La santissima mamma
Elogio appassionato di Angela Merkel. Goffa, rotonda, sgraziata, dà un volto umano alla tradizione tedesca. Nessuno come lei incarna il super potere della normalità.
Tanto per cominciare, anche se mastica l’inglese, come lo mastica Matteo Renzi, lei in pubblico l’inglese l’ha parlato soltanto una volta, a Londra, leggendo un paludatissimo discorso di fronte al Parlamento. Non usa mai la lingua di Steve Jobs e di Barack Obama. E non la parla in pubblico perché non ha complessi d’inferiorità da compensare. Non la parla perché sa che l’inglese esibito (e sgrammaticato) di Renzi, quello che il presidente del Consiglio italiano ha sfoggiato poco tempo fa a Venezia e ancora prima, a maggio, ha sfoderato a Roma di fronte al segretario di stato americano John Kerry, quell’ostentazione maccheronica, a braccio, è in realtà un dettaglio che ribadisce strutture profonde di geopolitica: vale a dire l’eterna subalternità dell’alleato di fronte alla solitudine del gigante americano. E lei, Angela Merkel, cioè la signora Germania, è solida dunque non è spavalda, è forte dunque non è bullesca, non indossa i Ray- Ban supercafoni di Sarkozy, non va in giro a torso nudo come Rambo-Putin, non assomiglia in nulla al suo predecessore, Schröder, che vestiva da Brioni e fumava sigari cubani come Al Capone. Angela Merkel è il super potere della normalità. Goffa, rotonda, sgraziata, dà un volto umano alla tradizione germanica: quando festeggia la sua Nazionale campione del Mondo ingobbisce la testa incassandola nelle spalle a stampella, stretta nella giacca con tre bottoni chiusi, e dai colori improbabili: verde pistacchio, lillà, salmone, gli stessi colori della regina Elisabetta. Mai un eccesso, persino i colori forti si spengono, addosso a lei. Eppure Merkel, a differenza dei super machi suoi colleghi, dei narcisi, dei rivoluzionari che giocano con le figurine della modernità, con Twitter e con l’iPhone, lei che non promette certezze fintanto che intravede rischi, lei che non batte mai i pugni e non pronuncia la parola decisiva, la “Machtwort”, lei che infagottata nel cappottino fa la spesa al supermercato sotto casa, ebbene lei, questa signora impacciata e matronale, è il massimo dell’efficienza, della precisione, dell’affidabilità, della ricchezza e della modernità europee. E senza sbavature, senza gesti d’imperio. Il suo è un potere morbido, concertativo, persino esasperatamente mediatorio, sia in politica interna, nella grande coalizione con l’Spd (e prima con i Liberali), sia in politica estera, nella sua infinita carambola tra Mario Draghi e Wolfgang Schäuble, tra il ministro che avrebbe voluto la Grecia fuori dall’Eurozona e il presidente italiano della Banca centrale europea, tra i falchi e le colombe, tra la Bce e la Bundesbank, tra i rigoristi e gli spendaccioni, tra piagnoni meridionali e austeri settentrionali, tra gli interessi del nord e quelli del sud.
Eppure in Italia la rappresentano come una donna di ferro, in Polonia le disegnarono i baffetti di Hitler, in Grecia le attribuiscono i riflessi del dottor Stranamore. Così Grillo dice “vaffan Merkel”, e crede d’aver detto tutto: “crisi economica”, “politica monetaria inefficiente”, “disoccupazione giovanile”, “euro-pigrizia”, “titoli di stato”, “Bce”, “debito pubblico insolvente”. Mentre i giornali della destra berlusconiana la chiamano “culona”. “E’ stata la culona”, erinnert ihr euch? Vi ricordate? Ma la volgarità italiana rende Angela Merkel persino più simpatica, anche per la dismisura, per l’evidente sproporzione tra i nani biliosi che sganciano flatulenze in un paese che non sanno governare e il gigante tranquillo, come l’ha battezzata Time quando nel 2010 l’ha eletta “europea dell’anno”, che invece fa prosperare la Germania e governa con misura anche l’Europa. E insomma il sentimento anti merkeliano, anti tedesco, in Italia è un rutto che si disperde nell’aria, non attecchisce, non funziona, ha qualcosa d’incongruo per chi non frequenta soltanto le latrine di Internet. Basta sfogliare un vero quotidiano per sapere chi è Merkel, e basta viaggiare, conoscere un po’, alfabetizzarsi, leggere ogni tanto un libro, gettare un occhio a un giornale straniero, per sapere cos’è la Germania. Da anni i giovani italiani scoprono la vita allegra e cosmopolita di Berlino, un universo ricco e rassicurante nel quale si sente quasi il bisogno impellente d’essere ammessi, mentre i giovani tedeschi amano l’Italia meridionale, si fanno investire da ventate di odori, suoni, immagini e splendori, gli stessi di Goethe, uno spettacolo inatteso e magnifico: “Sai tu la terra ove i cedri fioriscono? / Splendon tra le brune foglie arance d’oro / pel cielo azzurro spira un dolce zeffiro / umil germoglia il mirto / alto l’alloro”. E non c’è paese in Europa che abbia fatto così tanto e dolorosamente i conti con la propria storia e con i propri orrori come la Germania. E non c’è capo di governo che abbia fatto della temperanza – una risoluta temperanza – la propria cifra, come Angela Merkel. Mentre l’Italia seppelliva il ventennio autoassolvendosi nell’oltraggio al corpo morto di Mussolini, mentre i suoi intellettuali facevano il lungo viaggio attraverso il fascismo per arrivare indenni alla nuova Repubblica, “i furbissimi sempre a galla” li chiamò Ruggero Zangrandi; mentre il nostro paese rimuoveva, la Germania invece viveva il tormento della coscienza, con Thomas Mann, il più grande scrittore tedesco del secolo XX, che si rifiutò di rimettere piede in patria: “Confesso di avere paura delle macerie tedesche, di quelle materiali e di quelle umane”. Ed è soltanto da una nera pozza d’ignoranza e malafede che può liberarsi il gas nauseabondo del vaffan Merkel, l’immagine di una cancelliera di ferro, di una culona violenta e padronale, associata ai baffetti di Hitler. E’ dalla cosiddetta “frattura della civiltà rappresentata dalla Shoah” che Merkel fa discendere la responsabilità storica dei tedeschi verso il diritto di esistere di Israele e, di conseguenza, anche l’aspra opposizione ai programmi atomici dell’Iran, la solida appartenenza al blocco occidentale, potenza e rispetto: “Voglio una Germania tollerante verso gli altri, che non si dia delle arie e che non nasconda la propria lampada sotto il vaso”. Questa donna poco avvenente, semplice, cresciuta nella Ddr, figlia di un pastore protestante, divorziata e risposata, fautrice dei matrimoni omosessuali, difende l’interesse nazionale tedesco senza essere sciovinista, e ha così impedito che a destra della Cdu, nel suo paese, nascessero forti partiti anti europei com’è invece accaduto nel paese selvatico di Grillo. Per salvare l’euro la Germania ha accettato ciò che sembrava inconcepibile, cioè l’acquisto illimitato d’obbligazioni sovrane da parte della Bce a settembre del 2012.
