Stregati dal deserto
Gli americani ricchi hanno asservito ai loro desideri uno spicchio di California. Sazi della conquista dell’ultima frontiera ora vanno lì a farsi coccolare. E a riscoprire quanto è grande il valore dell’ombra.
Se una città è circondata da una parte da un oceano e dall’altra dal deserto, viene da descriverla come “isolata”, qualcosa che somiglia a un’isola, magari felice. E’ quel che capita a Los Angeles, che ha proprio questa reputazione d’essere una specie di isola, cinta dalle acque e dalla sabbia e anche un’isola felice, oltre che lontana e remota. Oggi, in verità, è tutt’altro che felice, ma ciò di cui vogliamo parlare qui è la sorprendente relazione che a quelle latitudini si è stabilita con uno dei due fattori naturali di cui sopra, col più inatteso della coppia, ovvero il deserto. Che d’un tratto, dagli americani, o almeno da certi americani, non è stato più visto con rassegnata opposizione, come luogo della non-vita e dell’esclusione, come barriera naturale che si frapponeva al contatto con le altre manifestazioni della civiltà, insomma come mortale distesa di polvere che tutto al più motivava l’essenza della città che bordeggia, Los Angeles, paragonabile perciò a un’oasi, luogo di miraggi e illusioni.
Nel pieno fiorire dell’ottimismo novecentesco americano, quando “fare”, “muoversi” e “scoprire” erano parole d’ordine di quella società irrequieta ed energetica, è accaduta una cosa strana: si è cominciato ad amare il deserto. Sarà stato per spirito di contraddizione, per istinto di stravaganza, per la fascinazione di quei cromatismi e di quei profumi sconosciuti, ma comunque è bizzarro che gli americani guidati da alcuni curiosi rappresentanti – gente del mondo dello spettacolo e presto, al seguito, personaggi politici di spicco e facoltosi imprenditori – piuttosto che la via delle suggestive foreste del nord, o piuttosto che solcare le onde magiche del Pacifico, abbiano preferito inoltrarsi nel deserto, esprimendo l’intenzione di domarlo, bonificarlo, asservirlo ai propri desideri e alla propria curiosità. Eppure è accaduto, le cose sono andate così, al punto da far nascere uno stile di vita del deserto, di cui osserveremo alcune peculiarità. Non prima di sottolineare un fattore che, alla lunga, appare decisivo in questa improbabile relazione, nel suo inizio e nel suo florido svilupparsi: conquistando il deserto sud-occidentale, gli americani del ’900 hanno assaporato, per l’ultima volta possibile, il gusto della frontiera, oltre ad avere l’occasione d’inscenare, anche in questo caso per l’ultima volta, l’emozione di un ambiente selvaggio piegato, plasmato, asservito, il brivido dell’avvenuta civilizzazione, allorché il primo sifone da seltz avrà sibilato tra le dune. Percorrendo a ritroso la loro vorticosa parabola nazionale, la storia di un’entusiastica, muscolare colonizzazione interna, prendendosi infine anche il deserto, negandone l’inutilità, riducendo i coyote a figurine folk e pianificando fastosi campi da golf sovrapposti al mare di rocce e sassi, gli americani hanno sfiorato nuovamente la vertigine della libertà assoluta che coincide con lo spirito nazionale e ne rappresenta il fondamento. Il deserto come libertà, spazio vuoto da punteggiare a piacimento, immensità senza regole.
Prenderlo e riusarlo: in fondo, è solo questione di fantasia. E di dollari. Ebbene, quando il Novecento era giovane, c’è stato un attimo in cui, nella California meridionale, un nutrito gruppo di persone disponeva di fortune tali, che il problema era come dissiparle. Perché, allora, non rendendo mansueto, anzi, glamour il deserto? Salvo poi, inspiegabilmente, restarne stregati.
