L'invasione dei curricula
L’autostrada della precarietà ingombra di curricula l’esistenza di molti ragazzi. E poi scrivono quelli in cerca di candidatura. Non c’è amministrazione (o grillino) che non ti inchiodi a un cv, certificazione di esistenza in vita.
“Che cos’è necessario? / E’ necessario scrivere una domanda, / e alla domanda allegare il curriculum…” (Wislawa Szymborska, “Scrivere il curriculum”)
Tale e quale la mano che la zingara della Zanicchi prese in mano – “dimmi pure che destinoooooo avrò” – è adesso il curriculum. Chiunque lo esige, chiunque lo prepara, ognuno lo pratica. La demenzialità brama il curriculum – la certificazione dello stesso essere in vita, la mortifera elencazione, la mortificante esibizione spesso di così poche virtù. E’ la nostra quotidiana mignottesca vetrina di Amsterdam – tutti curricula scrutiamo, tutti curricula scriviamo. Tette. Lingue. Lingua. Madrelingua. Cosce. Esperienze. Fianchi. Competenze. Culo (averne). Dati anagrafici. Liberatoria privacy. Forza, bello, andiamo? Cocco mio, ci stai a pensà? Quando un politico non sa fare niente, quando un sindaco poco sta facendo – ecco, il miracoloso gravoso impegno che lo trattiene, il trastullo che lo distrae, il dovere che lo svia: “Sto leggendo i curricula per selezionare i migliori”. Cazzo! I migliori, poi. Sempre i migliori, ovviamente. Niente di meno dei migliori. Mica quelli di mezzo, i vediamo-se-funziona, i proviamo-e-che-dio-ce-la-mandi-buona. Manco i “Libri Haruspicini” degli etruschi – per volo d’uccelo e viscere di animali ammazzati dai fulmini vengono scambiati quei volubili/volanti fogli A4, foto graffettata lassù in alto. E’ una pioggia, un diluvio, una perenne invocazione. Come la banana di Sordi e Vitti, oggidì il curriculum – ’ma ’ndo vai se non ce l’hai? Scrivere. Limare. Aggiungere. Togliere. Correggere. Sistemare. Né troppo né poco. Il giusto? Ma non sarà troppo? Ma non sarà poco? Si possono passare giorni e mesi e anni a leggere i curricula – quasi inutilmente: sempre una faticosa e fantasmagorica fiera delle (piccole) vanità. Quasi sempre in un linguaggio morto e stitico – va bene ai cacciatori di teste (con cosa all’interno?), ai fedeli dei tuìt che si spiaggiano dopo centoquaranta battute, ai curiosi da questura senza nemmeno la centesima complessità di una schedatura de questura opera de puro questurino. “Carte, carte: cartoffie e scartoffie. Tutt’Italia nun è che na gran pila de cartoffie; p’uno che legge, diosanto, ce ne so’ diecimila che scrive. Carte, carte e poi carte…”: e lo strisciare ormai silenzioso via mail nulla toglie al fruscio cartaceo che provocava gli incubi gaddiani.
