogni anno elabora il Global Peace Index, “il livello medio di pace nel 2012 è approssimativamente lo stesso del 2007”. Nel 2013 sono aumentati gli omicidi, ma questo difficilmente può essere attribuito a una défaillance della governance globale.
Come è stato possibile un coordinamento planetario così inedito in quanto a efficacia, perlomeno se confrontato con altre fasi di crisi profonda? Lo studioso americano, in cerca di una spiegazione, prende in considerazione tre fattori che da sempre muovono la politica globale: interessi materiali, potenza politica e potenza delle idee. Secondo alcuni, è scontato che interessi materiali consolidati spingano per un mantenimento dell’ordine capitalistico globale, quali che siano le sue conseguenze, anche dannose. Drezner però osserva che interessi simili non impedirono per esempio l’ondata autarchica dopo il 1929. Non solo: come dimostrerebbe il caso delle nuove e più stringenti regolamentazioni in ambito bancario, la cosiddetta Basilea III, anche una lobby forte e coesa come quella del credito – con il suo interesse a una normativa più lasca – può essere costretta a più miti ragioni. Le regole di Basilea III non costituiscono l’unico indizio che consiglierebbe di non esagerare il ruolo degli interessi materiali. In fondo, sempre dopo la crisi, un’organizzazione come il Fmi è arrivata a legittimare ufficialmente la possibilità, in alcuni casi, di utilizzare “controlli sui capitali” a cavallo dei confini nazionali. Gli investitori globali non devono aver fatto i salti di gioia.

 

A puntellare in maniera più robusta la governance globale è stata invece “una troika di grandi potenze – gli Stati Uniti, l’Unione europea e la Cina – con gli Stati Uniti che rimangono nella posizione di primus inter pares”. Ecco un’altra delle tesi apparentemente controintuitive sostenute da Drezner. Il declino degli Stati Uniti non esiste. L’occidente primeggia ancora, e di molto, se la sua forza economica viene misurata in base al potere d’acquisto, o ai tassi di cambio o al pil pro capite. Anche la potenza di fuoco delle esportazioni cinesi rischia di essere esagerata per motivi statistici. Primo, perché le fabbriche cinesi rappresentano sempre più l’ultimo stadio di una catena di montaggio globale, perciò il valore aggiunto dei beni made in China è spesso attribuibile ad altri paesi (vedi l’iPhone concepito in California e assemblato a Guangzhou). Secondo, perché una larga parte della capacità produttiva cinese – come accade anche in Stati Uniti e Ue – si fonda su investimenti diretti esteri: i profitti generati dalle esportazioni finiscono dunque, in larga parte, in paesi stranieri, spesso occidentali. La centralità del sistema finanziario americano, addirittura, è cresciuta ancora di più dopo la crisi, complice la stentata ripresa dell’Unione europea e il relativo scarso sviluppo di Pechino nel settore. Per non dire del dominio ancora in essere del dollaro come valuta globale e del primato militare a stelle e strisce ancora intatto. Drezner ovviamente non nega che il mondo emergente sia oramai perlopiù emerso e abbia rosicchiato terreno alla locomotiva occidentale, ma allo stesso tempo sottolinea ed elogia l’atteggiamento finora collaborativo della leadership cinese sullo scacchiere mondiale. Esempi? L’azione congiunta tra Pechino e Washington per domare con la forza militare gli episodi di pirateria in Africa, oppure la stessa disponibilità dimostrata finora dai cinesi ad abbandonare progressivamente – dopo i ripetuti inviti di G20 e Fmi – una politica di sottovalutazione del renminbi che favorisce le proprie esportazioni. Dopo il crollo di Wall Street nel 1929 assistemmo a una vacatio della leadership globale, tra l’impero inglese in declino e gli Stati Uniti ancora riluttanti a vestire i panni di guardiani del pianeta. Oggi quella vacatio non c’è stata: grazie agli Stati Uniti, dunque al loro impegno a sostegno del sistema di governance allestito dopo la Seconda guerra mondiale, e grazie anche a Bruxelles e Pechino.

