La santanché all'Unità
Era il 38 luglio, quando Daniela Santanchè arrivò. Esattamente il 38 luglio. Come l’elettrotecnico nell’antica surreale canzone degli Squallor arrivò, però senza “piede di porco a pila”. In alto i tacchi. Cronaca immaginaria del primo incontro tra l’editrice e i compagni della redazione.
Era il 38 luglio, quando Daniela Santanchè arrivò. Esattamente il 38 luglio. Come l’elettrotecnico nell’antica surreale canzone degli Squallor arrivò, però senza “piede di porco a pila” nella Kelly di Hermès che pendeva dall’avambraccio, esattamente là dove una volta il compagno diffusore piazzava le venti copie del giornale prima di avviarsi, casa per casa, verso la vendita domenicale. E siccome, sicuro sicuro, “era il 38 luglio e faceva molto caldo / ed era scoppiata l’afa”, un filo di sudore, una cascata a dirla tutta, calò e si ghiacciò sulle schiene, “questo tremendo film” – tale e quale, ebbe veloce annotazione mentale un dotto compagno della redazione culturale (sezione storia), i soldati di Montezuma all’apparizione dei cavalli dei conquistadores di Cortés. E anzi, per esattezza, a tutti sembrò di udire rumore di zoccoli, come di carica di cavalleria, risuonare lungo i corridoi di via Benaglia – così che Alberto Crespi, sublime critico cinematografaro, prendendo posizione di contrattacco dietro la scrivania, e innalzando a mo’ di scudo e di anatema e di barricata l’intera raccolta degli ultimi decenni del Morandini, propose raffinatissima citazione da “Viva Zapata!” del raffinatissimo Elia Kazan: “Con Marlon Brando e Anthony Quinn”, sottolineò. “Però Walter non volle allegare la videocassetta, peccato…”. Magari Marlon! Magari Anthony! – sospirarono i compagni redattori, pronti, nel rimpianto che non cede alla rassegnazione, a far festa da Oscar, in veste di impensabili salvatori, pure a Bombolo e a Jerry Calà. Il lento, inesorabile, stordente rumore era solo risuonare di tacchi rimbombanti (opportunamente pitonati: se non a pellame, perlomeno a metafora) – “Diobonino, so’ almeno come tre risme di carta sovrapposte”, ammirata e perplessa registrò una redattrice della redazione sindacale, camussiana d’opere e di pensiero, lestamente occultando dietro una sedia i freschi sandali Birkenstock. Tac-tac-tac-tac-tac-tac… “O Madonna, il pendolo di Poe…”, si udì mormorare. Pulci, il bellissimo cagnetto della redazione, con un certo turbamento, e non minore preveggenza canina, cercò rifugio dentro una fotocopiatrice lasciata aperta. Tac-tac-tac… In un fresco combinato tailleuristico lino/cotone – tra il beige e il bianco opaco, nemmeno il sospetto di una traccia di ghepardato o tigrato o leopardato o zebrato: una rassicurante miscela, visivamente una coppa di gelato alla nocciola e stracciatella – apparve Daniela, dispensando ora un sorriso ora un ghigno, occhialoni scuri da ventiquattro pollici, s’avanzò solennemente nemmeno fosse, la sala riunioni dell’Unità, l’antico privé del Billionaire. “Comodi, comodi, comodi…”. Un compagno redattore della cronaca, canaccio de questura, quella sera a cena da amici ebbe modo di commentare: “Ci si aspettava che ci fosse pure Gunther, un cane lupo ci stava bene…”.