“A prescindere da quanto si è vissuto / il curriculum dovrebbe essere breve…” (W. S.). Il cretinismo stellare, persino siderale, pretende il curriculum. E lì arare, ravanare, scrutare. Sempre vite degli altri sono – sempre il piacere (che pure di dovere si ammanta) di fare cappoccetta nell’altrui esistenza. Venghino, signori, venghino – a rimirare del poco o del tanto o delle cazzate di costui! C’è, si capisce, da fare buona differenza tra il curriculum che serve per trovare/implorare/cercare un lavoro – o cercare/trovare/scovare il lavoratore (ipotesi, peraltro, ben più rara) – e il recente debutto del curriculum come appendice, cornetto rosso, medaglietta di benemerenza sul palcoscenico della nuova politica, luce dell’ombra della faccia da spioncino che spesso contraddistingue il bravo cittadino – de società civile, se sa. E bravissimi cittadini devono essere quelli pentastellati, dalle budella che bruciano – a motivo di sacrosanta indignazione, si capisce, ché la lotta per la democrazia è insieme tortuosa e ulcerosa e gastritica. Loro, più di altri – ma mica solo loro, come si vedrà – hanno la passione per il curriculum, lettura di poco impegno seppure di certa soddisfazione. Così, quando settimane fa toccò finire nel loro obiettivo a Tommaso Ciriaco, giornalista di Repubblica – la contemporanea presenza sul globo terracqueo tanto di sordidi cronisti quanto di intrepidi condottieri quali il Di Battista o il Crimi è patimento stellare che non riesce a trovare consolazione né a largo dei bastioni di Orione né di quelli di Sant’Ilario – uno dei capi d’accusa fu proprio il seguente (“a parte il fatto che è calabrese , ma in Calabria non lo conosce nessuno”: sembra ci sia gente di Roccella Jonica del tutto ignota a Roseto Capo Spulico): “Pare addirittura che Tommaso non abbia mai lavorato in un giornale locale della sua regione. In rete è invisibile, a parte un profilo Twitter, non ha un sito, non è reperibile un suo cv. Che ha fatto nella vita?”.
“E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti. / Cambiare paesaggi in indirizzi / e malcerti ricordi in date fisse…” (W. S.). Ah Tommy, calabrisello mio mmaccabrecciu e zzappagghjùni, chi cazzo sei che non c’è neppure un cv su di te? Un lupo della Sila? Un trafficante di bergamotto? Uno spacciatore di nduja? Quelli di scarsa fantasia e rapida consultazione vanno in tilt come le palline dei flipper di una volta, se manca il cv – il curriculum vitae, la pubblica esposizione, non meno sacrale tipo velo della Veronica. E siccome – su mandato di Largo Fochetti, si sa, bracca i grillini magari al cesso e magari sui binari, e giù balle e balle e balle! – “si potrebbe pensare che sia dei servizi segreti”, cazzu cazzo! La spia che venne dall’Aspromonte, il bravo/oscuro/innominato Ciriaco. Ecco, quando il venerato cv latita (dovrebbe passarlo la mutua a tutti, piuttosto, dovrebbero distribuirlo c/o le locali spett.li caserme dei cc – il cv), George Smiley ci vuole, Jack Ryan prima e meglio dell’on. Di Maio potrebbe ristabilire l’ordine. “Quanti Tommasi ci sono nelle redazioni dei giornali di regime italiani?”. E magari, pure tutti uguali cazzoni sprovvisti di cv. Gente che viene dal Molise e manco lì, quattro gatti nell’orto, è conosciuta. Si capisce: se non hanno neppure un cazzo di cv, neppure uno straccio di sito che pure l’ultimo stronzo ce l’ha…
“Di tutti gli amori basta quello coniugale, / e dei bambini solo quelli nati…” (W. S.). E’ così la nuova autocertificazione di esistere in vita, il curriculum. E la politica (mica solo i grillini, seppure tra i grillini la venerazione è giunta a sfiorare la santificazione) del manufatto si è lestamente appropriata. Per esempio, quando un paio di anni fa il Parlamento doveva eleggere il Garante della Privacy, il presidente della Camera Fini invocò una pioggia di curricula (fece danza meglio di certe degli indiani d’America: “Hah-yèe! Hah-yò-ho-o-o-o! Hah-yò-o-o-o! / Dèi del tuono / prestate ascolto / ai magici sonagli…”) su tutti gli eletti d’Italia – “i relativi curricula verranno inviati a tutti i deputati”, sai che impegno e che palle! A Dario Franceschini, capogruppo del Pd, per la contentezza quasi mancavano le parole: “Si tratta di una utile innovazione ecc. ecc…”. Finì tra l’altro con una leghista e, quale presidente, proprio il predecessore di Franceschini, Antonello Soro, dermatologo di chiarissima fama. “C’era bisogno di un medico per questioni di privacy nella sanità”, spiegò qualche democratico senza peraltro piegarsi in due dalle risate. Persino l’Unità ammise: “L’ennesima brutta figura (anche del Pd)”. E su Repubblica si diede certificazione del “mito infranto del curriculum” – “questo è diventato un totem mediatico da venerare, nella superstiziosa convinzione che potesse risolvere d’incanto la scelta di candidature ‘super partes’”, secondo Giovanni Valentini, “è risultato alla fine un rito ambiguo e improduttivo”.
