Rembrandt a Gaza, l'evoluzione del gusto e l'insincero entrare nel quadro
La più intensa, struggente, ricca di pathos, si potrà mai dire bella?, tra le dozzine di fotografie provenienti da Gaza e transitate sui nostri schermi, dentro i nostri occhi, in questi giorni l’ho intercettata ieri sulla prima pagina dell’edizione internazionale del New York Times.
La più intensa, struggente, ricca di pathos, si potrà mai dire bella?, tra le dozzine di fotografie provenienti da Gaza e transitate sui nostri schermi, dentro i nostri occhi, in questi giorni l’ho intercettata ieri sulla prima pagina dell’edizione internazionale del New York Times. Una selva di teste, volti di uomini straziati e sudati, in lacrime, accanto alla testa, o cranio, di un uomo morto adagiato su una barella d’acciaio.
Più che una fotografia una pittura, un quadro. Oggetto per cui la categoria della bellezza vale più di quella del vero. La composizione è Rembrandt, il taglio di luce Caravaggio. O forse il contrario, non so. Un Compianto. L’eccellente autore si chiama Sergey Ponomarev, è un fotogiornalista indipendente di Mosca, freelance per il New York Times. Anche le sue foto dalla guerra in Ucraina hanno la stessa forza pittorica, barocca. Sulla prima pagina di Repubblica di ieri un’altra gran foto, senza crediti. Stavolta una Pietà, nella curiosa inversione iconografica di un Cristo emaciato e sconvolto che regge sulle ginocchia un Santo Innocente, una bambina che però è viva. Le piastrelle dietro le spalle riflettono una luce livida. La fotografia di guerra è questo, niente da dire. C’è un (in)naturale surplus d’emozione. Le è pertinente una ricerca pittorica, espressiva. Ma i morti per bomba di Gaza evidentemente hanno qualcosa di più, sia detto senza cinismo, quasi con stupore. La fotografia che ha vinto il World Press Photo nel 2013 è un funerale di due bambini a Gaza, nel 2012. Uomini che piangono e urlano nell’imbuto di una strada. Pura pittura, autore lo svedese Paul Hansen. C’è la testimonianza, la partecipazione del reporter e del pubblico, e maledetto chi non piange per foto così. C’è ovviamente anche la propaganda: com’è che i morti di altre stragi fanno meno Rembrandt? Israele del resto la sua guerra fotografica l’ha già persa da decenni, se mai l’ha combattuta. Ma questa è un’altra storia.
A colpire è il sovraccarico di espressività, quel di più di pittorico appunto, che serve per bucare, passare. Non è nuovo, né colpa di Photoshop, come qualcuno dice. Non è menzogna. Non è da escludere, conoscendolo, che Robert Capa abbia tentato di mettere in posa persino i marines di Omaha Beach, prima che gli sciagurati gli bruciassero i rullini in un laboratorio di sviluppo a New York. Il grande Sergej Ejzenstein ha combattuto corpo a corpo con i tomi d’estetica per il suo Cinema Patetico, struggendosi che gli spettatori potessero “vedere”, fisicamente vedere a colori i suoi fotogrammi in bianco e nero. Del resto la fotografia è quello strumento inventato apposta per poter inondare con il proprio sguardo e le proprie emozioni l’arida realtà. Prima si lavorava di emulsioni, ora si usa il digitale.
La domanda riguarda il bisogno evidente e attuale di pennellare di più. Tre anni fa Time pubbicò una gallery dal titolo “Revisiting 9/11: unpublished photos by James Nachtwey”. Ne sortì un bel dibattito su alcuni blog specializzati (devo la segnalazione all’ottimo Eugenio Cau) perché alcune delle foto del grande reporter, più che inedite, erano solo state modificate nel colore rispetto alla versione del 2001. Dieci anni dopo i colori erano più saturati, drammatizzati, barocchi, emozionali. Il cielo sciapo sopra le Torri diventa cupo e minaccioso, l’arancione smorto delle fiamme tra la polvere è ora un rosso infernale. Che cosa è accaduto, in dieci anni dall’archetipo dell’orrore terroristico, al gusto del pubblico occidentale? Forse avvertiamo la necessità di “compatire di più”? E perché il morto per bomba a Gaza, persino al netto dell’ideologia e della propaganda, è diventato soggetto iconografico principe, come un tempo lo furono certe Addolorate e non altre Madonne, o dame delle camelie? Fa parte dei nostri anni sovreccitati di colori, e dell’estetica sovraccarica che ci gira intorno.
Ma c’è forse anche un punto morale, un bisogno di segnare, attraverso il gesto pittorico, attraverso la nostra adesione al quadro, più che al fatto, una nostra distanza. L’estetica ci assolve dal dovere del sì e del no, del vero e del giusto. La vittima e il carnefice. Resta il bello, l’emozione, il nostro gusto, chissà quanto sincero.
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