La dott.ssa Daniela onorevole Santanchè, arrivò. Schiantò sul modesto tavolo di formica bianca della sala delle riunioni il peso pecuniario della Kelly, “scusate, senza non mi sento me stessa”, sorrise gentile, osservò perplessa il malcombinato disposto delle poltroncine intorno – come a chiedere soccorso, come a esprimere perplessità (così che a un redattore di antica schiatta veltroniana, di quelli che certe cose le sanno, venne in mente Nero Wolfe, quando il pachidermico investigatore di Rex Stout rimproverava il suo braccio destro per l’inadeguatezza della seduta: “Archie, siete impazzito?”). Fu solo un breve istante – ma tra i cronisti del servizio politico il sospetto si mutò in certezza, per poi passare subito dopo tra le dimenticanze: “Cazzo, adesso ci combina l’arredamento come nella sede di Forza Italia, Luigi XIV e Kim Jong-un…”. Ma Daniela sorrise, si potrebbe benissimo dire accomodante, neanche spazzolò con la sciarpa di seta cruda la copertura grigio/nera/impataccata, e delicatamente si calò. “Bene, ragazzi, eccoci qui…”. Girò lo sguardo: “Eccoci, com-pa-gni…”. La pronunciò così, la fatidica e cara e faticosa parola, scandendola e scrutando i presenti: “Com-pa-gni…”. Al critico Crespi, sempre cinematograficamente alleprato, preciso preciso apparve in visione la venerata immagine di Alberto Sordi americano a Roma, seduto col piatto di pasta davanti: “Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, maccarone! Io me te magno!”. A Renato Pallavicini, colto pure di grafica e fumetti, venne d’impeto da concordare con la signorina Pascale in Berlusconi: “E’ come Crudelia De Mon… Quella di Disney…”. Si accese dibattito nelle retrovie del corridoio redazionale. “Macché, come quella del film, come Glenn Close…”. “Magari. Questa è proprio come la Santanchè-ahimè-ahimè…”. Daniela fece fare allo sguardo un altro giro, accavallò le gambe, così che un tacco della scarpa emerse in avanscoperta, a mo’ di periscopio di sottomarino dell’Asse in pieno Atlantico, di pitone(ssa) affamata sul fondo amazzonico. Persino i più temerari arretrarono. Ci fu chi si sentì cucciolo di dalmata come mai in vita sua – “Oh Concita, perdonaci!”, fu udito mormorare. Chi si sentì Hänsel. E chi Gretel. Ma sempre davanti alla casetta di marzapane. “Com-pa-gni…”. Ancora? Daniela passò le mani sulla luminaria che le pendeva dalle orecchie. Gli anelli – almeno tre, parvero, nel riflesso delle dorature – catturavano la luce dell’estate avanzata. Aprì e chiuse le dita ritmicamente, come a invitare a entrare. La casetta di marzapane, eccola… Hänsel. Gretel. “Avanti, com-pa-gni, avanti. Conosciamoci meglio, prima di metterci al lavoro. Parliamo liberamente. Guardiamoci negli occhi”. E lentamente fece calare, giù dalla perfetta pendenza del naso, i ventiquattro pollici oscuri.
“Voi non mi conoscete…”. Respiro trattenuto. Altro sguardo. “Vedo che mi conoscete…”. Ghigno? “Voglio dire: non vi conoscevo. Capirai, lì al Forte…”. La compagna Daniela Amenta, pratica di tendenze metropolitane, in un sussurro: “Ma dài, ma che frequenta er Forte Prenestino?”. Il saggio Ninni Andriolo, in un sussulto: “Sarà Forte dei Marmi…”. Appunto. “Ma in questi giorni vi ho letto. Attentamente. Mi sono fatta portare l’intera raccolta degli ultimi anni dall’archivio… Che pure Signorini si è meravigliato… E Sallusti a cena quasi non mi parlava, gli ho dovuto giurare che non avrei sistemato tutte quelle copie a Courmayeur. Quell’altro bel tipo, il Quagliariello, faceva pure lo spiritoso alla Camera. Mi ha detto: ecco la nostra nuova Rosa Luxemburg! Gli ho risposto di andare a pettinare Alfano… Che caldo… Avete mica un bicchiere d’acqua, ma di quella povera di sodio, mi raccomando…”. Con maggiore sprezzo del pericolo, si fecero avanti i membri del cidierre, un denso comunicato tra le mani. “Senta, prima di avviare la discussione…”. “Sì, cari?”. “C’è il documento del…”. “Dopo, cari, dopo… Piuttosto, c’è Bruno Gravagnuolo in giro?”