Direte: be’, ma Las Vegas, no? E’ Nevada, ma il deserto è sempre deserto. Però non è la stessa cosa. Nel caso di Las Vegas il proposito originale, da subito, era trovare una zona franca, un posto protetto, dove far prosperare e trasformare in potente industria quella tentazione dotata di prospettive epidemiche: il gioco d’azzardo. Cosa meglio che mettersi al riparo del deserto, e là fare i propri comodi senza venire disturbati? A costo zero, praticamente. Perché a chi volete che interessi quel che succede tra pokeristi assatanati che si danno convegno in mezzo al deserto? Cercare fortuna o autodistruggersi in un non-luogo, privo di scrupoli e sfornito di etica. Il resto venne dopo: il rapporto tra il vuoto circostante e l’extra-pieno dell’invenzione di Vegas come tempio dell’immaginazione, della replica, del sogno. Las Vegas resta l’espansione sesquipedale di un luna park a tema, il cui tema è la ricchezza, o almeno la sua illusione, in un momento d’estasi, oblio e felicità. Ma era un fattore di comodo, costruirla in mezzo al nulla. Invece, parlando del deserto californiano, è diverso. Non si tratta di sopportare Vegas, per istupidirsi con la mania del gioco. Qui si tratta di riadattare a un contesto folle il lifestyle borghese e in apparenza perbenista. Giocare al galateo dei costumi su Marte. Scegliere uno spicchio di deserto e costruirci una casa costosa e firmata, dove trascorrere i weekend invitando gli amici e attirando le celebrità. Si tratta di divorare il deserto e farne l’estrema decorazione del proprio gaudioso benessere.
“Noi non lasciamo mai nessuno indietro”: è uno dei motti preferiti dagli americani, un comandamento rassicurante, anche se non sempre veritiero. Ha a che vedere col non rinunciare, col trovare soluzioni. Già, soluzioni: per esempio, sottrarre il deserto alla sua fatale natura, appunto desertica. Non concedere neanche alla natura il controllo sul suo futuro. Il deserto non è detto che debba essere tale, se è americano. Va bene, sarà inospitale, pericoloso, immobile, passivo. Inutile, per la sua innata condizione, desertica appunto. Ma se il deserto si trova alle spalle di Los Angeles – città dell’invenzione lungo buona parte del Novecento – se il deserto è quello che si stende superata la corona delle montagne di San Bernardino e la marea suburbana che le abita, lo spettacolo che ci si trova davanti è suggestivo per gli occhi e stimolante per la mente. In posti così lo specifico americano ha continuato a correre, a rotolare sulle dune, a inscenare piroette della fantasia. Così, in un batter d’occhio, architetti dell’International style ebbero una miriade di commissioni dalle star e usarono Palm Springs e Rancho Mirage come luoghi delle loro sperimentazioni urbanistiche.
La sfida del deserto diventava elucubrazione, visione, invenzione: il deserto può essere altre cose, può essere un rifugio sexy, può essere in continua mutazione, in contraddizione con la sua apparente inanità. Il deserto, appunto, può essere fieramente americano. Ma come? Osservando malinconicamente Las Vegas, non si era stabilito che l’ironia da cartoon del Bengodi nel mezzo del nulla, popolata di prostitute e slot machine, altro non fosse che la vecchia provocazione postmoderna teorizzata da Robert Venturi per demolire le fatiscenti categorie industriali – tutti precetti decotti col tramonto del Novecento?
Qualche tempo fa, l’habitué Barack Obama è sceso col suo aeroplanone sulla pista di Palm Springs per passare il fine settimana della festa del papà a Rancho Mirage. Con Michelle, prima ha visitato l’attigua riserva indiana, poi s’è chiuso nella magione del suo ospite, Michael Smith, l’architetto di interni che nel 2010 ha ristrutturato lo Studio Ovale, e del suo partner, l’ambasciatore americano in Spagna James Costos – ammiccamento notevole alla società gay americana, che non a caso, proprio del deserto californiano e delle sue rarefatte comunità, ha fatto una delle proprie roccaforti. La scena gay della valle è vivacissima e c’è un divertente saggio intitolato “A City Comes Out”, firmato dal giornalista David Wallace, che racconta come le cose siano cambiate a Palm Springs e dintorni, dai tempi in cui un reverendo fu cacciato dalla città allorché si scoprì la sua omosessualità. “Sono state le celebrity e la loro disinvoltura sessuale a trasformare quest’area in un paradiso per gay e lesbiche, se è vero che gli eventi di maggior successo al locale Art Museum sono quelli organizzati per finanziare le associazioni omosessuali”, scrive Wallace.