Ecco fatto. Ma ai politici, il mantra del curriculum è entrato in testa, si è fatto strada tra le disponibili meningi, e non c’è modo di schiodarlo – e viene sempre buttato, a un certo punto, nel mezzo della discussione: quasi sacrale indiscutibile proposta, saggia trovata sempre, furba scappatoia pure. Non c’è chi non annuisca vistosamente, allora: ah, il curriculum, ecco, bene, adesso tutto cambia, trasparenza!, trasparenza!, politici e cittadini di colpo si ritrovano uguali e festevoli, a mo’ di culo e camicia… La costante rottura di palle e di senso con la lagna della democrazia digitale – che è un po’ come la democrazia aggiustata col photoshop – per poi risalire lassù verso Kafka, verso l’impiegato di Gogol, verso i grandiosi Totò e Peppino, ragionieri Guardalavecchia e Colabona, nel disperato tentativo di accreditarsi col capoufficio. L’anno scorso diceva il sindaco di Roma Ignazio Marino – quando ancora non era sindaco di Roma: “Il criterio di scelta non sarà quello dell’indicazione dei partiti ma quello del merito. Sto raccogliendo curricula, anzi chiedo alle persone particolarmente preparate nelle aree strategiche come mobilità, bilancio, sport, sussidiarietà e famiglia, di inviare il proprio curriculum perché dobbiamo scegliere le persone migliori”. Si vede che tanto auspicato ben di Dio, via curriculum, alla fine non è sopraggiunto, così qualche mese dopo, ormai sindaco, quando certi maiali furono sorpresi a passeggiare là dove il monnezzaro non si vedeva, così ancora Marino rispose, “stiamo esaminando i curricula più prestigiosi per cambiare la leadership” (di quelli che la monnezza dovrebbero far raccogliere, si capisce).
“Conta più chi ti conosce di chi conosci tu. / I viaggi solo se all’estero. / L’appartenenza a un che, ma senza perché. / Onorificenze senza motivazione…” (W. S.). E rieccoci: sempre un curriculum di mezzo, quando la soluzione non c’è. Anzi, curricula – che ce ne vogliono tanti: decine, centinaia, migliaia. I “più prestigiosi”, poi, va da sé, sia mai che si presentassero quelli più scarsi, quelli più fessi, quelli più taroccati. Solo prestigio traspare, solo autorevolezza si considera, solo genio si tiene in conto. Un magico gioco di prestigio (quasi a proposito dei prestigiosi stessi), dove i meglio si propongono e dai meglio vengono pensosamente scelti, in un reciproco surreale inchinarsi gli uni agli altri – e chiacchiera e carta, che verso l’eccellenza della società civile fanno volume, compensano mediaticamente la povertà dei risultati. Un curriculum dopo l’altro – con la speranza di essere rapiti da sapienza finora tenuta ingiustamente interrata. Eppure, a sapere, eppure, a potersi regolare, c’è la felicissima intuizione di Renzo Piano, grande architetto e senatore a vita: “Ma per favore non i curricula. Migliori sono i curricula e peggiori sono le persone”. E quel povero simpatico Cristo dell’appena eletto sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, ingegnere aereospaziale, che per una città di 160 mila abitanti si è visto travolto e si è dovuto sorbire più di seicento curricula (ci fu apposito bando, a tal proposito) – transumanti pure dall’estero – per scovare nel parapiglia qualche degno assessore: e uno se ne trovava e si doveva rimuovere entro ventiquattr’ore, e certi altri si palesavano e non piacevano ai dissidenti pentastellati (c’è pure il meet-up di cui tener conto, dopo il curriculum: si vede che ogni inutilità se ne porta dietro un’altra). Danno da fare, i curricula, quasi più di certi scontrini disgraziatamente smarriti l’anno scorso da una cittadina in vista – e di cui lungamente e fessamente si discusse.