. Gravagnuolo, baffuta vestale gramsciana del giornale, ebbe un principio di mancamento nel sentirsi chiamare in causa. Aveva temerariamente incrociato la penna in dispute culturali con Pigi Battista e il duo Alesina & Giavazzi, ma adesso… Invocò a estrema difesa Gramsci e Togliatti e Paolo Spriano tutti insieme, e si avanzò. “Eccomi!”, si limitò a dire, offrendo nell’ora suprema il petto per il prezzo per tante buone cause sostenute. “Eccomi!”, ripeté – tale e quale, pareva, il Ciceruacchio nell’ora fatale. Pure Crespi non seppe trattenere l’ammirazione: “Come Nino Manfredi…”. Daniela lo scrutò, sorseggiò un po’ di acqua senza sodio (solo lo 0,01 per cento, sperò), e sorrise: “Vorrei complimentarmi con lei”. Gravagnuolo si girò, incrociò il viso pensoso di Bianca Di Giovanni, in posizione di combattimento, e quello di Toni Jop, martirizzato già dai Cinque stelle, perfetta icona resistenziale. “Lei, lei…”. Il pensiero di Gravagnuolo corse riverente a Franco della Peruta, a Norberto Bobbio, e certe dispute sul Divenire e il Nulla di Severino e De Giovanni – ma niente, l’incrocio con la dott.ssa Santanchè proprio non gli riusciva. “Caro, scorrendo le pagine dell’Unità, ho avuto modo di notare che lei cura una rubrica che s’intitola ‘Tocco e ritocco’…”. Chi era stato, il delatore? Polito? Della Loggia? Gravagnuolo fu eroico: “Rubrica di polemiche culturali, e lei non può…”. “Sì, sì… Lasci stare, che già Sallusti mi parla sempre di Veneziani, a proposito di cultura… Le volevo solo dire che apprezzo grandemente il titolo della sua rubrica. Sa, essendo il mio ex marito un chirurgo estetico, ho subito notato la bella modernità del tema… Solo la esorterei, avendo a disposizione un titolo così tanto felicemente evocativo, a inserire nuove dinamiche. Dico, nel tocco vada pure su Machiavelli e Cattaneo, rugosi ed efficaci, ma nel ritocco non trascuri costantemente il botulino e l’acido ialuronico… Su, non è possibile… Conservare e ammodernare, caro, conservare e ammodernare…”. Gravagnuolo arretrò. Con spavento. Come se sulla scrivania gli fosse piombato un nuovo libro di Giampaolo Pansa sulla Resistenza, con l’obbligo di lettura a voce alta e su pubblica piazza.
Daniela sospirò. “E questa è fatta”. A tridente, il cidierre si rifece sotto: “Questo documento approvato dall’assemblea…”. “Dopo, cari, dopo…”. Osservò le facce dei presenti: chi atterrito, chi agghiacciato, chi prossimo ad accasciarsi. Paolo Branca, il redattore capo centrale, si precipitò a mettere in salvo il suo Pulci. “Parliamoci chiaro. Voi lo sapete, tout le monde lo sa: a me poco piacciono quelli con le palle di velluto. Acciaio, ferro, almeno gres porcellanato ci vuole… Dico: siete di sinistra? Dico: siete comunisti? E allora, perché non fate il vostro mestiere? Mi state a fare i liberali? I socialdemocratici? I democratici? I confindustriali? Il brand così che fine fa? Ma l’avete sentito Matteo? Il brand, eh, ci pensate mai al brand? Io sono un’imprenditrice, mica Panebianco, mica vi voglio convertire… Casomai – a sostegno del brand, ecco, sempre e solo al sostegno del brand dobbiamo operare – vorrei più Che Guevara sul giornale, più bandiere rosse, più Lenin, se vi scappa un inedito di Pietro Secchia! Metteteci l’elettrificazione, magari il botulino, ma pure i soviet, battetevi per Floris, ma pure contro i kulaki! E Togliatti, vi siete scordati Togliatti? Gravagnuolo, mi meraviglio e mi raccomando… Ragazzi, sveglia! Il meglio di ciò che siete stati col meglio che questa nuova stagione che si apre può offrire all’Unità… Ma ve lo devo dire io? Ma ve lo deve dire il mitico Mat?”. La maggior parte dei presenti ebbe precisa sensazione di trovarsi su un volo della Malaysia Airlines – e sotto l’Ucraina. Con ancora maggiore decisione, Pulci cercò di occultarsi nel fondo della fotocopiatrice. “Sono stata chiara, com-pa-gni? Niente più palle di velluto!”. Silenzio. Qualche furtivo tastamento – a verifica. Qualche sguardo dalle compagne redattrici – e successivo pensoso annuire. “Però, c’è in tutto questo un’eco di Reichlin…”. La voce veniva dal fondo del corridoio, da un vecchio redattore. “Ehhhhhh?” – fu un coro. “Ve lo ricordate il direttore Alfredo Reichlin?”. “Ehhhhhhhh?”. “Beh, non era lui che a volte, quando la polemica era forte, ci esortava: compagni, qui ci vuole una risposta a cazzo sfoderato?”. Spuntarono delle lacrime.