Rancho Mirage è una delle nove città della Coachella Valley e non ha più di mezzo secolo di storia, nata dall’accorpamento di “comunità” sparse nella zona, dai fantasiosi nomi di Desert, Magnesia, Palmas, Tamarisk o Thunderbird. I residenti sono tremila, ma coi turisti, in alta stagione, la cifra si decuplica. I primi, caotici insediamenti risalgono agli anni Trenta, ma solo col secondo Dopoguerra e l’avvento dell’aria condizionata, la cosa prende piede e decolla nel 1966 quando viene ultimata la costruzione di Sunnylands, la tenuta degli Annenberg, composta da una villa principale, tre cottage per gli ospiti, campo da golf privato, undici stagni artificiali e la celebre collezione di capolavori artistici (Picasso e Van Gogh inclusi) che sarebbero stati donati al Met dopo la morte di Walter Annenberg, tycoon della stampa americana con trascorsi da ambasciatore nel Regno Unito. Nella loro tenuta, nascosta agli sguardi indiscreti da un alto muro rosa, sono passati tutti i presidenti americani, da Eisenhower in poi (solo Kennedy e Carter mancano all’appello). I giornali l’hanno definita la “Camp David del West” e Richard Nixon era a Sunnylands quando Gerald Ford pronunciò il perdono per le sue malefatte del Watergate, mentre i Reagan per 18 anni passarono invariabilmente il Capodanno qui. A Ford il posto era talmente piaciuto che a sua volta comprò una casa nelle vicinanze e là è morto nel 2006. Del resto Rancho Mirage è celebre per la sua aria secca, che fa tanto bene agli anziani. Che sia anche un’aria di morte non è difficile percepirlo. Ma comunque, a fine anni Settanta, la famiglia dello scià di Persia trovò rifugio in questo paradiso, la regina d’Inghilterra e il consorte si sono fermati a pranzo a Sunnylands e Margaret Thatcher ci ha passato un weekend. Poi, ovviamente, le celebrità di L.A. hanno fatto sempre a gara a frequentare casa Annenberg: da Frank Sinatra, che nel ’76 ci celebrò il matrimonio con Barbara, a Bob Hope, Fred Astaire, Gregory Peck, Bing Crosby, Truman Capote, Sammy Davis jr. Adesso Sunnylands è una fondazione, considerevolmente tetra e rimessa ufficialmente in funzione lo scorso anno, per il summit “in maniche di camicia” tra Obama e il presidente cinese Xi Jinping. In questo scenario, dev’essere stato una faccenda piuttosto inconsueta.
C’è il valore dell’ombra. Uno dei motivi del successo di queste location, è dovuto alla presenza, al centro di questo esteso territorio desertico, di un massiccio montagnoso alto e severo, le San Jacinto Mountains che, per buona parte della giornata, proiettano un’ombra lunga sul territorio sottostante, contribuendo in modo decisivo al microclima di cui si gode tra Palm Springs, Indio e Rancho Mirage. I negozi del posto hanno le vetrine schermate da tende riflettenti, che restano abbassate finché il sole picchia inesorabilmente sulle strade delle cittadine. Poi, nel pomeriggio, ci pensano le montagne di San Jacinto a mandare a riposo quello strabordare di luce e calore. Tutto prende omogeneità, la luce diviene piatta e morbida, la temperatura temperata e asciutta. Un miracolo di equilibri. Passando qualche pomeriggio vagando in macchina per la Coachella Valley, si ha la sensazione di muoversi in una realtà parallela, in un compound artificiale votato all’intrattenimento del corpo e dello spirito, ambientato in uno scenario unico, “conquistato” e potente. Una messinscena. Un’esperienza esclusiva.
