La guerra, le prove
Nel disordine mondiale non ci sarà giustizia per i morti del volo Mh17
Arrivano i primi cadaveri in Olanda. Manca una “smoking gun” sulle responsabilità di Mosca nel disastro.
I primi cadaveri recuperati dall’aereo malese abbattuto una settimana fa nel cielo sopra l’Ucraina dell’est sono arrivati ieri a Eindhoven, in Olanda. Fiori e strazio ad accoglierli, nel giorno di lutto nazionale per le vittime di quel che gli olandesi considerano il loro undici settembre: sono loro a pagare il tributo più alto di questa tragedia, 300 persone cadute da un aereo che si è spezzato in volo, tutte morte. Ora inizia il processo di identificazione, ci vorranno mesi, sono arrivati quattro esperti dall’Australia, considerati i più tosti nel mestiere, per dare una mano all’Interpol e alle autorità di Amsterdam: si taglieranno i muscoli e le scatole craniche dei cadaveri, lasciati nei campi per tre giorni a marcire, per prelevare il dna; inizieranno i confronti con gli spazzolini da denti ritrovati e messi – non si sa con che criterio – in sacchetti dentro alle buste dei cadaveri, o con i parenti, il nonno, la zia, i papà e le mamme che non hanno bisogno di test per riconoscere la propria disperazione, “passiamo da un inferno all’altro”.
Chissà se mai queste famiglie avranno giustizia, se si accerteranno le cause dell’incidente, e soprattutto le responsabilità. Gli americani fin da subito hanno detto che si è trattato di un missile sparato dai separatisti filorussi che (mal)governano l’est dell’Ucraina, sovrapponendosi alle istituzioni esistenti, combattendole in nome della propria appartenenza alla grande madre Russia. Nell’ultimo “case against Mosca” presentato martedì sera, l’intelligence americana ha detto che i materiali raccolti – fotografie, social media e analisi delle intercettazioni vocali fatte dai servizi ucraini – dimostrano che con tutta probabilità si è trattato di un missile Sa-11, sparato per errore (volevano colpire un aereo militare ucraino) dal territorio controllato dai filorussi, ma il coinvolgimento della Russia non è stato accertato. Arriveranno nuove prove, ci sono le scatole nere da analizzare, ed è in corso un’inchiesta ad ampio raggio, la prima operazione di “open source intelligence”, riedizione digitale e raffinata dell’antico “chi ha informazioni utili contatti le autorità”, che però si mischia, soprattutto sui social media, con l’ideologia, la battuta, l’indiscrezione non verificata (si farà forse una guerra per una foto girata su Twitter, in tempi in cui non valgono nemmeno le prove dell’Onu, vedi la Siria?). Nella nebbia dell’indagine si infila Vladimir Putin, che dice: “Se avete le prove, mostratele”, rendendo chiaro quel che si va ripetendo da ore: non c’è una “smoking gun” contro Mosca.
E allora i russi possono raccontare la loro versione, insinuare dubbi: perché il volo Mh17 ha deviato la sua traiettoria poco prima di precipitare? Gli ucraini hanno a disposizione i famigerati Buk-M1, i lanciatori che avrebbero sparato il missile fatale: c’è una foto satellitare del 14 luglio che ne mostra uno, e il 17 luglio non si vede più nella posizione precedente, perché? E quei due caccia ucraini che volavano nella stessa area dell’aereo malese, allora, non possono aver fatto loro l’errore? E via così, tra prove e controprove, e leggendo il filorusso intervistato sul Corriere della Sera da Lorenzo Cremonesi, che dice di essere andato sul posto perché gli hanno comunicato che era stato “abbattuto un aereo di quei fascisti di Kiev”, si capisce che il conflitto continuerà, che si combatte e si combatterà in quella terra contesa, mentre occidente e Russia tirano dalla loro parte la coperta corta dell’identità ucraina.