La dott.ssa Daniela Santanchè riempì un nuovo bicchiere d’acqua povera di sodio (meno dello 0,01 per cento, calcolò). “Buona… Cos’è?”. “Rubinetto”, disse secco il compagno fattorino. Daniela allontanò il bicchiere. Il sodio sembrò la minaccia minore. “Tenete a mente questo: con una decisa virata a sinistra, possiamo vendere un prodotto che ha ancora il suo mercato…”. “Sì, certo l’Unità… Qui nel nostro documento lo spieghiamo…” – di nuovo il trio cidierre. “Dopo, cari, dopo… Okappa l’Unità, ma nello specifico parlavo di un’altra cosa: il comunismo! Quello, com-pa-gni, è il nostro obiettivo”. “Il comunismooooooo?”, coro generalizzato. Il pensiero di Gravagnuolo corse grato a Labriola e a Nicola Badaloni, quello di Crespi a Citto Maselli, quello di Pulci alla possibilità di un luogo più riparato dell’interno della fotocopiatrice. “Insomma, il comunismo, non esageriamo… Meglio, l’idea di comunismo. Com’è che dite a sinistra: il bisogno di comunismo, ecco... Per dire, quando il mio amico Signorini mette un paio di tette in copertina su Chi, allora, non è che davvero promette quelle tette al lettore, ma risponde al bisogno di tette che è indubitabile. Su quello agisce. Così faremo noi…”. Pietro Spataro, vicedirettore e poeta, cercò un verso appropriato alla situazione, ma proprio non gli venne. Roberto Monteforte, vaticanista, cercò consolazione in un paio di poste di rosario. Daniela Amenta si passò le mani tra i capelli alla Mafalda: “Bisogno di comunismo, dici, compag… Scusi…”. “No, no, cara, non ti scusare. Casomai vai dal parrucchiere, ti do un buon indirizzo… Dico, avete fatto ultimamente dei manifesti per le feste dell’Unità che neanche il caro Flavio… dico, Briatore… quando doveva lanciare la nuova stagione del Billionaire: una volta un bicchiere da cocktail, un’altra un paio di cosce al vento, due olivette, poi certe chiappe per lanciare il giornale… No, dico, che volete piazzare, un resort a Malindi? Un edile, ci vuole, sul manifesto. Un metalmeccanico, facciamocelo prestare dalla Camusso, casomai ci parlo, che pure lì, a parrucchiere... Vabbè, non divaghiamo... Un disoccupato. Una massaia…”. “Rurale?”, si lasciò scappare la redattrice con i Birkenstock ai piedi. “No, carina, metropolitana è meglio… Sa, magari di là mi sono più lettrici di Diva & Donna… Insomma, come ha detto Mat, del brand dobbiamo avere cura, mica della Dandini… A proposito, la festa dell’Unità quest’anno dov’è che si fa?”. “A Bologna, pare…”. “Bolooooogna? Con quell’afa e quelle zanzare? Ma li vogliamo accoppare del tutto, i nostri lettori? Sentite, ho un’idea, la butto là... Come si è detto: conservazione e ammodernamento. D’accordo? Vi faccio questa proposta: invece dell’afa di Bologna, che ne dite del Twiga al Forte…”. “Prenestino?”, chiese ancora conforto l’Amenta. “E daje, zitta cocca, famme sentì…”. “… Dei Marmi: aria buona, venticello, bandiere rosse al vento, magari viene pure la Barbara D’Urso… Ma lo sapete che lì persino i vu’ cumprà… ops, scusate, i venditori ambulanti… vanno ormai in giro per la spiaggia con il Pos per i pagamenti telematici, l’avete letto? No, dico, e noi qui col Willy Brandt? Madonna, vi prego, mandami bottiglietta di Evian senza gas…”.