Dunque non è un caso che il deserto abbia attirato le celebrità di Hollywood, fin dai tempi del muto. E’ il segno di una spontanea affinità, oggi evocata dalla mappa stradale di Rancho Mirage dove tutte le strade hanno i nomi degli habitué d’una volta, Sinatra e Bing Crosby, Clark Gable, Desi Arnaz, Lucille Ball, Dean Martin, Danny Kaye, i Marx. Ciascuno con l’avenue che porta il suo nome. Cosa cercavano in questo posto dimenticato da Dio, dove la bellezza è un’esperienza estrema? Il gusto d’appartenere a una cerchia ristretta, che si procurava una comune emozione in un’ambientazione lunare, un altro asterisco della Hollywood Babilonia sospesa tra arte, stravaganza, vizio e anarchia. La fastosa decadenza nel deserto di una repubblica indipendente del privilegio, dotato di status speciale, in quanto nata dal riscatto di un “nulla”, di una valle desertica che nessuno aveva voluto, che nessuno s’era dato la pena di strappare alle bande di indiani che l’abitavano. Intuito il potenziale edonistico di un posto del genere, erano venuti qui, ci avevano costruito case e circoli meravigliosi, ci avevano portato le risorse necessarie, acqua, verde, vegetazione artistica, opere d’arte, case da gioco, cavalli e mazze da golf. Non rubavano niente a nessuno. E presto anche la gente normale desiderò l’esperienza di montare in macchina con l’amante di turno, per un folle weekend nel deserto, una festa lontano dall’ordine costituito.
Il Coachella Festival, ogni anno, si estende per due weekend e si tiene nei terreni dell’Empire Polo Club a Indio, una delle località della valle, puntando proprio sulla connessione tra l’esperienza del deserto (in chiave hippie, a distanza di sicurezza da qualsiasi controllo) e un programma di esibizioni musicali di gran livello, coi nomi più caldi dell’elettronica, della dance, dell’hip hop e del rock che si esibiscono su tre grandi palchi all’aperto e tre enormi tendoni da circo. Il tutto condito, secondo gli intendimenti del fondatore Paul Tollett, da un ventaglio di manifestazioni artistiche, installazioni e performance. Si cominciò nel ’93 con un concerto dei Pearl Jam, come manifestazione di boicottaggio contro lo strapotere di Ticketmaster, l’organizzazione di prevendita dei biglietti per i concerti rock. L’esperimento funzionò, ma solo nel ’99 si è tenuta la prima edizione del festival, che da quel momento si è espanso fino a diventare un appuntamento da 300 mila partecipanti, addirittura più popolare di Lollapalooza, per chi crede ancora nel potere rinfrancante e libertario della musica.
Dunque, un deserto che si evolve, contraddicendo l’assunto di immobilità e come una qualsiasi porzione di territorio abitato. Un tempo, nel Novecento, artisti stravaganti e debosciati. Oggi pensionati in cerca di ossigeno sanificato e tardo-hippie a caccia del cosmico contatto con la madre terra, dentro la riserva di un megafestival post pop. Il deserto della California ha la sua agenda, i suoi resort all inclusive, i suoi casino, i suoi appuntamenti internazionali, almeno per quanto può offrire il West. “Valhalla in the sun”, mi sussurra ironicamente un vecchio residente. Con un filo di nostalgia: riempito il grande vuoto, schematizzata la sua natura disintegrata, resta l’impressione di qualcosa di assurdo, di una specie di fissazione a cui si è dato spazio, all’ennesimo trionfo di un’ossessione. Che poi, del resto, è una sensazione tutt’altro che inusuale, se si perde tempo cercando d’inseguire il senso dello stato mentale della California.
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