Non c’è la “smoking gun”, forse non ci sarà, e allora che si fa? La tentazione europea è quella di far passare la tempesta: qualche sanzione nuova, con molte resistenze e cautele e speranze (se Putin fa mosse concilianti, potrebbe bastare). Gli americani alzano la voce e il livello delle misure restrittive, ma fanno pressioni sugli europei perché si diano una mossa da soli: l’occidente deve essere unito, ma chi è a due passi dal problema deve esserlo di più (e quanto ci manca l’America muscolare, adesso). Si discute come se l’aereo non fosse stato abbattuto, come se non fosse necessario risalire alle responsabilità politiche – oseremmo dire morali, se la politica estera dell’occidente non fosse ormai senza coscienza – di chi questa crisi ucraina l’ha creata.
Nell’ultimo anno la Russia ha fatto di tutto per destabilizzare l’Ucraina. Non appena il partenariato con l’Europa è diventato una questione di giorni (e già era partenariato e non ingresso nell’Ue, perché l’Europa con Kiev non è che abbia mostrato grande ospitalità, gli ucraini sono quasi 50 milioni, sono tanti, pesano, se entrano pretendono un commissario a Bruxelles, e sconvolgono gli equilibrismi, e magari vogliono anche circolare liberamente, andare a lavorare in giro per l’Unione, e poi chi li sente gli inglesi?), Mosca ha iniziato a far presente i suoi diritti economico-energetici facendo riemergere la spaccatura eterna del paese. Con l’annessione della Crimea, in violazione di qualsivoglia interpretazione del diritto internazionale (è un’annessione fatta sulla base di ragioni etnico-linguistiche), ha mostrato di poter attentare all’integrità territoriale di un paese sovrano rimanendo impunita – e ha provato ad allargarsi all’Ucraina dell’est. Poi lì si è quietata, i separatisti sono diventati una massa informe e litigiosa di russofoni, russofili, combattenti in arrivo da altri paesi dell’ex Urss, soprattutto ceceni, abbastanza violenti e indisciplinati da diventare quasi fuori controllo. Da settimane Putin finge di tollerare la presenza di un presidente filoeuropeo a Kiev, finge di voler tornare alla normalità, perché le sanzioni comunque qualche effetto lo hanno prodotto, perché forse morire isolati per l’Ucraina dell’est non ne vale la pena, o magari non vale la pena adesso, il tempo gioca a favore della Russia, gli europei sono così deboli e divisi che appena possono evitare di crearsi un problema con Putin fanno presto a riaprire le braccia.
Pur in una manovra distensiva però il campo non è stato sgombrato dai guerriglieri. Cioè: la guerra in Ucraina c’era eccome, l’esercito di Kiev faceva operazioni di riconquista, i separatisti difendevano le loro roccheforti. Kiev aveva chiesto la no-fly zone sull’Ucraina dell’est e le era stata sciaguratamente negata perché l’occidente non voleva riconoscere una guerra ai suoi confini, ma con l’ipocrisia quella guerra non è scomparsa. Le intercettazioni e le interviste dimostrano che il legame tra i separatisti e Mosca c’era, si tratta di personaggi di medio livello, di apparati militari non d’élite, ma il filo non è mai stato spezzato. E quando oggi Putin promette di esercitare tutta la sua influenza sui filorussi, come chiedono gli occidentali, non fa che confermare l’esistenza di quel legame. E’ qui che la responsabilità politica e morale della Russia diventa chiara. Ma nel disordine mondiale in cui ci troviamo, con gli Stati Uniti dalla retorica vigorosa e dall’azione debole, schiacciati da quell’immagine menefreghista del loro presidente che mastica annoiato Nicorette ai meeting sulla sicurezza, con l’Europa che procede con passo claudicante e pare che a ogni movimento si possa spezzare, è difficile trovare il coraggio di identificare un nesso tra responsabilità e conseguenze. Così aspettiamo la “fase 3” delle sanzioni europee, assorbiamo inerti quegli “ora si fa sul serio” che dicono i meno seri tra gli occidentali, guardiamo le bare a Eindhoven, tutto quel nero, quel lutto, quella disperazione, e ci sembra sempre più chiaro che giustizia, per quei morti, non ci sarà.
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