E insomma Angela Merkel è un contro-modello per l’Europa. E’ donna ma senza essere desiderabile, dunque più che donna è mamma. Ed è diversa persino dagli altri politici tedeschi, non è infatti severa e non è nemmeno vichinga, il suo modello non è certo Bismarck. Guardinga, timida, trattenuta, è il contrario della sua vincente Nazionale di calcio. Esprime tutt’altro. Non ha nulla della potenza di Klose né dell’eleganza di Özil, è l’opposto dell’intemperante Schäuble, non mostra il dito medio come il suo vicecancelliere della Spd, Steinmeier. Merkel è un leader di basso profilo, ed è questo basso profilo a renderla grande. Mai una parola, mai nemmeno un pensiero sopra le righe, nemmeno per Silvio Berlusconi, non certo un amico, au contraire. E tutti ricordano il timido sorriso d’imbarazzo opposto da Merkel alla performance canzonatoria di Sarkozy il 23 ottobre 2011, dopo che un giornalista, in conferenza stampa, aveva chiesto se si sentissero “più rassicurati dopo aver incontrato il premier italiano Berlusconi”. Sarkozy era inutilmente sarcastico, stupidamente beffardo, leader d’un paese in declino ma che giocava al primo della classe, mentre lei era seria, poi improvvisamente impacciata, a disagio, e non perché non pensasse anche lei male del Cavaliere, ma perché quel sorrisetto francese era fuori luogo, arrogante, vanaglorioso, tutto ciò che Angela Merkel non è. “Quando posso cucino a mio marito la zuppa di patate con gli involtini”, ha raccontato una volta allo Spiegel. Riservata, tiepida, talvolta quasi svampita. Quando le si chiede conto di sue dichiarazioni talvolta risponde: “Ho detto questo?”. Oppure, se interrogata su assemblee cui ha partecipato, domanda incredula, avvolta in un’aureola di candore: “Io c’ero?”. La sua espressione volutamente disincantata non nasconde segreti. Il suo segreto è di non averne. Priva di ossessioni ideologiche, d’orgogli luciferini, la sera del 9 novembre 1989, mentre centinaia di berlinesi dell’est come lei si affrettavano ai varchi appena aperti del Muro, Merkel, giovane laureata in Fisica, andò alla sauna con un’amica, com’era abituata a fare ogni giovedì. E soltanto a sera, caracollante, fece un giro nell’ovest della libertà, ma tornò subito indietro perché l’indomani “dovevo alzarmi presto”. Per lei l’Europa è un fatto, non un’astrazione. L’Europa non è un’idea lacrimosa da trattare con il pathos artificiale di Romano Prodi o con l’alito pesante e il pensiero leggero di Matteo Salvini. L’esercizio del potere richiede rigore e misura, distacco, sofferenza persino. Nel 2012 le chiesero fino a quando la Grecia avrebbe dovuto continuare nel suo processo di riforme. “Finché le occhiaie di Papandreou non saranno lunghe come le mie”, rispose con un soffio. E dunque la Germania, nel suo momento di maggior splendore e forza, ha un capo di governo che esercita il pudore come regola di vita, che è goffo eppure potentissimo, che conosce solo gesti controllati e talvolta sofferti, che adesso, a sessant’anni appena compiuti, giovedì scorso, dalla vetta d’un potere che sembra eterno, fa sapere attraverso lo Spiegel di voler lasciare, di volersi ritirare, imbattuta e invincibile. E infatti, circondata com’è da capi di stato e di governo che si sentono tutti, invariabilmente, dei pezzi di storia, lei che forse dopo Fidel Castro è davvero l’ultimo leader mondiale di grande consenso, ha invece l’aria d’essere lì quasi per caso, di scusarsi con lo stesso fare impacciato con il quale la sera della finale, in Brasile, sul palco della premiazione, ha abbracciato il portiere campione del Mondo Manuel Neuer. Herzlichen Glückwunsch zum Geburtstag, liebe Bundeskanzlerin. Buon compleanno, signora cancelliera. Ad avercene di Merkel, in Italia.
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