Ci fu qualche obiezione. “Noi siamo il giornale fondato da Gramsci…”. “Ottimo, pensate che ce ne sono di quelli fondati da Feltri… A proposito, questo Gramsci da dove viene, che un cognome così strano neanche lì nel cuneese l’ho mai sentito?”. Gravagnuolo tornò ad avanzare, forte della sua dottrina: “E’ sardo…”. “Oh, curioso, a Porto Cervo non ne parlano mica… Ma va bene così, va benissimo, poi la Sardegna è un brand mica male… Pensiamo a qualcosa sul mirto, ecco, magari da allegare insieme ai suoi libri…”. “I quaderni dal carcere”, propose Gravagnuolo, già un po’ avvertendo la responsabilità di novello Valentino Gerratana. “Però… Vedete, vedete, siamo avanti pure sul tema della malagiustizia, e non sfruttiamo il possibile brand… Dico, ma l’avete mai vista la faccia di questo Gramsci? Guardate, l’ho cercata apposta su Wikipedia… E’ fa-vo-lo-sa! Ma ci pensate cosa ha fatto Warhol con Mao? Cosa mai non potremmo fare con Gramsci! Uno stile così, un po’ di fucsia e un po’ di verde acido, turchese sul collo della giacca, secondo me…”. Gravagnuolo arretrò, provò a contendere il rifugio a Pulci. “Sentite, non vi nascondo che la situazione è difficile, e con il brand che abbiamo dobbiamo operare, creare un immaginario… Mi è venuta un’idea, ho visto quel cagnolino prima entrando…”. “Nooooooooooooo!!!!!!!!”, l’urlo di Paolo Branca squarciò la redazione, risuonò per tutta via Benaglia, giunse fino al gasometro. “Pulci noooooooooooooo!!!!!!!!”. La Pitonessa spalancò le fauci: “E perché si chiama Pulci?”. “Perché l’ho trovato pieno di pulci su un molo, in Sardegna…”. “Ancora la Sardegna, vedete? E’ destino, un’indicazione… Senta, carino…”. Branca non si fece intimorire: “Pulci non si tocca!”. “E chi lo tocca, soprattutto dopo quello che mi ha detto? Abbia pazienza…”, rispose la Santanchè. Poi ordinò: “Mi sia portata la bestia!”. Il cagnolino fu tirato fuori dalla fotocopiatrice, e disperatamente attaccato al collo rassicurante di Jolanda Bufalini fu condotto alla proprietaria della Kelly. Si sentiva, la bestiola, come certi che se la vedevano male nel “tempio maledetto” di Indiana Jones, quando lo stregone si sta per pappare il cuore. “Ecco, quello che intendo… Anche il canetto è un nostro brand… Pulci, Pulci, tesoro…”. Ululò, il piccolino. “Tranquillo, tranquillo… Pensato un po’, com-pa-gni, cosa sono stati capaci di combinare quell’altri con Dudù, che ha fatto più lui che tutta quella banda di disutili di Forza Italia… Se noi diamo una sbiancata a Pulci, gli facciamo tanti bei riccioli, che c’ho proprio un parrucchiere sottomano, un bel fiocco al collo che pure da Hermès ne hanno di me-ra-vi-glio-si, rosso, si capisce…”. Idealmente, il cagnetto si appoggiò al rosario recitato da Monteforte. Invocò Pongo e Peggy. “E’ un brand, è pure lui un brand… Avete capito adesso? Soltanto che il nome non funziona, mi dispiace, non funziona… Pulci, Pulci… Per il brand serve altro. Ecco, ecco, ecco, ci sono! Pucci! Anzi, Pucci-Pucci, sentite che bel suono? Pucci-Pucci… Ti piace, eh, tesoro, ti piace?”. Pulci disperatamente abbaiò…
(Qui il sogno finì. Causa afa, forse. Causa temeraria peperonata a tardiva festa dell’Unità – molto brand, scarso effervescente Brioschi. All’Unità, lunga lunga vita!).
Il Foglio sportivo - in corpore sano