 

Le idee che erano alla base di quest’ordine globale, infine, hanno mostrato una resistenza inattesa. “Esistevano ottime ragioni per ritenere che la crisi finanziaria del 2008 avrebbe delegittimato i princìpi economici che sostenevano l’ordine economico globale aperto – dice Drezner – Nonostante questa aspettativa, la delegittimazione è stata soltanto marginale. Poiché gli attori emergenti non sono riusciti ad articolare un’alternativa coerente, le idee neoliberali del Washington consensus hanno continuato ad agire da guida per i protagonisti globali, anche nel mondo post crisi”. L’ex governatore della Federal reserve statunitense, Alan Greenspan, si sarà pure conquistato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo ammettendo come perfino per lui fosse franata l’idea dei mercati che si correggono da soli, ma il sostegno dell’opinione pubblica mondiale al libero mercato e al libero scambio commerciale non è venuto a mancare. Secondo il Pew Research Center, il 70 per cento degli americani nel 2007 si diceva a sostegno del libero mercato e il 59 per cento favorevole al libero scambio: nel 2012 eravamo rispettivamente al 67 e al 67 per cento. In Cina il calo è stato impercettibile: dal 75 al 74 per cento il sostegno al libero mercato; dal 91 all’89 per cento per il libero scambio. L’Italia, non esattamente la patria degli animal spirits, un po’ curiosamente fa storia a sé: il sostegno al libero mercato è sceso dal 73 al 50 per cento. Tuttavia, con tutta l’autostima possibile, non siamo più noi a indirizzare le sorti produttive del mondo. Conta di più il fatto che lo stesso Partito comunista cinese inizi a mettere in dubbio “la continua dominazione del governo in settori chiave dell’economia: mentre prima essa costituiva un vantaggio, nel futuro potrebbe agire come un limite ai miglioramenti di produttività, innovazione e creatività”, come si legge nel documento “Cina 2030” elaborato congiuntamente da Banca mondiale e Centro di ricerca per lo sviluppo del governo di Pechino. E’ vero, la crisi globale ha favorito la ricerca di approcci nuovi alla teoria economica. Politiche espansive fiscali e monetarie, prima bollate semplicemente come “keynesiane”, sono state riabilitate e in alcuni paesi apertamente perseguite. Tuttavia – osserva Drezner che preferisce non parteggiare per l’una o l’altra scelta – nemmeno i dettami classici che prevedono finanze pubbliche in ordine e politica monetaria stabile sono stati rottamati dalle élite occidentali. Il dibattito ancora in corso è anzi una delle cause di un coordinamento non proprio ottimale (eufemismo) in materia di politiche macroeconomiche.

 

Una domanda fondamentale incombe però su tutto questa ricostruzione. Se la governance multilaterale ha funzionato meglio delle attese, se il capitalismo globalizzato continua ad avere i secoli (e non i giorni) contati, se il pianeta ha ripreso a crescere, se è tutto vero e dimostrato da non pochi dati, perché non ce ne siamo quasi accorti? Drezner propone quattro linee interpretative, tutte piuttosto convincenti. Innanzitutto conta un fattore geografico, cioè l’ubicazione della maggior parte dei commentatori e degli analisti che fanno opinione nel mondo: “Dal 2008 c’è stato un progressivo allontanamento tra il luogo in cui si trova la maggior parte di quanti scrivono di economia blobale e il luogo in cui si trovano le locomotive della crescita globale”. Il tasso di crescita globale è tornato subito in terreno positivo grazie a quanto accadeva fuori dai confini di Stati Uniti, Unione europea e Giappone. Gli intellettuali, insomma, vivono nei paesi investiti più duramente dalla Grande recessione, e in qualche modo questo ha influito sul loro punto di vista. Seconda linea interpretativa: spesso vengono erroneamente sovrapposti i fallimenti delle politiche adottate a livello nazionale o regionale con i fallimenti a livello globale. Se un paese come l’Italia stenta a crescere, per esempio, questo lo si deve a un deprimente connubio tra riforme strutturali rimandate per decenni dalla nostra classe dirigente e aggiustamento macroeconomico sbilanciato all’interno dell’Eurozona. Così diventa quasi inutile indagare a Roma per cercare le prove del fallimento del capitalismo e delle sue istituzioni. Inoltre, secondo Drezner, la nostalgia gioca brutti scherzi: tendiamo a idealizzare i successi della governance globale dei tempi che furono, dimenticando le sue manchevolezze o scegliendo male i termini di paragone. Infine, “nel mondo dei pensatoi che si occupano di affari internazionali, il pessimismo fa vendere, pessimism sells. Da un punto di vista professionale, è meno rischioso prevedere disgrazie e depressioni future che sostenere che le cose possano risolversi per il meglio. Avvertire gli altri di un disastro che poi in realtà non si verifica costa meno alla credibilità di una persona di quanto non costi invece il fatto di prevedere che tutto andrà bene alla vigilia di una calamità”. All’indomani di una recrudescenza delle tensioni geopolitiche alle porte dell’Europa, in Ucraina come in medio oriente, c’è da sperare per tutti noi che Drezner non abbia ecceduto con l’ottimismo. Per il momento, numeri alla mano, è ragionevole dire che “il sistema ha funzionato”. Anche se a volte, comprensibilmente, in occidente sembriamo dimenticarcelo.

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