“Scrivi come se non parlassi mai con te stesso / e ti evitassi…” (W. S.). Appositi siti consigliano su come preparare al meglio, “preparalo con cura!”, il proprio curriculum – cosa mettere, cosa non mettere, come mettere le cose. “Dettaglia meglio una certa esperienza o corso di formazione…”. Dettaglia/ritaglia/frattaglie. Niente (poetiche) cianfrusaglie, siate uomini! La grafica, si raccomanda la grafica, “ti consiglio la base del Curriculum Europeo formato Europass”, oh... La punteggiatura, attenzione, “metti in luce i tuoi punti di forza”. Sii conciso, che rapidi sono, “i referenti di Risorse Umane che fanno screening di Cv impiegano nella lettura circa 30 secondi per Cv”. Prima persona, ché la terza persona pare un voler scansare le responsabilità. Il font giusto, e niente italiano sciatto, hobby e “progetti per il futuro”. Ovvio che un conto è (dovrebbe essere) preparare il proprio curriculum per una richiesta di lavoro, altro per una candidatura. Nel primo caso le regole (quelle sopra) possono apparire surreali, ma sono giustificate; nel secondo caso sono semplicemente ridicole. L’autostrada della precarietà che incombe ingombra di curricula l’esistenza di molti ragazzi – purtroppo anche di molti che ragazzi non sono più. Poco orgoglioso proporsi: più spesso quasi prova di sottomissione, a leggere le cronache.
E del resto, che cavolo di orgoglio può mai esserci, nel proprio curriculum vitae – pure se è “corso della vita”, che cazzo c’entra con la vita stessa? Lo racconta benissimo, su uno di questi siti, un ragazzo che ha spedito vagonate di curricula per ogni dove, in ogni modo – silenzio, a parte un ospedale di Londra e uno di Spagna, e che alla fine sbottava: “Se in Italia ci fosse lavoro un disoccupato italiano non sarebbe costretto a fare migliaia di domande di lavoro facendo sapere i cazzi suoi tramite curriculum vitae inviati a mezza Italia!” – ci si appende come quarti di buoi, a cercar lo sguardo della massaia frettolosa. Questo è una cosa (triste). Ci sono poi quelli in cerca di candidatura – i cinquestelle hanno giustamente messo in rete (ah, far “sapere i cazzi suoi”!) i curricula ricevuti, dove si segnalano anche (a parte lo svolgimento di attività quali “Consulente loyalty e micro-marketing”, “Senior sales manager”, Key Account Gdo”) più terrene passioni come calcetto e pallavolo, chi è “bagnino di salvataggio”, chi è “dipendente macelleria Scipero Roberto presso centro commerciale Vallescrivia”, chi insegna la batteria, chi “ho 45 anni e non li sento proprio”, beato lui, chi “si approccia ai problemi con equilibrio”, chi “vinciamo noi: tutti insieme!”. Chi si fa dantesco, nel felice congiungimento tra la Divina Commedia e la commedia del movimento, “a riveder le stelle!”, e chi, più ereticamente, felicemente si appoggia alle rimembranze del Piccolo Principe: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“Sorvola su cani, gatti e uccelli, / cianfrusaglie del passato, amici e sogni…” (W.S.). Prima che la vanità dei politici si esprimesse nella caccia al curriculum prestigioso – ché prestigiosi, ovviamente, si ritengono i cacciatori – erano gli stessi politici (essendo la loro vocazione intessuta di vanità) a stendere i curricula sotto forma di autobiografie per la Navicella, il volume che ognuno li fotografa (si possono serrare gli occhi) e che a tutti chiede di raccontarsi. E come nel curriculum, la patacca spesso si nasconde nel maggior dettaglio. Lì, in quei vecchi volumi – non che i nuovi non conoscano simili abissi di grottesco: leggere per credere – ormai tra lapidi e polvere, in uno sfrigolìo fantozziano di “Cav. Com. Gr. Uff.”, di chi ha avuto il premio “Varie Umanità”, di chi ha vissuto “nel Mugello, patria di Giotto, del Beato Angelico e di Andrea del Castagno” (che del fatto non portano alcuna responsabilità), dell’on. Cicciolina che “girava nuda in macchina per Roma con un carciofo radioattivo in mano” (questa certo benemerenza che pochi altri possono vantare), onorificenze a tutto spiano – “senza merito”, viene il sospetto, come al poeta – Santi Sepolcri e Cavalierati per tutti, la University of Berkley, di sicuro meno impegnativa della famosa Berkeley californiana, chi è professore emerito persino in Honduras, e chi si è addottorato all’università di Taipei, proprio lì a Taiwan, ecc. ecc… Piccole vanità – un principio di Totò turco napoletano: l’inessenziale portato al trionfo dell’essenzialità, a impressionare i più sensibili stomaci. Ed ecco, a dire di ciò che il curriculum può contenere o non contenere – ma lo stesso non avere oppure avere. Eugenio Montale, senatore a vita, sta tutto in due righe, proprio due: “E’ nato a Genova il 12 ottobre 1906 e risiede a Milano. Dottore in lettere, giornalista, scrittore, poeta, premio Nobel per la letteratura nel 1975”. Tutto qui. Inesauribile – ciò che meno a un curriculum somiglia.
“Meglio il prezzo che il valore / e il titolo che il contenuto. / Meglio il numero di scarpa, che non dove va / colui per cui ti scambiano…” (W. S.). In dileggio del curriculum piegato al politicamente corretto e all’opportunismo politicante, va qui reso onore a chi il massimo sberleffo vi arrecò, un fenomenale graffio felino, con divertimento (forse) suo e con generalizzata ammirazione (nostra): Oscar Giannino. E’ stato il più geniale, inaspettato ambasciatore del Catonga che la storia, satolla di stucchevole autoconsiderazione, del giornalismo e della politica ricordi. E insieme, soprattutto, quasi perfetta altissima metafora borgesiana – persino non un semplice doppio, quello di Oscar, ma un se stesso raddoppiato, dilatato, ricollocato. Il suo fenomenale curriculum che niente – a detta dei suoi lettori, a detta persino dei suoi detrattori – toglieva o aggiungeva a bravura o simpatia o antipatia o attrazione o avversione, è stata la prova provata dell’inutilità, quando non della dannosità, del mito del curriculum. Né meno, ne sapeva Oscar – e ne sa, che paludatissimi laureati d’oltreoceano concordavano e tuttora annuiscono, né c’è da credere di più. Ma il necessario sì, questo, lo sapeva. Oh, la Chicago Both! Oh, Business School! Oh, Chicago University! Oh, me cojoni! Oh (piuttosto!), lo Zecchino d’oro! Oh, l’Istituto “Bruno Leoni” – quello c’è, oh yes! Niente era essenziale, nell’invenzione simile a una certa grazia letteraria – e perciò tutto era prezioso. Inventare se stesso – come i versi del poeta, capoverso dopo capoverso, cercano di spiegare – non è meno vero del curriculum che in poche righe (trenta secondi, non uno di più: o si piscia o si legge!) quel se stesso vorrebbe riassumere. Piuttosto: nella verosimile invenzione c’è spesso un fondo maggiore di verità della stessa verità solo burocraticamente resa.
“Aggiungi una foto con l’orecchio in vista. / E’ la sua forma che conta, non ciò che sente. / Cosa si sente? / Il fragore delle macchine che tritano la carta” (Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996 – “Scrivere il curriculum”, da “La gioia di scrivere”, Adelphi)
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